Io avevo 11 anni, venivo dalla Valtellina, lui aveva due anni più di me, ma eravamo nella stessa classe della scuola dell’ordine in cui poi siamo entrati. Era il 1929. Già, andiamo in là… L’anno del grande freddo e della grande crisi, dalla quale poi verranno tante cose.

Lui era inadatto ai giochi, ai giochi propri di quell’età, e però voleva giocare. Per esempio al pallone, che era il gioco più diffuso nei seminari. E diventava un inciampo per tutti e s’arrabbiava. Tra l’altro aveva avuto uno sviluppo precoce e quindi era grande e grosso fin da allora, torreggiante, e questo gli procurava un disagio. Eravamo in un bellissimo convento a Venezia, a Sant’Elena, di fronte al Lido, e così d’estate scendevamo a fare i bagni, ma lui non era mai a suo agio.
Veniva da una fanciullezza povera, il suo paese era Coderno di Sedegliano, dalle parti di Codroipo, in Friuli. Quando ci siamo incontrati avevamo ancora addosso l’odore dell’infanzia e siamo cresciuti assieme.

Lui aveva la tendenza ad amplificare un po’ tutto, questo sì. Io avevo coniato anche un termine, “turoldizzare”, per dire: non esagerare, non enfatizzare, non amplificare le cose. E lui si arrabbiava. Ma attenzione, non vorrei dar l’impressione di un tipo un po’ “trombone”; non lo era affatto, era un suo modo d’essere, un modo molto serio, fin troppo serio. Andando avanti nell’età, aveva acquistato un forte senso dell’umorismo, che lo distingueva anche, ma da giovane ne era del tutto privo, e quindi spesso s’arrabbiava ed erano baruffe.

Una volta ordinati preti, siamo stati destinati tutti e due al convento del centro di Milano, e quello è diventato lo scenario di tante nostre imprese, passate ormai, mi si passi la vanteria, alla storia; la partecipazione alla resistenza che per noi fu un fatto fondativo e la presenza nella vita della città durante i grandi bombardamenti di Milano, che poi furono quelli decisivi; e poi la fondazione del centro culturale “Corsia dei servi”, che riprendeva il vecchio nome di corso Vittorio Emanuele. Durante la Resistenza facemmo anche un giornale clandestino, L’uomo, insieme ad altri amici, soprattutto dell’ambiente della Cattolica di allora, Mario Apollonio, Gustavo Bontadini, Dino del Bo, eccetera.
La resistenza è stata importante anche perché ci ha messo in contatto con tante persone. L’incontro più importante, dal quale poi venne fuori una grande amicizia, fu con Eugenio Curiel, che era un po’ l’uomo nuovo del Pci, e che poi fu ammazzato per strada.

Davide era famoso per la grandezza delle sue mani e dei suoi piedi ed era oggetto di sbeffeggiatura da parte nostra. Non trovava mai scarpe adatte per lui. Quando ci siamo trovati per la prima volta, esattamente l’11 settembre del 1929, nello studentato dei Servi di Maria, a Monte Berico, sopra Vicenza, lui non aveva mai calzato scarpe. In Friuli, come del resto anche qui da noi, d’estate andavano a piedi nudi, e d’inverno portavano gli scarponi o quelle specie di pantofole tipicamente friulane, che loro chiamavano scarpet. Ma lui non aveva mai portato scarpe. E metterle per la prima volta assunse un significato quasi simbolico: doveva accettare delle costrizioni, vincere l’allergia a essere costretto. Sotto sotto, forse inconsciamente, lui desiderava avere qualche regola che lo tenesse imbrigliato, perché così diventava più forte, più efficace. Questa cosa delle scarpe lo accompagnò anche a Firenze. Faceva molta fatica a trovare scarpe adatte, doveva farsele fare e rimase famoso un ciabattino che gli disse: “Ma lei non vuole un paio di scarpe ma due lettini per gemelli”.
Io non ho mani è il titolo alla prima raccolta delle sue poesie e diede adito a molti equivoci: “Come tu non hai mani, con quelle manone che ti ritrovi?”, “Non avete capito, mani di altre! Che mi accarezzino il volto!”. La poesia infatti fa: Io non ho mani che mi accarezzino il volto, duro è l’ufficio di queste parole che non conoscono amori, non so le dolcezze dei vostri abbandoni, ho dovuto essere custode della vostra solitudine, sono salvatore di ore perdute.

A Firenze si era trasferito nei primi anni ‘60 ed è stato un periodo molto fecondo per lui; Firenze era una città molto viva allora, sia dal punto di vista laico che religioso. Era la città di La Pira, c’era Balducci. E poi era la città natale dell’Ordine e questo per lui fu molto importante. Davide rimase sempre molto legato all’Ordine e del tutto restio a lasciarlo. Anzi, lui non amava chi se ne andava; era sempre ...[continua]

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