Michael Walzer, filosofo, è direttore emerito della rivista statunitense "Dissent”. Pubblichiamo un suo intervento uscito all’indomani degli attentati di Charlie Hebdo.

Negli oltre tre decenni seguiti alla rivoluzione iraniana ho osservato i miei amici e conoscenti più vicini (ma anche lontani) di sinistra sforzarsi di comprendere -o evitare di comprendere- il ritorno della religione in quella che oggi conosciamo come "era post-secolare”. Molto tempo fa aspettavamo il "disincanto del mondo”; credevamo che il trionfo della scienza e del secolarismo fosse un aspetto necessario della modernità. E così abbiamo dimenticato, come ha scritto Nick Cohen, "quello che gli uomini e le donne dell’Illuminismo sapevano, e cioè che tutte le fedi, nella loro forma estrema, portano in sé un potenziale di tirannia” (1).

Oggi tutte le maggiori religioni del mondo stanno sperimentando un risveglio significativo; e una religione rivitalizzata non è affatto oppio, come pensavamo una volta, bensì un potente stimolante. A partire dagli anni 70, e soprattutto nell’ultimo decennio, questo stimolante si sta dimostrando particolarmente efficace all’interno del mondo islamico. Dal Pakistan alla Nigeria, come anche in parte dell’Europa, l’Islam è una religione capace di ispirare un gran numero di uomini e donne -soprattutto uomini- a uccidere e a morire in suo nome. Perciò il risveglio islamico rappresenta per la sinistra un momento di prova: saremo in grado di riconoscere e resistere al "potenziale di tirannia?”. Alcuni di noi stanno cercando di affrontare la prova; molti di noi stanno attivamente fallendo. Una delle ragioni di questo fallimento è la terribile paura di essere bollati come "islamofobi”.
Anche l’antiamericanismo e una versione radicale del relativismo culturale giocano un ruolo molto importante, ma queste sono patologie più antiche. Qui c’è qualcosa di nuovo: molta gente di sinistra è così irrazionalmente spaventata dall’Islam che non è stata in grado di considerare le ottime ragioni per temere quelli che definisce gli "zeloti” islamisti, per cui trova difficile spiegare ciò che sta succedendo nel mondo.
La principale prova in mio possesso a sostegno di questa affermazione è l’elenco incredibilmente lungo di link che compaiono se si cerca con Google il termine "Islamofobia”. Molti di questi sono fobici. Io mi sono concentrato sui link antifobici, e così sono finito nel mondo della sinistra online. È un mondo vasto e diversificato, abitato prevalentemente da persone a me sconosciute. È anche un po’ scoraggiante, perché molte patologie della sinistra extra-internet non mancano neppure online. Ovviamente non esiste un blocco omogeneo di sinistra, né dentro né fuori la rete, ma le persone di cui scrivo costituiscono una significativa consorteria di sinistra e nessuno di loro si preoccupa a sufficienza della politica della religione contemporanea, né della politica islamista radicale.
Per quanto mi riguarda, temo qualsiasi forma di militanza religiosa. Ho paura dei fanatici Hindutva in India, dei sionisti messianici in Israele e dei monaci buddisti violenti in Myanmar. Tuttavia ammetto di temere soprattutto gli zeloti islamici, perché in questo preciso momento (non sempre e non per sempre) il mondo islamico è particolarmente agitato e fervente. In realtà, la descrizione che meglio si attaglia agli integralisti islamici politicamente impegnati è quella di odierni crociati. È forse questa una posizione antimusulmana, non un timore, ma una fobia che quindi scaturisce dal pregiudizio e dall’ostilità? Considerate un’analogia approssimativa (tutte le analogie lo sono): se dico che il cristianesimo dell’Undicesimo secolo era una religione che promuoveva le crociate e che era pericoloso per ebrei e musulmani, i quali lo temevano con ragione (e alcuni di loro erano fobici), mi si può tacciare di essere anticristiano? Io so che il fervore crociato non è l’essenza della religione cristiana. Esso è storicamente contingente: il periodo delle crociate nel cristianesimo è venuto e, dopo circa duecento anni, è passato. Saladino ha contribuito alla sua fine, ma si sarebbe concluso da sé. So che molti cristiani si sono opposti alle crociate. Oggi li chiameremmo "cristiani moderati”. E, naturalmente, la maggior parte dei cristiani dell’Undicesimo secolo non aveva interesse alle crociate. Ascoltavano dei sermoni che li incitavano a marciare su Gerusalemme, e poi se ne tornavano a casa. Ma è pur vero che nell’Undicesimo secolo una gran parte delle risorse fisiche, materiali e intellettuali della cristianità era focalizzata sulle crociate.
Le crociate cristiane sono state a volte descritte come il primo esempio di islamofobia nella storia dell’Occidente. I crociati erano spinti da una paura irrazionale dell’Islam. Immagino che sia vero. Erano spinti anche da una paura ancor più irrazionale del giudaismo. Erano estremisti religiosi feroci e spaventosi -e questa affermazione non è anticristiana.
Si può e si dovrebbe dire lo stesso degli islamisti di oggi. Anche se la violenza jihadista non è prescritta dalla teologia islamica; anche se ci sono molti musulmani "moderati” che si oppongono alla violenza religiosa; e anche se la maggior parte dei musulmani è ben contenta di abbandonare gli infedeli e gli eretici al loro destino ultraterreno, io so che esiste una "jihad dell’anima” oltre alla "jihad della spada”, e che Maometto ha dichiarato apertamente che la prima è la Jihad più grande. Riconosco pure che il mondo islamico non è monolitico. Leggendo i quotidiani, ognuno può rendersi conto che nemmeno gli zeloti islamisti sono un unico blocco. Al Qaeda, i Talebani, lo Stato Islamico di Iraq e Siria (Isis), Hezbollah, Hamas e Boko Haram, tanto per citare alcuni degli esempi maggiori, non sono la stessa cosa. Tra loro possono esistere discrepanze teologiche significative.
Occorre notare, inoltre, che i molti milioni di musulmani in Indonesia e in India sembrano essere relativamente immuni al fanatismo, sebbene Jemaah Islamiyah, una rete islamista del sud-est asiatico, abbia seguaci in Indonesia e sia stata accusata di alcuni importanti attacchi terroristici in quel paese.
Nonostante tutte queste precisazioni, è fuor di dubbio che la "jihad della spada” sia molto potente, oggi, e che sia temuta da non credenti, eretici, liberali secolarizzati, socialdemocratici e donne emancipate in gran parte del mondo islamico. E la loro paura è assolutamente razionale.
Ma, ancora una volta, mi trovo spesso di fronte a persone di sinistra che sono più preoccupate di evitare l’accusa di islamofobia, piuttosto che di condannare il fanatismo islamista. Questa posizione appare strana rispetto al mondo musulmano odierno, ma ha senso, almeno in parte, nell’Europa e forse anche in America, dove i musulmani sono immigrati recenti, oggetto di discriminazione, sorveglianza e a volte anche brutalità da parte della polizia, nonché ostilità da parte della popolazione. Ho sentito definire i musulmani "i nuovi ebrei”. L’analogia non calza, in quanto i musulmani nell’Europa occidentale non sono mai stati attaccati da crociati cristiani, espulsi da un paese dopo l’altro, costretti a vestirsi in modo riconoscibile, interdetti da molte professioni o sterminati dai nazisti. Di fatto, attualmente alcuni militanti musulmani sono tra i principali promotori dell’antisemitismo in Europa (ricevono anche aiuti dai neofascisti in Francia, Germania e altri paesi). In America, l’etichetta di "nuovi ebrei” non funziona. Secondo le statistiche fornite dall’Fbi, tra il 2002 e il 2011 sono stati commessi 1.388 crimini d’odio contro musulmani americani, 9.198 contro gli ebrei americani e 25.130 contro i neri americani (2). Dobbiamo difendere tutte le vittime dell’odio, ma non è sbagliato riconoscere dove si annida il pericolo maggiore.
È vero che i musulmani d’Europa (e, in misura minore, anche quelli d’America) sono una minoranza discriminata; essi ricevono, con ragione, il sostegno della sinistra, che a sua volta, anche qui con ragione, spera di ottenere i loro voti una volta che saranno diventati cittadini.
Ci sono molti gruppi di destra che fanno campagna contro l’Islam, non soltanto schegge di gruppi di estrema destra, come la English Defence League nel Regno Unito o Die Freiheit o Pro-Deutschland in Germania, ma anche partiti populisti che possono contare su un ampio sostegno elettorale, come il Front National in Francia o il Partito per la Libertà in Olanda.
Poiché tutti questi gruppi dichiarano di temere l’"ascesa” dell’Islam in Europa, per chiunque si collochi a sinistra l’islamofobia è diventata politicamente scorretta -anzi, addirittura moralmente scorretta.
L’islamofobia è una forma di intolleranza religiosa, o addirittura di odio religioso, per cui sarebbe sbagliato per la sinistra sostenere i bigotti che in Europa e negli Stati Uniti deliberatamente fraintendono e mettono in falsa luce i musulmani contemporanei. Costoro non fanno alcuna distinzione tra la religione storica e gli zeloti del momento; guardano a ogni singolo immigrato musulmano in Occidente come a un potenziale terrorista e non vedono l’eccellenza raggiunta da filosofi, poeti e artisti musulmani nel corso dei secoli.
Considerate ad esempio il nazionalista olandese Geert Wilders, leader del Partito per la Libertà, che definisce il Corano un "libro fascista” e chiede che venga messo fuori legge in Olanda (come lo è Mein Kampf) (3). O Hans-Jürgen Irmer, vice capogruppo parlamentare dell’Unione Cristianodemocratica di Hesse, in Germania, che sostiene che "l’obiettivo dell’Islam è la dominazione globale” (4).
Ci sono indubbiamente islamisti con ambizioni globali (anche in Germania; ricordate Mohammed Atta), ma è un errore ritenere tutti i musulmani responsabili di zelotismo islamista, cosa che la stragrande maggioranza dei turchi tedeschi, per esempio, sicuramente rifiuta.
Gente come Wilders e Irmer (e ce ne sono tanti altri) si dà molto da fare per spiegare l’avversione della sinistra per l’islamofobia.
Ma qui dobbiamo stare molto attenti. Critiche legittime possono essere mosse non soltanto agli zeloti islamisti, ma anche all’Islam stesso, come a tutte le altre religioni.
Pascal Bruckner sostiene che il termine "islamofobia” sia stato "un’invenzione intelligente, in quanto fa dell’Islam un argomento che non può essere toccato senza essere accusati di razzismo” (5). Il termine, egli afferma, è stato usato per la prima volta per condannare Kate Millet, che esortava le donne iraniane a togliersi il chador. Io non so chi abbia inventato l’islamofobia, ma vale la pena ribadire il concetto principale espresso da Bruckner: dev’esserci spazio per consentire a militanti femministe come la Millet e a militanti e filosofi atei e scettici di dire la loro sull’Islam, così come sul cristianesimo o sul giudaismo, e trovare un pubblico pronto ad ascoltarli, se ci riescono. Si chieda loro conto di eventuali cattive argomentazioni, ma in una società libera la loro opera di critica dovrebbe essere benvenuta.
I critici dell’Islam sono inibiti non soltanto dalla paura di essere etichettati come islamofobi, ma anche dal timore dell’"orientalismo” (6). Il libro di Edward Said che porta questo titolo contiene molti esempi di argomentazioni sull’Islam, sia colti sia popolari, che gli scrittori contemporanei vogliono giustamente evitare, ma le sue argomentazioni a proposito del futuro dell’Islam e del mondo arabo (il libro è stato scritto verso la fine degli anni Settanta) hanno mancato di gran lunga l’obiettivo. Said sosteneva che, con alcune onorevoli eccezioni, l’orientalismo aveva trionfato in Occidente. Riteneva inoltre che l’orientalismo fosse stato interiorizzato anche a Oriente, per cui gli scrittori arabi e più in generale musulmani producevano versioni della loro storia "orientaliste”, ossia stereotipate e viziate dal pregiudizio.
"Il mondo arabo oggi -scriveva Said- è un satellite intellettuale, politico e culturale degli Stati Uniti”. Il revival religioso dell’Islam non è affatto previsto dal libro di Said. Addirittura, considera l’insistenza di Bernard Lewis sull’"importanza della religione negli affari correnti del mondo islamico” come un esempio di orientalismo. E un anno dopo, ne "La questione palestinese”, Said definisce il "ritorno all’Islam” una "chimera”(7). Oggi sarebbe difficile per chiunque sostenere questa affermazione, ma è ancora raro che scrittori di sinistra affrontino la "chimera” a viso aperto.
Così la critica da sinistra all’islamismo è limitata, invece l’islamofobia sembra essere in crescita, e non solo nella destra populista e nazionalista. Come mai? Il nuovo "Islamophobia Studies Journal” (una pubblicazione semestrale sponsorizzata dal Center for Race and Gender di Berkeley), in un editoriale sul suo secondo numero, individua la fonte del problema:

Per alcuni, l’insorgenza di sentimenti antimusulmani è legata alla "naturale” reazione ai molti episodi di violenza nel mondo musulmano, nonché al "terrorismo” in genere. Tuttavia, noi siamo convinti che il crescente sentimento negativo possa avere a che fare con la presenza di un’industria dell’islamofobia ben organizzata e ben foraggiata, che è riuscita a invadere e a catturare la società civile e il discorso pubblico senza che ci fosse una vera contestazione. Fino a questo momento, le voci antirazziste e progressiste non si sono dimostrate efficaci nel contrastare questa industria, né sono state in grado di provvedere alle risorse necessarie per organizzare azioni di contrasto a livello regionale o nazionale.

Un bel modo di tirare l’acqua al proprio mulino: più risorse per il "Journal” sarebbero certamente di grande aiuto nel combattere l’industria dell’islamofobia. Ma notate la riluttanza a contrapporsi ai "molti episodi di violenza nel mondo musulmano”.
Si può riscontrare lo stesso tipo di riluttanza in una serie di articoli altrimenti eccellenti pubblicati su un numero speciale di "The Nation” del luglio 2012.
Il pezzo di Jack Shaheen intitolato: "Come i media hanno creato il mito del mostro musulmano”, è un esempio di argomentazione simile a quella dei redattori dell’"Islamofobia Studies Journal”. La romanziera Laila Lalami, in "Islamophobia and its discontents” (L’Islamofobia e i suoi scontenti) riconosce che "leggi retrograde sulla blasfemia” e "leggi ingiuste sul divorzio” potrebbero avere a che fare con l’ostilità verso l’Islam, ma giustamente si rifiuta di considerare queste come scuse per le discriminazioni che ha dovuto subire vivendo qui negli Stati Uniti. Così come non sarebbero scuse plausibili neppure gli "episodi di violenza nel mondo islamico”. Lo zelotismo islamista non dovrebbe mai essere utilizzato per "spiegare” il pregiudizio europeo e americano. Tuttavia, il desiderio pienamente legittimo di evitare il pregiudizio non è una buona ragione per evitare quegli "episodi di violenza”. Non è mia intenzione puntare il dito contro "The Nation”, i cui redattori hanno confezionato quel numero speciale; per quanto ne so, nessuna rivista o sito web di sinistra ha mai tentato di ingaggiare un confronto con lo zelotismo islamista.
La maggior parte della gente di sinistra, qualunque sia il suo problema a comprendere la religione, non ha alcuna difficoltà a temere e a opporsi ai nazionalisti indù, ai monaci buddisti zelanti o ai sionisti messianici del movimento dei coloni (in quest’ultimo caso, l’espressione "non ha alcuna difficoltà” è un eufemismo grossolano). E, naturalmente, nessuno a sinistra fa causa comune coi militanti islamisti che rapiscono le studentesse, assassinano gli eretici o abbattono i monumenti di civiltà rivali. Atti come questi, purché vengano notati, vengono regolarmente condannati. Beh, non proprio regolarmente. Nikolas Kozloff, in un eccellente articolo dal titolo "A tale of Boko Haram, political correctness, feminism, and the left”, (Boko Haram, correttezza politica, femminismo e sinistra), ha documentato la strana indisponibilità di numerosi scrittori di sinistra ad attribuire agli zeloti islamisti il rapimento delle studentesse nigeriane (8). Meno eclatante, ma sufficientemente spiacevole, è l’indisponibilità da parte di molti appartenenti alla sinistra che riconoscono questi crimini a tentare un’analisi generalizzata e una critica a tutto tondo dello zelotismo islamista. Che cosa impedisce l’analisi e la critica?
Il libro di Deepa Kumar, "Islamophobia and empire” (Islamofobia e impero) (9) suggerisce una possibile risposta a questa domanda: l’ostacolo sta nel fatto che oggi gli islamisti sono oppositori "dell’Occidente”, vale a dire dell’"imperialismo occidentale” (americano in realtà): le basi in Arabia Saudita, le due guerre iraniane, l’intervento in Libia, il sostegno a Israele, gli attacchi coi droni in Somalia, e così via. Io ritengo che questo elenco richieda una risposta selettiva: certamente opposizione in alcuni casi, ma anche accordo in altri. Oso dire che il rovesciamento da parte degli zeloti islamisti dei regimi che gli Stati Uniti avevano sostenuto in Medio Oriente, per quanto malvagi fossero alcuni di questi, non poteva portare vantaggi significativi alle popolazioni dell’area. Ma chi si oppone all’imperialismo da sinistra generalmente non dà un giudizio selettivo, così come non lo danno gli islamisti. Perciò "il nemico del mio nemico è mio amico”. Abbiamo visto questa massima inscenata nella manifestazione dello scorso agosto a Londra, sponsorizzata dalla "Coalizione fermiamo la guerra del Regno Unito”, alla quale hanno preso parte espliciti sostenitori di Hamas, tra cui esponenti laici di sinistra e musulmani religiosi (alcuni fondamentalisti, altri no). I secolaristi di sinistra erano strenui oppositori dell’islamofobia, anche se non erano esenti da altre fobie.
Ma c’è anche un’altra ragione per la riluttanza a condannare i crimini degli islamisti, ed è la smania di condannare i crimini dell’Occidente.
La causa alla radice dello zelotismo religioso non è la religione -sostengono con insistenza molti scrittori di sinistra-, bensì l’imperialismo occidentale e l’oppressione e la povertà che esso ha creato. Perciò, ad esempio, David Swanson, prima sul sito "War is a crime” e poi sul sito "Tikkun” (con un disclaimer nervoso ma solo parziale da parte del suo editore), si chiede: "Cosa dobbiamo fare con l’Isis?”. E si risponde: "Innanzitutto riconoscere da dove viene l’Isis: gli Stati Uniti e i suoi partner minori hanno distrutto l’Iraq...”(10), E' vero. Non ci sarebbe l’Isis in Iraq senza l’invasione americana del 2003. Ma se Saddam fosse stato rovesciato dall’interno, è molto probabile che le stesse guerre religiose sarebbero scoppiate comunque. Perché l’Isis non "deriva” dall’invasione statunitense, ma è il prodotto del risveglio religioso globale, ed esistono molti altri esempi di militanza revivalista. Swanson potrebbe offrire una spiegazione analoga per tutti, ma tale spiegazione perde di plausibilità col moltiplicarsi degli esempi.
La sinistra ha sempre avuto difficoltà a comprendere la potenza della religione. Le religioni -tutte le religioni- non sono forse gli strumenti ideologici della classe dominante? E tutte le sollevazioni di tipo millenarista e messianico non sono forse la risposta ideologicamente distorta dei gruppi subalterni all’oppressione materiale? Lo zelotismo religioso è un fenomeno sovrastrutturale e può essere spiegato soltanto facendo riferimento alla questione economica. Queste antiche convinzioni oggi risultano particolarmente accecanti.
Parvez Armed, professore della Florida, che conosce appieno il "flagello” di Boko Haram, fornisce un esempio tipico su un recente blog. Egli sostiene che "molta della violenza [commessa] nel nome dell’Islam è meno motivata dalla fede e più dalla povertà e dalla disperazione”(11). Analogamente, Kathleen Cavanaugh della University of Ireland, scrivendo sul sito di "Dissent”, insiste sul fatto che "le azioni violente e oppressive [dell’Isis] hanno poco a che fare con la religione di per sé”, ma in realtà sono "fondate su interessi materiali”(12).
Ma è veramente così? Perché povertà, disperazione e interessi materiali non producono una mobilitazione di sinistra anziché una di tipo islamista? In realtà, il risveglio religioso, non solo tra i musulmani, ma in tutto il mondo, tra ebrei, cristiani, induisti e buddisti, ha raccolto il sostegno di tutte le classi sociali e il motivo trainante per tutte le attività revivaliste sembra essere, incredibilmente, la fede religiosa. In "Journey of the jihadist: inside muslim militancy”, (Il viaggio del jihadista: dentro la militanza musulmana), Fawaz Gerge fornisce ampia prova del potere della religione(13).
A sinistra c’è anche chi crede che lo zelotismo islamista non sia soltanto il prodotto dell’imperialismo occidentale, ma anche una forma di resistenza a esso. Qualunque sia il gruppo effettivamente attratto da questo concetto, si tratta di un’ideologia degli oppressi -una versione, anche se un po’ strana, di politica di sinistra. Pensate agli scrittori di sinistra che descrivevano le milizie sunnite e sciite che combattevano contro l’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti come "la Resistenza”, facendo deliberato riferimento alla Resistenza francese contro i nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Ma non c’era nulla di sinistra in quelle milizie islamiste, eccetto il fatto che combattevano contro gli americani. Questo esempio era stato citato da Fred Halliday in un articolo del 2007 su "Dissent”, intitolato "Lo jihadismo dei pazzi”(14). Una buona formula, che però non ha attecchito, come possiamo evincere dall’affermazione di Slavoj Žižek, che un anno dopo sosteneva che "il radicalismo islamico è la rabbia delle vittime contro la globalizzazione capitalista”. Devo riconoscere che Žižek non ha paura di essere definito islamofobo; egli si permette una critica "rispettosa, ma non per questo meno spietata” dell’Islam, così come di tutte le altre religioni(15). Ma la sua non potrà essere una critica corretta finché continuerà a pensare che l’obiettivo della rabbia islamista sia lo stesso obiettivo della sua propria rabbia.
Judith Butler compie un errore simile quando insiste nell’affermare che "è estremamente importante considerare Hamas [e] Hezbollah come movimenti sociali progressisti, che sono di sinistra, che sono parte di una sinistra globale”(16). Lo ha detto nel 2006 e lo ha ripetuto, con interessanti variazioni, nel 2012: Hamas e Hezbollah appartengono alla sinistra globale in quanto sono "anti-imperialisti”; lei però non sostiene tutte le organizzazioni della sinistra globale e, specificatamente, non approva l’uso della violenza da parte di questi due gruppi. Le sono grato per questa ultima precisazione, ma quell’identificazione con la sinistra era tanto errata nel 2012 come lo era nel 2006; utilmente errata, forse, perché ci aiuta a comprendere come mai così tanti a sinistra sostengono o non si oppongono attivamente a gruppi quali Hamas e Hezbollah. L’unica cosa che identifica questi gruppi come "di sinistra” è il fatto che essi combattono contro Israele, che in questo contesto significa l’America imperialista.
I postmodernisti non se la sono cavata meglio degli anti-imperialisti per quanto concerne lo zelotismo islamista. Ricordate l’apologia della brutalità della rivoluzione iraniana da parte di Michel Foucault: l’Iran non ha lo stesso "regime della verità che abbiamo noi”(17). Questo genere di relativismo culturale è diventato un luogo comune, come possiamo notare nel caso di Azar Nafisi, l’autrice di "Leggere Lolita a Teheran”, una bella storia di sovversione culturale in uno stato islamista. In esilio negli Stati Uniti, Nafisi ha detto a un intervistatore di Boston: "Mi risento molto quando qualcuno in Occidente, magari con le migliori intenzioni, o magari da un punto di vista progressista, continua a ripetermi: ‘È la loro cultura’… Sarebbe come dire: la cultura del Massachusetts è bruciare le streghe. Ci sono aspetti della cultura che sono riprovevoli… Non dovremmo accettarli”(18).
Quei benintenzionati e progressisti erano probabilmente avvocati di un multiculturalismo radicale, che potrebbe benissimo accettare il rogo delle streghe, purché non accada in Massachusetts.
La più forte difesa postmoderna del radicalismo islamico viene da Michael Hardt e Antonio Negri, i quali sostengono che l’islamismo è esso stesso un progetto postmoderno: "La postmodernità del fondamentalismo consiste, primariamente, nel rifiuto della modernità come arma dell’egemonia euroamericana; in tal senso, il fondamentalismo islamico costituisce il caso paradigmatico”. E ancora: "In quanto rivoluzione contro il mercato mondiale, quella iraniana è, senza dubbio, la prima rivoluzione postmoderna”(19).
Sono crudele se sottolineo come gli iraniani oggi siano ansiosi di rientrare nel mercato mondiale?
Tutte queste reazioni allo zelotismo islamista -identificazione, sostegno, simpatia, apologia, tolleranza e assenza di critica- appaiono davvero strane se si considerano i contenuti reali della sua ideologia. L’opposizione jihadista "all’Occidente” dovrebbe provocare nella sinistra preoccupazione, prima di qualunque altra reazione. Boko Haram ha incominciato attaccando le "scuole di tipo occidentale” e altri gruppi islamisti hanno lanciato attacchi simili, specialmente contro le scuole per ragazze. I valori che gli zeloti denunciano come "occidentali” sono di fatto tutti collegati: libertà individuali, democrazia, uguaglianza di genere, pluralismo religioso. È indubbio che gli occidentali non sempre vivono in conformità con questi valori e non sempre li difendono quando sarebbe necessario farlo, ma si tratta di valori ai quali l’ipocrisia occidentale rende omaggio e per tenere alti i quali alcuni di noi in Occidente lottano. Negli ultimi anni la Russia e la Cina hanno spesso dichiarato di opporsi sia all’imperialismo sia ai valori dell’Occidente, ma questi due paesi somigliano più a potenze imperiali rivali che a oppositori dell’imperialismo. Mentre i loro leader a volte usano come argomentazione i valori (come quando i governanti cinesi promuovono l’ideale confuciano di "armonia”), non sembrano molto impegnati a onorare i valori che professano. Gli islamisti invece sono molto impegnati. Hanno le loro grandi ambizioni, ma sono ambizioni altamente idealistiche, che lasciano ben poco spazio agli interessi materiali. Il loro è uno zelotismo dei valori, teologicamente ispirato, che costituisce una vera sfida ai valori occidentali.
Ma libertà individuali, democrazia, uguaglianza di genere e pluralismo religioso non sono valori occidentali; sono valori universali che sono apparsi per la prima volta in versioni forti e moderne nell’Europa occidentale e nelle Americhe. E questi sono i valori che connotano la sinistra, apparsa anch’essa per la prima volta, nella sua versione forte e moderna, nell’Europa occidentale e nelle Americhe. La sinistra è un’invenzione del Diciottesimo secolo; un’invenzione dell’illuminismo secolare. C’era, naturalmente, chi aveva posizioni potenzialmente di sinistra all’interno delle principali tradizioni religiose: pacifisti, comunitaristi, protoambientalisti, difensori dei poveri e perfino gente che credeva nell’uguaglianza -o meglio, nell’uguaglianza di tutti i credenti davanti a dio (probabilmente dovrei dire di tutti i credenti maschi). Ma niente di simile alla sinistra classica era mai esistito tra gli induisti, gli ebrei, i buddisti, i musulmani o i cristiani. I valori della sinistra sono quei valori "occidentali” presi molto sul serio. L’opposizione a questi valori è qualcosa che la sinistra dovrebbe veramente affrontare. L’opposizione più forte oggi arriva dagli islamisti radicali. Ed è proprio questo il motivo per cui molti a sinistra sono riluttanti ad affrontare l’islamismo radicale.
Che caratteristiche dovrebbe avere un vero movimento di sinistra contro la povertà e l’oppressione? Dovrebbe essere, innanzitutto, un movimento degli oppressi; una mobilitazione di donne e uomini, prima passivi, balbettanti e spaventati, e ora capaci di esprimersi e difendere i loro diritti umani. In secondo luogo, dovrebbe avere come obiettivo la liberazione o, meglio ancora, l’autoemancipazione di quelle stesse persone. E la sua forza propulsiva dovrebbe essere una visione, sicuramente costruita in parte sulla cultura locale, di una nuova società, i cui membri, uomini e donne, fossero più liberi e più uguali e il cui governo fosse più reattivo e responsabile.
Questa non è una descrizione insolita delle aspirazioni della sinistra. Perciò è un mistero come chiunque, ovunque, possa credere veramente che un qualsiasi gruppo islamista possa essere parte della sinistra globale, o di qualunque altra sinistra.
Come dovrebbe rispondere la sinistra a quei gruppi islamici, supposto che, come io credo, una risposta critica è necessaria? Non prenderò qui in considerazione risposte militari. Esiste una brigata internazionale di zeloti islamisti che combatte in Iraq e in Siria, ma non esiste alcuna possibilità di reclutare una brigata internazionale di combattenti di sinistra, quindi non vale la pena pensare a dove li manderemmo. La sinistra dovrà appoggiare (anche se molti non lo faranno) gli sforzi militari con l’obiettivo specifico di fermare il massacro di infedeli ed eretici. Dopodiché io sono più incline a considerare una politica volta al contenimento dell’islamismo, piuttosto che una guerra (o una serie di guerre) per distruggerlo.
Questo è un fuoco che dovrà estinguersi da solo. Ma c’è una difficoltà profonda in questa visione: molti soffriranno in quel fuoco e la sinistra ignora quelle sofferenze a nostro rischio morale. Come aiutare coloro che sono bersaglio delle forze islamiste è una questione che dovremo porci. E dovremo cominciare dalla guerra ideologica.
In questa guerra dovremo innanzitutto distinguere tra lo zelotismo islamista e l’Islam stesso. Dubito che avremo qualche riconoscimento per averlo fatto. Scrittori come Paul Berman e Meredith Tax hanno fatto questa distinzione in modo molto accurato in ogni cosa che hanno scritto contro l’islamismo, ma i loro critici sono perlopiù riusciti a non accorgersene. Probabilmente né l’attenzione e neanche la cura di altri sarà notata, ma la distinzione è comunque importante. In particolare, dovremmo insistere sulla differenza tra scrittori integralisti come Hassan Al-Banna e Sayyid Qutb in Egitto o Maulana Maududi in India e i filosofi razionalisti musulmani del passato e i riformatori liberali di tempi più recenti. Dovremmo farlo allo stesso modo in cui distinguiamo tra i predicatori e i sermoni dei crociati cristiani e la teologia accademica.
Dovremmo inoltre cooperare attivamente coi musulmani, compresi i musulmani più laici, che si oppongono al fanatismo, e dare loro tutto il sostegno che chiedono. Ci sono tanti antizeloti e molti di questi, come Ayaan Hirsi Ali, sono partiti da sinistra e poi si sono spostati a destra, in parte perché a sinistra hanno trovato ben pochi amici. Paul Berman ha scritto una critica devastante del trattamento riservato a Hirsi Ali da parte degli intellettuali liberali di sinistra(20), e Katha Pollitt, scrivendo su "The Nation”, si è chiesta coraggiosamente se "noi di sinistra e femministe non dovremmo cominciare a riflettere autocriticamente su come mai la Aei (American Enterprise Institute, un pensatoio neoconservatore) […] sia riuscito ad accaparrarsi questa coraggiosa e complessa crociata per i diritti delle donne”.
Non dobbiamo necessariamente imitare la rabbia feroce di Hirsi Ali, che si trasferisce dall’islamismo allo stesso Islam e che viene da esperienze che nessuno di noi ha fatto, ma potremmo trarre vantaggio da un’analisi della sua traiettoria, nella quale proprio la paura dell’islamofobia da parte della sinistra ha giocato un ruolo significativo. C’è una curiosa diffidenza da parte della sinistra ad accogliere gli atei provenienti dal mondo musulmano allo stesso modo in cui accoglieremmo gli atei provenienti, ad esempio, dal mondo cristiano.
In secondo luogo, dobbiamo riconoscere che la teoria accademica (che è stata anche una teoria della sinistra), che prevedeva il trionfo della scienza e del secolarismo, non è corretta o, perlomeno, il suo orizzonte temporale non lo è. La sinistra deve trovare il modo di difendere lo stato laico in un’epoca post-secolare e di difendere la democrazia e l’uguaglianza contro le argomentazioni dei religiosi a favore della gerarchia e della teocrazia. L’attrattiva della dottrina e della pratica religiosa oggigiorno è evidente e dobbiamo esserne consapevoli, se vogliamo convincere la gente che il fanatismo religioso è spaventoso e niente affatto attraente.
In terzo luogo, dovremmo comprendere il potere degli zeloti e l’ampiezza della loro penetrazione politica. Dovremmo definire chiaramente i fanatici religiosi come nostri nemici e impegnarci in una campagna intellettuale contro di loro; cioè, una campagna per la difesa di libertà, democrazia, uguaglianza e pluralismo. Non sto cercando di dire che la sinistra dovrebbe unirsi al famoso "scontro di civiltà”.
Tutte le grandi civiltà religiose sono in grado -e probabilmente in ugual grado- di produrre al contempo fanatici violenti e santi amanti della pace, con tutto ciò che sta in mezzo. Perciò non dovremmo considerare la battaglia contro gli islamisti in termini di civiltà, ma piuttosto in termini ideologici. Ci sono molti musulmani devoti che sostengono i valori universali dell’"Occidente” e della sinistra e che ricercano un solido sostegno per questi valori proprio nei testi islamici, esattamente come altri credenti di sinistra lo ricercano nei testi indù, ebraici o cristiani.
L’associazione "Women Living Under Muslim Laws” (Wluml), che opera in molti paesi a maggioranza musulmana, è efficacemente impegnata proprio in questa ricerca, con particolare enfasi sull’uguaglianza di genere. Queste donne sono nostre amiche, e molte di loro hanno dimostrato una forza notevole, in ambienti spesso ostili. Meritano un sostegno molto maggiore di quello finora avuto dalla sinistra. Considerate questa dichiarazione della Wlulm al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre del 2005:

Il terrorismo fondamentalista non è in alcun modo uno strumento dei poveri conto i ricchi; del Terzo mondo contro l’Occidente; del popolo contro il capitalismo. Esso non costituisce una risposta legittima, che possa essere sostenuta dalle forze progressiste del mondo. Il suo bersaglio principale è l’opposizione democratica interna al [suo] progetto teocratico […] di controllare tutti gli aspetti della società […] nel nome della religione […]. Quando i fondamentalisti arrivano al potere riducono il popolo al silenzio; eliminano fisicamente i dissidenti e mandano le donne "al loro posto”, il che, come sappiamo per esperienza diretta, spesso significa una camicia di forza(21).

Questo suona come un appello contro lo "Jihadismo dei pazzi” di Halliday, e scommetto che al Forum Sociale Mondiale ci siano stati dei pazzi che hanno accusato la Wlulm di islamofobia. La sinistra laica risponde con ostilità ad alcune forme di estremismo religioso, ma la sua risposta all’estremismo islamista è stata debole. Di nuovo e per l’ultima volta mi chiedo: perché? La prima ragione è questa terribile paura dell’accusa di islamofobia; io poi ho suggerito un altro paio di argomentazioni correlate: gli islamisti si oppongono all’Occidente e noi dobbiamo rispettare il "loro modo” di fare le cose nei loro paesi, a prescindere da cosa facciano. Probabilmente ci sono anche altre ragioni. Questa domanda dovrebbe essere cruciale per tutta la sinistra, in ogni parte del mondo, ma è ben lontana dall’aver ricevuto l’attenzione che merita. Numerose femministe negli Stati Uniti e nel Regno Unito si sono mobilitate contro la misoginia di stampo religioso, compresa la paura irrazionale degli islamisti nei confronti delle donne. Si veda, ad esempio, il sito del "Center for Secular Space”. Anche la rivista italiana di sinistra "Reset”, e il relativo sito web, sono stati intelligenti, informativi e critici nelle discussioni sul mondo islamico. Ci sono voci alle quali il resto della sinistra dovrebbe dare ascolto e unirsi.
Come ho già detto, non c’è alcuna probabilità che una brigata internazionale di combattenti di sinistra possa prendere parte alle battaglie militari di oggi. I miei amici e vicini non sono pronti ad arruolarsi; molti di loro non sono neppure pronti a riconoscere i pericoli che pone il fanatismo islamista. Ma la sinistra laica ha bisogno di difensori. E allora eccomi qui -uno scrittore, non un combattente- e la cosa più utile che io possa fare è unirmi alle guerre ideologiche. Posso contare su compagni in ogni nazione, ma in numero ancora neanche lontanamente sufficiente. C’è una brigata internazionale di intellettuali di sinistra che aspetta di formarsi.
(traduzione di Olga Baldassi Pezzoni)

1. Cohen, What’s left: how liberals lost their way (London: Fourth Estate, 2007), 361.
2. "National Review Online”, gennaio 2013. Non ho trovato questi numeri su siti di sinistra.
3. "The Telegraph” (sito web), agosto 2007.
4. Euro-Islam Info, aprile 2010.
5. Bruckner, The tyranny of guilt: an essay on western masochism (Princeton: Princeton University Press, 2010), 48.
6. Said, Orientalism (New York: Pantheon, 1978), 322, 318.
7. Said, The question of Palestine (New York: Vintage Books, 1980), 184.
8. "Huffington Post”, maggio 2014.
9. Kumar, Islamophobia and the politics of empire (Chicago: Haymarket Books, 2012).
10. "Tikkun”, sito web, settembre 2014.
11. "Huffington Post”, luglio 2014.
12. Blog di "Dissent”, settembre 2014.
13. Fawaz Gerges, Journey of the jihadist: inside muslim militancy (Orlando: Harcourt, 2006).
14. "Dissent”, inverno 2007.
15. Žižek, Violence: six sideways reflections (New York: Picador, 2008), 187, 139.
16. "Mondoweiss”, agosto 2012.
17. Citato in Janet Afary and Kevin B. Anderson, Foucault and the iranian revolution: gender and the seductions of islamism (Chicago: University of Chicago Press, 2005), 125.
18. "identitytheory.com”, febbraio 2004; ringrazio Nick Cohen per questa citazione.
19. Hardt e Negri, Empire (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2000), 149.
20. Berman, Flight of the intellectuals (New York: Melville House, 2010), capitolo 8.
21. Citato in Meredith Tax, Double bind: the muslim right, the anglo-american left, and universal human rights (New York: Center for secular space, 2012), 82.