Cari amici,
Tisha Brown era solita guardare un cartone animato americano che si chiamava “Captain Planet”. Uscito per la prima volta nel 1990, “Captain Planet” era un supereroe ambientalista affiancato da una squadra di cinque “planetari” che combattevano contro lo sversamento di scorie nucleari. Dopo sole due stagioni, il programma terminò. “Captain Planet” venne soppiantato dall’universo Marvel, con la sua schiera di supereroi iperpotenziati. Eppure si può comprendere il valore di questa forma di “edu-tainment”, di intrattenimento educativo: nel caso di Tisha “Captain Planet” ha fatto parte del suo percorso verso l’attivismo ambientale.
Più tardi vide un film chiamato “Gasland”, scritto e diretto da Josh Fox, uscito nel 2010 e vincitore di numerosi premi: divenne un elemento importante nel lancio del movimento anti-fracking. Raccontava la storia delle comunità americane alle prese con la perforazione idraulica. Tisha ne fu profondamente colpita; non riusciva a capire perché, invece di ricorrere a un processo così dannoso per estrarre petrolio e gas da rocce impenetrabili, non si stesse investendo nelle energie rinnovabili. “Il governo e l’industria del fracking volevano trasformare l’Inghilterra in Dallas e pensavano di guadagnare un mucchio di soldi, a detta loro stato tutto fantastico”, racconta. “E io pensai: ok, se riesco a impegnarmi nella campagna quando tutto è ancora agli inizi, forse possiamo fermarli”. Si unì a Frack Off; dopo aver lavorato tutto il giorno come assistente legale, dedicava le sue serate alla militanza.
Tutto ciò contribuì a fare di Tisha una donna capace di azioni coraggiose. Usando un lucchetto da bicicletta, si incatenò alla parte superiore di un’autopompa dei vigili del fuoco, posizionata per bloccare la strada d’accesso all’impianto di fracking di Balcombe, nel Sussex, nel 2013. “Sono stata arrestata due volte, la prima a Balcombe, esperienza davvero spaventosa, ma pensavo: devo farlo per impedire tutto questo. Per me ne valeva la pena, qualunque fosse la multa”. Le sue azioni, i suoi due arresti (a Balcombe nel 2013 e a Preston nel 2015), il trattamento poco gradevole ricevuto dalla polizia a Preston -diciamo pure deliberatamente sgradevole- in un altro sito di fracking, le sue udienze in tribunale, i precedenti penali: tutto questo, per lei, è valso la pena. 
E arriviamo a oggi. Il fracking alla fine non è stato realizzato. “L’Inghilterra non è Dallas”, per usare le parole di Tisha. Tisha ha agito in un clima giudiziario più benevolo di quello in cui ci troviamo oggi. Prima della pandemia c’era forse una maggiore accettazione del diritto di agire direttamente? Di protestare? Di far sentire la propria voce? La tolleranza verso quel diritto umano antico e inalienabile di riunirsi ed essere ascoltati ha cominciato a svanire? È impossibile negarne l’erosione in atto.
Ciò che né io né lei riusciamo del tutto a comprendere è come il continuo indebolimento dei nostri diritti civili, iniziato durante quattordici anni di governo conservatore, si sia intensificato sotto l’attuale governo laburista. Se oggi si verificasse qualcosa come Occupy London -uno delle prime esperienze di attivismo di Tisha- non dobbiamo farci troppe illusioni su come reagirebbe il governo.
È inquietante l’effetto delle recenti azioni di polizia contro gli attivisti di Just Stop Oil e Palestine Action, nonostante l’opposizione ampia e ben informata da parte delle Nazioni Unite, di Amnesty International, di membri della magistratura, della società civile e di innumerevoli altri, compresi ex giudici, giuristi ed esponenti della Chiesa, che hanno tutti chiesto la revoca della proscrizione di Palestine Action come organizzazione terroristica. Uno dei servizi giornalistici più incisivi che ho visto sulla natura kafkiana del comportamento del governo verso Palestine Action è stato quello di Novara Media, che ha intervistato la deputata laburista Jess Phillips domandandole perché avesse votato per vietare l’organizzazione, quando, di fatto, aveva compiuto meno danni delle nostre celebrate suffragette. Non è riuscita a dare una risposta nemmeno lontanamente chiara.
Questo, ricordo, è il Paese dell’Habeas Corpus. Ma non dovremmo dimenticare che è anche il Paese del massacro di Peterloo del 1819, quando gli Yeomanry a cavallo caricarono una folla pacifica, uccidendo 18 persone e ferendone tra le 400 e le 700, tutte persone comuni, con indosso i loro abiti della domenica, che chiedevano la riforma della ...[continua]

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