Benedetto Saraceno, psichiatra, è responsabile del Laboratorio di Epidemiologia e Psichiatria Sociale dell’Istituto Mario Negri di Milano.

Lei è molto critico con la psichiatria e la riabilitazione. Sostiene che sono forme di intrattenimento e autoriproduzione. Perché?
Questo gran parlare di riabilitazione rischia di fatto di essere una nuova arma dentro un armamentario spuntato e può essere un’importante occasione storica persa, nel momento in cui la psichiatria se ne riappropria facendo della riabilitazione la tecnica degli anni 90, come la psicoterapia è stata la tecnica degli anni 70 e la farmacologia quella degli 80. Rompere questo rischio significa allargare lo scenario del processo riabilitativo; significa fare, dentro i servizi territoriali, quello che Basaglia ha fatto dentro i manicomi, ovvero rompere l’ordine del discorso psichiatrico che non è detto che si esprima sempre attraverso i muri e le porte chiuse. Si può esprimere semplicemente anche attraverso una serie di altre scemenze che sono però altrettanto invalidanti ai fini della cittadinanza del paziente. Quindi, io credo che gli psichiatri siano estremamente bravi nel sapere cogliere dal cambiamento del costume, dalla cultura del momento, ciò che è funzionale all’autoriproduzione di se stessi. E non serve ripescare slogan abbastanza cretini come quelli di un’antipsichiatria un po’ stracciona; si tratta invece di recuperare uno slogan che, secondo me, sarebbe molto più cogente: non è la malattia mentale a non esistere, è la psichiatria che non esiste. La malattia mentale esiste, esiste come risposta, esiste in forme autoriproduttive. Oggi il disagio mentale è definito dalle risposte che ad esso si danno, per cui il disagio mentale di un matto dei servizi di Trieste è diverso dal disagio mentale di un matto di un altro servizio. E’ quindi pericoloso oggi pensare che basta aggiungere una cooperativa o un servizio territoriale per poter dire: è fatta. E’ fatto niente, nel senso che la cooperativa può essere un ennesimo luogo di invalidazione del paziente e di negazione dei suoi diritti di cittadinanza. Non voglio parlar male della riabilitazione, ma bisogna prendere con le pinze questa ubriacatura che c’è oggi in Italia. Per questo ho parlato di intrattenimento, nel duplice senso di intrattenere e di tenere dentro, proprio perché dà l’idea del mantenimento del paziente dentro un’istituzione, dentro una macchina, che non necessariamente è il manicomio, ma può anche essere la psichiatria, che lo delegittima senza mai legittimarlo. Ci sono ancora 23 mila pazienti in manicomio pubblico, ce ne sono 15 mila in strutture private. Per esempio il modello emiliano di superamento del manicomio, se da un lato ha diminuito la popolazione manicomiale -oggi sono circa 900 i pazienti in manicomio-; dall’altro, però, ha incrementato le cliniche private in modo impressionante. Evidentemente, le chiusure dei manicomi andrebbero guardate più da vicino, non tutte sono vere, autentiche. La Regione Emilia ad esempio ha avuto nel ’94 una spesa di 37 miliardi solo per le cliniche private. Ho seri dubbi riguardo ad ospedali psichiatrici che sono di fatto scomparsi, come nel caso del Roncati di Bologna. Non sempre questo non esserci più equivale davvero ad una storia di riabilitazione vera e di reinserimento comunitario degli ex degenti. Nel senso che ci sono strutture poco distanti dal Roncati che non sono formalmente “il manicomio”, che sono strutture “altre” dal manicomio, ma che di fatto sono “il manicomio”. E lo sono sia a livello di strutture, sia a livello delle procedure, dell’organizzazione e quindi lo sono a livello degli esiti.
Possono riproporre una ripartizione degli spazi dove vivono i pazienti in termini di camerate, di letti, lettini, di puzze, di contenzioni, di riproduzione di gerghi manicomiali, anche se magari in contesti un po’ più civilizzati. Ma soprattutto colpisce l’impermeabilità di questi scenari rispetto alla comunità reale circostante, ai programmi di ricostituzione di una contrattualità dei pazienti. Questo tipo di meccanismo manicomiale lo possiamo trovare in molte strutture cosiddette protette; ci possono essere dei manicomi, che sono ancora formalmente tali, molto più in trasformazione rispetto a strutture che, pur essendo collocate al di fuori del manicomio, riproducono dinamiche molto vecchie. Tutte queste etichette: ospite, dimesso, ammesso, alla fine dicono molto poco, bisogna andare a vedere queste strutture da vicino ...[continua]

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