Il cimentarsi dello storico con la biografia di un esule -ricordiamo volentieri che la biografia di Chiaromonte scritta da Panizza fa parte della serie diretta da Renato Camurri "Italiani dall’esilio”- è impresa omerica. Letteralmente. Nel sintetizzare il lavoro dello storico, Hannah Arendt evocava il celebre passo dell’Odissea, nel quale Ulisse, naufrago e ospite in incognito alla corte dei Feaci, durante un banchetto in suo onore, ascoltando l’aedo intonare il canto delle gesta del luminoso Odisseo nella guerra di Troia, è scosso dal pianto. Non quando i fatti che ora sente narrare erano realmente accaduti -osserva Arendt- [ma] soltanto ascoltando[ne] il racconto Ulisse acquista piena nozione del loro significato. "Ma cosa precisamente il racconto significa? Né l’azione stessa né l’agente, -scrive Adriana Cavarero, sviluppando l’argomento arendtiano- bensì la storia che l’agente nel suo agire si é lasciato dietro: ossia la sua storia di vita”. La differenza fondamentale fra azione e narrazione risiede nella capacità della storia narrata di rendere durevole nel tempo quel potere rivelativo dell’azione che si consuma nell’attimo del suo accadimento (Cavarero 1997). In The Human Condition, Arendt osserva come la vita nel suo senso non-biologico, ossia l’arco di tempo fra la nascita e la morte che è proprio di ogni essere umano, si manifesta nell’azione e nel discorso, entrambi i quali condividono con la vita la sua essenziale futilità: "compiere grandi gesta e pronunciare grandi parole” non lascia alcuna traccia, nessun prodotto che possa durare oltre il momento del loro compimento e pronunciamento. Gli uomini che agiscono e parlano hanno bisogno delle superiori capacità dell’homo faber, ossia dell’artista, dei poeti e degli storiografi, dei costruttori di monumenti o degli scrittori, perché solo attraverso il loro lavoro il solo prodotto dell’agire, ossia la storia di vita che ciascuno interpreta e comunica, può sopravvivere (HC, 173).
Nella misura in cui essa trascende la funzionalità delle cose destinate al consumo o la mera utilità degli oggetti prodotti per l’uso, la biografia come frutto del lavoro della storico contribuisce a costruire un mondo di stabilità in cui l’uomo possa dimorare sentendosi a "casa” (home) (HC, 173). E proprio in questa sua trascendenza, se ne coglie, per dirla ancora con Arendt, la bellezza. È significativo come proprio nel segno della bellezza si apra l’intensa corrispondenza, curata da Cesare Panizza per Una Città, fra Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel, che accompagna gli ultimi anni della vita dell’intellettuale italiano (1967-72). Come osserva Chiaromonte in una sua lettera datata 11 marzo 1967, nella contemporanea società nichilista, o per usare un termine più attuale, narcisista, di bellezza si parla "in fondo solo nel senso di ‘oggetto ben composto’, ‘perfezione sensibile’, ecc. Tutti aspetti "esteriori” (Fra me e te la verità, 2013, p. 4), che chiamano in causa solo la sensibilità (Ivi, p. 5). Attingendo ai suoi taccuini di lavoro, densi di note tratte soprattutto da Platone, uno dei grandi maestri di pensiero della sua vita, Chiaromonte formula una definizione altra di bellezza, che la situa sulla soglia della trascendenza o futilità dell’agire umano: altra è l’esperienza del bello cui si giunge per uno sforzo attuale, attraverso un’attuale contesa tra noi e il disordine dell’esperienza nostra attuale, che è disordine non solo della sensibilità ma dell’intelletto, del comportamento, delle credenze. Qui, in questo sforzo, riuscire a attingere al bello -se è vera riuscita- significa trovare un’armonia, un accordo fra ciò che seduce la sensibilità, ciò che l’intelletto conosce per vero e ciò che la coscienza sente come buono.
Questa, sembra, è la differenza fra il bello formale -d’apparenza, di simmetria, o di bizzarria- e il bello sostanziale e concreto- fra l’arte diletto dell’occhio e dell’orecchio e l’arte che è ‘pacificazione’ (sia pure momentanea, come non può non essere una gioia umana), estasi di una limpidità che non ha nulla a che fare con nessuna cosa reale -con nessun oggetto per quanto piacevole o ‘bello’- di una luce che illumina l’esperienza attuale e le dà senso esaltandola fuori di se stessa per così dire. (Ivi, p. 5-6).
Chiaromonte paragona la Bellezza (con la ‘b’ maiuscola) con "la verità vissuta e contemplata, che è accordo fra l’esperienza del reale e la necessità propria del pensiero: compimento reale di un reale travaglio della ...[continua]

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