Gli ultimi avvenimenti politici in Pakistan rischiano di incrinare il delicato equilibrio dell’esecutivo di Islamabad e, più in generale, di compromettere l’instabile equilibrio regionale. Il 27 marzo scorso,  il ventottenne Muhammad Yousaf si è fatto esplodere nel parco Gulshan-i Iqbal di Lahore, nel cuore della città, dove varie famiglie cristiane si erano riunite per celebrare insieme la Pasqua. 75 le vittime, di cui 29 bambini. Il giorno seguente, nella piccola e ordinata capitale Islamabad, trecento chilometri a nord di Lahore, una folla di 25 mila persone ha occupato le strade della "zona rossa” intorno al quartiere governativo, cominciando un sit-in durato per giorni in segno di protesta contro l’esecuzione di Mumtaz Qadri, l’uomo condannato per aver assassinato in pubblico nel 2011 il governatore del Punjab, Salman Taseer. L’omicidio era stato motivato dal fatto che il governatore, per il quale Qadri lavorava come guardia del corpo, si era pubblicamente espresso in favore di una donna cristiana accusata di blasfemia, reato che in Pakistan è punibile con la pena capitale.
I due episodi danno la misura di quali tensioni politiche, sociali e religiose agitino il paese in un momento molto delicato della sua storia politica. Nato nel 1947 da una sanguinosa spartizione territoriale su base religiosa con l’India, causa della più vasta migrazione di massa della storia (oltre 14 milioni di rifugiati), il Pakistan fu il primo Stato islamico a guadagnarsi il diritto d’esistere sulla base di una identità religiosa.
La rivalità mai spenta con l’India ha addirittura rischiato di trasformarsi in guerra nucleare con la disputa sul Kashmir, regione a maggioranza musulmana ancora contesa. Dal 1979 poi, il Pakistan è diventato una pedina fondamentale nello scacchiere della guerra fredda, offrendo sostegno strategico nell’arruolamento e l’addestramento dei mujaheddin che si battevano contro l’Urss in Asia Centrale.
Durante l’occupazione sovietica in Afghanistan, il Pakistan è stato un rifugio per quasi 5 milioni di afghani. La successiva ascesa del regime talebano a Kabul si è estesa alle regioni settentrionali del paese, dove il leader di al-Qaeda, Osama Bin Laden, ha trascorso i suoi ultimi anni di latitanza, fino alla sua cattura e uccisione nel 2011. Questa travagliata storia politica si è svolta parallelamente a una situazione interna caratterizzata dal rapporto conflittuale fra l’apparato militare e quello civile dello Stato. Così come in molti altri paesi dilaniati da conflitti identitari e territoriali post-coloniali, l’esercito si è progressivamente autoproclamato come l’unica istituzione in grado di difendere l’interesse nazionale, giustificando in tal modo il proprio intervento ogni qualvolta i governi non riuscivano a comporre le loro crisi politiche.
L’ingerenza dell’esercito nella vita del paese  ­(quattro colpi di Stato militari dal 1958 a oggi) è stata giustificata dai generali pakistani con la debolezza delle istituzioni governative nell’affrontare la persistente instabilità politica. Basti pensare che l’elezione del primo ministro Nawaz Sharif nel 2013 è stata la seconda volta in assoluto, nella storia del paese, in cui due governi democratici si sono susseguiti senza ingerenze da parte dell’esercito. Questa situazione ha di fatto cristallizzato un rapporto conflittuale fra due autorità distinte: governo civile e apparato militare. A seconda del periodo e della tipologia delle crisi politiche, queste due entità si sono trovate ora a collaborare ora a scontrarsi per la formazione dell’esecutivo. L’equilibrio sul quale si regge il loro rapporto reso ancor più precario dai numerosi elementi di conflittualità etnica e sociale presenti nella società pakistana. Nel 2001 questi si sono riaccesi con l’inizio della cosiddetta "guerra al terrorismo”, nella quale il paese si è trovato coinvolto, spesso come protagonista riluttante.
Alcuni elementi di fondo aiutano a illuminare questa inquietante situazione.  Dopo l’11 settembre 2001 il Pakistan ha giocato spesso un ruolo ambiguo: trascinato controvoglia al fianco degli americani nella lotta al terrorismo, ha di fatto protetto e foraggiato gruppi jihadisti utilizzati per propri fini geopolitici e di politica interna. Esercito ed esecutivo, divenuti un’entità di fatto con il golpe militare di Musharraf nel ’99, sono tornati a separarsi dopo il 2008. Una prima volta con la presidenza di Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, ...[continua]

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