Michael Walzer, filosofo politico, professore emerito dell’Institute for Advanced Study di Princeton, è stato condirettore per più di trent’anni della rivista “Dissent”, con cui tuttora collabora.

Partiamo dal 7 ottobre...
È stato uno shock incredibile, ci è voluto un po’ di tempo per metabolizzare quello che era successo. La portata dell’orrore non si è rivelata subito, all’inizio pensavamo fosse un’aggressione come le altre. L’entità del massacro si è compresa solo nei giorni successivi. E poi è arrivata la consapevolezza che ci sarebbe stata una reazione, quindi le preoccupazioni per come Israele avrebbe potuto rispondere, data la questione degli ostaggi e il fatto che Hamas si è trincerata dietro la popolazione civile… è stato presto chiaro che qualsiasi attacco avrebbe messo a rischio degli innocenti. Quindi fin dall’inizio c’è stato molto di cui preoccuparsi. Non conoscevamo nessuna delle persone morte il 7 ottobre né avevamo amici che vivevano in quei kibbutz; qualche amico viveva nei kibbutz poco più a nord e ci hanno tenuto informati, uno di questi è Gary Brenner, che conoscete anche voi.
Devo dire che, nella totale assenza di un governo responsabile, c’è stata invece una forte reazione della società civile. Ieri sera abbiamo cenato con alcuni amici israeliani che insegnano qui, ma che torneranno non appena terminerà il semestre, e ci raccontavano proprio delle iniziative intraprese dai cittadini che di fatto intervengono dove il governo è assente. Dove invece è presente, sui social media, dice cose assurde. Insomma, la situazione non è buona.
Peraltro temo che non venga raccontata bene e questo rende il tutto ancora più difficile, perché l’orientamento dell’opinione pubblica, ancora una volta, è destinato a cambiare molto rapidamente man mano che le vittime civili aumenteranno, soprattutto se i giornalisti evitano di raccontare tutta la storia. Questo amico ieri sera mi faceva notare una cosa a cui non avevo pensato, ma che ogni giornalista che è stato a Gaza dovrebbe sapere. Pare ci siano trecento miglia di tunnel sotto Gaza; ebbene, questa rete richiede un sistema di ventilazione molto sofisticato che pompa aria costantemente. Per ottenere questo risultato serve molta energia elettrica che viene fornita da generatori, i quali necessitano di carburante, che Hamas ha in abbondanza. Ora, questo significa che i sudditi di Hamas (gli abitanti soggetti al governo di Hamas non sono cittadini, sono sudditi) stanno soffrendo, mentre Hamas ha vaste risorse, risorse di cui a Gaza nessun altro dispone.
Considerazioni analoghe valgono per le immagini viste alla tv. I giornalisti, molti dei quali hanno vissuto a Gaza o sono stati a Gaza per mesi, potendo girare lungo l’intero territorio della Striscia, che è molto piccolo, devono pur sapere qualcosa dei siti di lancio, dei depositi e degli ingressi ai tunnel, ma quello che ci mostrano in tv sono solo macerie. Macerie civili. Però, non dicono mai cosa c’è sotto quelle macerie.
Questo è molto preoccupante: stanno aumentando le pressioni per un cessate il fuoco. Ma un cessate il fuoco significherebbe il trionfo di Hamas e una ferita gravissima per Israele. La proposta americana per una pausa ha senso, credo, purché tale sospensione non diventi -dal punto di vista politico- un cessate il fuoco. Queste sono un po’ le questioni che mi arrovellano e di cui sto scrivendo.
Tu hai riflettuto a lungo sul concetto di guerra giusta, sia rispetto alla decisione di entrare in guerra, ma anche riguardo la giusta condotta durante la guerra. Partiamo dagli obblighi dell’esercito israeliano. Ovviamente ci dev’essere l’impegno a evitare o comunque limitare al minimo le vittime civili...
Premetto che quella asimmetrica è una guerra molto difficile da combattere per un esercito ad alta tecnologia. Pensiamo ai francesi in Algeria, agli americani in Vietnam, sempre agli americani in Afghanistan, a Israele in Libano... l’esercito ad alta tecnologia, che verosimilmente è avvantaggiato dal punto di vista militare, storicamente non vince. E non vince perché non può combattere contro un’insurrezione -che si trincera dietro i civili- senza uccidere civili. Questo significa che ci sarebbero anche ragioni pragmatiche, militari, per evitare di uccidere civili, ma soprattutto c’è l’obbligo morale di agire con la massima attenzione possibile.
In queste situazioni direi che è giusto accettare i rischi necessari, per esempio, a svolgere azioni di intelligence, nel senso che bisogna avere persone sul terreno, servono uomini che si avventurino nei tunnel, per fornire informazioni all’aviazione e a chi lancia i missili. Anche questo è un obbligo. So che tale questione è oggi cruciale per tutti gli eserciti che combattono guerre asimmetriche: quali rischi possiamo pretendere che i nostri soldati corrano per ridurre al minimo i rischi che impongono alla popolazione civile? È un dibattito aperto nell’esercito americano; ho ascoltato ufficiali discuterne e so che se ne parla anche nell’Idf. Qui non c’è una risposta filosofica e non c’è nemmeno una risposta concreta; non ci sono numeri stabiliti, che so, 28 o 43... Sono decisioni che vengono prese per lo più sul campo, da giovani ufficiali, ragazzi di poco più di vent’anni. Ad ogni modo esiste questo obbligo di assumersi dei rischi. La sicurezza dei “nostri” soldati non può venir prima della sicurezza dei “loro” cittadini.
Avishai Margalit e io lo abbiamo sostenuto nel 2009, in un articolo su “Haaretz”, poi ripreso sulla “New York Review of Books”, che suscitò un certo dibattito in Israele. Fummo però supportati da due generali dell’Idf! Il senso di ciò che abbiamo scritto è che ci deve essere la volontà di accettare “qualche” rischio. Ora, guardando la tv americana, e presumo quella italiana, è impossibile giudicare fino a che punto Israele stia tenendo fede a questo dovere, quanto sia attenta nel prendere la mira, o se sappia cosa c’è sotto le macerie. Magari hanno colpito un obiettivo importante, magari i civili sapevano che Hamas era lì e non si sono allontanati. O forse non lo sapevano e sono stati deliberatamente messi in pericolo da Hamas stessa che, non dimentichiamolo, rappresenta il governo di Gaza e al contempo il soggetto della resistenza.
Un amico israeliano informato mi ha detto che Israele sta facendo tutto il possibile per ridurre al minimo le vittime civili. Anche se i numeri sembrano alti, dobbiamo considerare che sarebbero molto più alti se Israele non stesse facendo quello che sta facendo.
La classica domanda, “chi ne beneficia?”, suggerisce che assumendo la razionalità nella leadership militare voglio credere che stiano facendo tutto il possibile per mantenere i numeri bassi. Non so che dire riguardo la leadership politica e la sua incredibile follia morale, ma penso che i militari sappiano cosa devono fare.
Quali sono invece gli obblighi di Hamas? Hai da poco pubblicato un articolo su “The Atlantic” intitolato: “Anche gli oppressi hanno dei doveri”.
Hamas afferma di essere l’agente degli oppressi, ma questo non la esime da alcune responsabilità, in primo luogo nei confronti del proprio popolo. Hamas governa Gaza dal 2005, dopo aver espulso l’Autorità Palestinese e ucciso alcuni membri di Al Fatah. In questi anni hanno raccolto enormi quantità di denaro, che hanno investito per aumentare la loro capacità militare, mentre il livello di povertà a Gaza è dell’80%. Sappiamo, da anni, che Gaza è sottoposta a continue interruzioni del servizio elettrico, eppure non ci sono interruzioni nei tunnel, che devono essere serviti ventiquattro ore al giorno. Questo governo inoltre mette a repentaglio i suoi sudditi barricandosi all’interno della popolazione civile, mettendo letteralmente i principali centri di comunicazione nel seminterrato di un ospedale, immagazzinando razzi in moschee e scuole, e sparando... Beh, sappiamo dall’ultima guerra di Gaza, da giornalisti che ci hanno riferito -solo dopo aver lasciato Gaza, non mentre erano lì- che Hamas ha lanciato razzi dai cortili delle scuole e dai parcheggi degli ospedali. Date queste condizioni è quasi impossibile rispondere senza ferire, mettere a rischio i civili. Il problema di Israele è che l’esercito ha l’obbligo di ridurre al minimo le morti dei civili mentre gli insorti hanno invece interesse a massimizzarle.
Personalmente ritengo che la scelta del terrorismo come metodo politico-militare sia sempre sbagliata. Ne ho scritto a proposito dell’esercito repubblicano irlandese e dell’Fln in Algeria; i terroristi in fondo sono una sorta di élite. Cito sempre una frase di Trotsky, che forse mi avete già sentito dire: “I terroristi vogliono rendere felice il popolo senza la partecipazione del popolo”.
Se ci riescono, diventano la nuova élite al potere, come in Algeria. E come a Gaza. Parliamo di una politica autoritaria, nella realtà e anche in prospettiva. Dall’altra parte abbiamo le vittime innocenti. Attenzione, le prime vittime del terrorismo sono le persone che i terroristi dicono di voler liberare. Poi ci sono le altre vittime, cioè le persone innocenti uccise direttamente nelle loro azioni.
Nell’affermare che non tutti gli atti di resistenza sono giustificati, hai introdotto il tema delle “due coscienze”, un dibattito ricorrente nella storia della sinistra. Puoi spiegare?
Mentre scrivevo il pezzo per “The Atlantic”, mi è tornata in mente la vecchia distinzione che Lenin fece per la prima volta nell’opuscolo “Che fare”, tra coscienza rivoluzionaria e quella che lui chiamava coscienza sindacale. Questo aveva a che fare con le lotte dei lavoratori in Europa. La coscienza rivoluzionaria aveva come obiettivo la creazione della società comunista; era una prospettiva lontana, ma era una prospettiva di liberazione totale. La coscienza sindacale invece si concentrava sui bisogni immediati dei lavoratori: salari più alti, migliori condizioni di lavoro, libertà dalla tirannia dei padroni.
Ebbene, Lenin pensava che la coscienza sindacale fosse pericolosa perché, se si miglioravano le condizioni dei lavoratori, era meno probabile che questi appoggiassero la rivoluzione. Questo in fondo si è rivelato vero: i lavoratori storicamente hanno preferito la politica sindacale alla politica rivoluzionaria. La politica rivoluzionaria, che è sempre stata la politica dell’avanguardia, non del movimento di massa, porta alla dittatura e al terrore o, se viene sconfitta, porta al settarismo e all’isolamento politico. Invece la coscienza sindacale ha portato alla socialdemocrazia, agli anni gloriosi dal ’45 al ’75.
Ho pensato che questa distinzione potesse essere riproposta nella lotta di liberazione nazionale. Qui la coscienza rivoluzionaria invoca uno Stato palestinese che si estenda dal fiume al mare e quindi l’eliminazione di Israele. In termini religiosi, la coscienza rivoluzionaria è anche una coscienza messianica, che prende forme specifiche nel caso degli islamisti e di alcuni ebrei ultrareligiosi, i quali in fondo condividono la stessa visione: uno Stato ma solo per noi “quando arriverà il messia”. In questo caso il parallelo con la coscienza sindacale lo vedo nel desiderio di migliorare semplicemente la condizione sia degli israeliani che dei palestinesi, attraverso una qualche forma di convivenza tra due Stati, con una qualche versione di sovranità per entrambi i popoli, fianco a fianco. Il che comporta alcune rinunce. Come il sindacalista ha rinunciato alla visione del comunismo, così nel caso della liberazione nazionale bisogna rinunciare all’idea del trionfo totale. Significa abbandonare una politica dell’assoluto a favore di una politica del compromesso. Credo che i militanti che hanno davvero a cuore il benessere del proprio popolo dovrebbero perseguire questa versione diciamo sindacale della lotta di liberazione nazionale.
È stato particolarmente doloroso il fatto che a essere colpiti da Hamas siano stati proprio i kibbutz dove vivevano le persone di sinistra, quelle solidali con la causa palestinese...
È così. I kibbutz al confine con Gaza erano letteralmente dei centri di resistenza all’ultranazionalismo ebraico, dei centri di opposizione al governo di destra...
Tu sostieni che bisogna intanto sconfiggere Hamas e poi occorrerà occuparsi dei problemi di Israele...
In realtà non so se questo sia possibile... Credo che i militari non la pensino allo stesso modo di Bibi rispetto alle cose da fare. Certo, anche loro vogliono sconfiggere Hamas, ma credo che neppure loro ritengano che Hamas possa essere eliminata. È un movimento che ha probabilmente un consenso minoritario a Gaza, ma ha appoggi in tutto il mondo arabo e musulmano. I suoi leader vivono negli alberghi di lusso del Golfo. Inoltre ha risorse immense, quindi non sono sicuro che Israele da solo possa eliminare Hamas. Ma penso che possa imporgli una sconfitta sufficiente, in modo che sia possibile, con il sostegno internazionale, creare un regime alternativo a Gaza. Un regime palestinese in grado di collaborare con quello della Cisgiordania, verso uno Stato palestinese. Anche se devo dire che in questo momento in Israele l’idea di lasciare la Cisgiordania sono sicuro non sia molto popolare, perché il lancio di razzi da Gaza e dalla Cisgiordania renderebbe la maggior parte di Israele inabitabile, e la potenza militare di Israele, le sue capacità nucleari, beh, sarebbero inutili.
Penso che Hamas abbia fatto in realtà regredire la prospettiva di uno Stato palestinese. I miei amici in Israele avranno molto lavoro da fare solo per ricostruire la possibilità di un dialogo, perché è venuta meno la fiducia...
Oggi ho ricevuto un’e-mail: la mia sinagoga qui a New York sta raccogliendo mobili e vestiti per una famiglia israeliana rimasta senza casa a causa dell’attacco. La sistemeranno a New York. Ora, noi faremo la nostra parte... certamente aiuteremo.
Ma questa non è la visione sionista. È una visione al contrario. Il simbolismo, dal punto di vista dello Stato ebraico, qui è tutto sbagliato. Così come è sbagliata un’idea di Israele come luogo dove gli ebrei che, ad esempio, subiscono l’antisemitismo in Francia, possano andare.
Ecco, c’è anche il rischio di una nuova ondata di antisemitismo...
“Haaretz” questa mattina ha pubblicato un pezzo sull’aumento dell’antisemitismo in Italia. Lo abbiamo già visto in Francia, in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Anche se, nonostante le cose terribili che provengono da parti della sinistra americana, il sostegno a Israele nella popolazione generale è ancora alto. Non so per quanto tempo Biden possa resistere alle pressioni per un cessate il fuoco, ma ha il controllo politico.
A cosa ti riferisci, quando parli di “cose terribili” che stanno accadendo nella sinistra?
Beh, pezzi della sinistra americana il 7 ottobre hanno letteralmente festeggiato. Poi, una volta capito che non era opportuno, sono passati dai festeggiamenti all’apologia: “Bisogna contestualizzare tutto questo...”, e poi le vecchie argomentazioni sul fatto che “l’America è una nazione di oppressori, per cui non possiamo criticare gli oppressi, fanno quello che devono fare, e noi dobbiamo solo sostenerli...”, c’è stato molto di questo. È molto sconfortante. In organizzazioni come i Democratic Socialists of America, c’è ora un gran numero di fuoriuscite. Credo che la sinistra americana dovrà avviare un qualche processo di ricostituzione dopo questo vero e proprio fallimento della moralità politica. Voglio dire, si può sostenere la causa palestinese senza sostenere Hamas, e anzi credo che questo sia moralmente necessario ora.
Tornando a Israele e alle prospettive, nel documentario “The gatekeepers”, che ripercorre la storia del paese attraverso alcune interviste ai capi dello Shin Bet, viene ricordata la profezia di Leibowitz, su come l’occupazione sarebbe diventata una sorta di cancro per Israele. Come vedi la situazione per il futuro? Ora Netanyahu viene contestato anche per la decisione di dirottare parte dell’esercito a protezione dei coloni della Cisgiordania...
Quello che spero è che una volta finita la guerra -cosa che purtroppo non succederà tanto presto come vorremmo- il movimento di protesta riprenderà più forte di prima. E una delle cose per cui si protesterà sono gli investimenti in Cisgiordania. Anche le persone che finora sono state indifferenti, che si sono rifiutate di concentrarsi sull’occupazione, credo saranno costrette a occuparsi dei coloni e della ferocia con cui stanno agendo anche in questo momento. Perché va detto che in Cisgiordania in queste settimane stanno approfittando della guerra per cercare di cacciare i palestinesi... Quindi, confido che ci sia un revival del movimento di protesta e che questo si concentri non solo sulla riforma del sistema giudiziario, ma sulla situazione in generale. Tanto più che la riforma del sistema giudiziario è stata progettata per consentire l’annessione. Perché si pensava appunto che i giudici sarebbero stati di ostacolo all’operazione. Serve un movimento che abbia una visione più ampia, anche se, come dicevo un attimo fa, rinunciare alla Cisgiordania è un qualcosa che oggi spaventa molto gli ebrei israeliani. Serviranno forti garanzie sulla sicurezza.
La strada è lunga e non è diventata certo più agevole. Ora però c’è una parte molto ampia della società israeliana che si è mobilitata; il movimento di protesta, come ha raccontato Gary Brenner, si è trasformato da un giorno all’altro in un’organizzazione della società civile impegnata a fare tutto ciò che il governo invece non sta facendo. Questo potrebbe trasformarsi in un potente strumento di cambiamento in Israele. Io lo spero tanto...
A livello internazionale? Si possono fare pressioni?
È difficile, dipende anche dall’Europa, se sosterrà il tentativo di Biden di concedere tempo a Israele. Il mio amico israeliano ieri sera mi ha più volte posto proprio questa domanda: “Quanto tempo abbiamo?”. Purtroppo non ho una risposta.
(a cura di Barbara Bertoncin, traduzione di Stefano Ignone)