Om... sono le note con cui iniziano e si concludono anche gli incontri con la nostra insegnante Mary, nel corso di tecniche di meditazione dell’Atman Kriya Yoga, che si tiene nella casa di reclusione di Parma. Incontri in cui il luogo del carcere, con i suoi infiniti cancelli, porte che si chiudono, limiti invalicabili, diventa il non-luogo, quello dell’Anima che non può essere imprigionata, distrutta né compressa, perché eterna, immortale, assoluta, indescrivibile come Dio, che in quanto assoluto è inconoscibile alla mente umana (S.B. Gita §§ 2.29 ess.). Corpo e Anima non sono la stessa cosa, dunque perché lamentarsi dei dispiaceri, delle malattie, della morte? Sono queste le cose di cui cerchiamo di raggiungere consapevolezza, e superare le sofferenze a cui siamo costretti in questi luoghi.
Per noi che siamo in carcere, ristretti da venti, trent’anni, questi incontri sono tra i pochi momenti in cui finalmente possiamo sentirci liberi e uguali, nel più profondo significato dei termini. Sono momenti in cui tutte le categorie, barriere, pregiudizi umani cadono, svelando l’unità del Tutto con tutti, le connessioni che ci legano al di là delle apparenze, delle paure, dei desideri che costruiscono quelle illusioni che poi ci imprigionano, trasformandoci in schiavi.
In questi incontri impariamo a riflettere, conoscere e combattere i nostri egoismi. E soprattutto ad accettare.
Pratichiamo l’Atman Kriya Yoga, e Mery ci insegna a "viaggiare” nel più profondo di noi stessi.
"Viaggiamo” nel tempo e nello spazio mentre come un mantra le note della Gita riempiono la stanza e accarezzano la nostra anima con parole che al solo ascoltarle assicurano dei punya (S:B:Gita §§ 1,28). 
Personalmente, quello che più mi piace degli insegnamenti della Gita è il principio della reincarnazione. L’idea di quella possibilità infinita di rimediare ai propri errori, di potersi migliorare, di una seconda possibilità che ci può essere data, che a volte è necessario darci. Un’idea che un po’ richiama le parole di Gesù Cristo sul perdonare "settanta volte sette”, perdonare soprattutto se stessi, che a volte è il perdono più difficile. Mi piace perché è un principio che assume i caratteri dell’universalità che si contrappone e smentisce la logica imperante nell’attuale società, quella di non dare alcuna possibilità. Nessuna possibilità d’integrazione per lo straniero, di ricominciare per chi sbaglia, di reinserimento sociale per chi come me è condannato alla pena dell’ergastolo. "Fine Pena Mai” si scriveva sui fascicoli  matricolari fino a qualche tempo fa, oggi sostituito dall’informatizzato 31-12.9999.
In Italia esiste la pena di morte, ma nessuno lo sa. Quella che ti condanna a morire lentamente in carcere, in 3-4 metri quadrati, tra innumerevoli privazioni, peggio che una più umana pena di morte istantanea. Nel nostro gruppo di meditazione siamo tutti condannati a morire in carcere, anche se siamo persone diverse da quelle di 20-30 anni fa incarcerate, in molti casi giovanissimi. Per uscire ci chiedono di accusare un’altra persona. Ci chiedono di scambiare un "corpo” con un altro "corpo”, per soddisfare quei desideri umani, non pensare alla salvezza dell’anima e compiere il nostro dharma, per non incorrere in errore (S.B.Gita § 2.33) Non si è chiamati alla responsabilità ma al "baratto”, non al sacrificio, ma all’opportunismo, questo in un paese "cattolico” che fa riferimento a Cristo immolato sulla Croce.