Marie Holzman, sinologa, ha curato e tradotto in francese gli scritti del principale esponente del dissenso cinese in esilio, Wei Gingsheng. E’ portavoce in Francia delle istanze della dissidenza cinese in esilio. Vive e lavora a Parigi.

E’ la Primavera di Pechino del ‘78-’79, quando Deng liquida la “banda dei Quattro”, ossia l’ala maoista nel Comitato centrale del partito, a rappresentare il debutto di una dissidenza organizzata nella Cina comunista?
Sì e no, bisogna comunque precisare, in primo luogo, che in Cina per dire dissidente si impiega una formula che significa “chi preconizza punti di vista politici diversi”, diversi ma all’interno del sistema, non al di fuori di esso.
Quindi, da questo punto di vista, un’opposizione c’è sempre stata, fin da quando esiste il partito comunista cinese: non tutti, infatti, sono sempre stati d’accordo con Mao. Anche se, a dire il vero, tra il ‘20 e il ‘49 gli oppositori di Mao in seno al partito sono stati tutti fucilati. Il caso più celebre è quello di Wang Shiwei un intellettuale che si espresse a favore della libertà di pensiero e si permise di mettere per iscritto un certo numero di critiche al comportamento dittatoriale di Mao. Venne fucilato nel ‘47, prima che i comunisti lasciassero Yenan per Pechino, alla vigilia della marcia vittoriosa che li avrebbe condotti alla liberazione della Cina. Wang Shiwei, pertanto, può essere considerato la prima vittima del dissenso politico al regime comunista cinese. Un’altra figura storica del dissenso, che per fortuna non è stata fucilata, è la scrittrice Ding Ling, che era a Yenan negli anni Quaranta e venne criticata perché nei suoi scritti irrideva il modo in cui venivano trattate le donne nel partito comunista: apprezzate come vivandiere e infermiere, ma non come teste pensanti. A partire da quel momento, fu considerata come un’appestata, tanto che solo con l’arrivo al potere di Deng, negli anni Ottanta, è potuta rientrare a Pechino, dopo 15 anni di prigione e un ostracismo trentennale. Ding Ling, inoltre, fu una protagonista del movimento dei “cento fiori” nel ’57, represso duramente l’anno seguente da Mao, che l’aveva inizialmente favorito. Sia lei che Wang Shiwei sono dei riformisti, non dei rivoluzionari, aderiscono profondamente al partito, limitandosi a criticarne i metodi.
Quindi, secondo me, non si può dire che quella cinese sia una vera e propria dissidenza, perché, per me, dissidente è colui che vuole la fine del ruolo guida del partito comunista. Ma questa è un’idea che i cinesi possono accettare molto difficilmente a causa della loro millenaria cultura. Da migliaia di anni, infatti, i cinesi sono riformisti, non rivoluzionari. Tradizionalmente, i cinesi andavano a presentare le loro critiche all’imperatore perché diventasse migliore, non andavano a dire: “Vogliamo un altro sistema”. Nella tradizione cinese, prima di tutto si accetta il potere, poi si tenta di migliorarlo mediante critiche di ordine essenzialmente morale.
Questo lato del carattere cinese emerge anche nelle posizioni dei dissidenti di oggi. Praticamente, nessun dissidente ha un programma di aperta opposizione al partito comunista. Dicono solo che il partito è corrotto, repressivo, ma non hanno l’obiettivo di rovesciarlo. E’ difficile per il dissenso cinese concepire un sistema diverso da quello attuale.
Però, la storia della Cina comunista è piena di brusche svolte politiche…
Sì, nel ‘57 ci furono i “cento fiori”, poi a metà degli anni Sessanta la rivoluzione culturale, che per certi aspetti è una rivendicazione democratica: il popolo prende la parola, anche se, di fatto, tutto resta nell’ambito designato dal partito. E’ il partito che dirige questa falsa rivoluzione, anche se alla base ci sono persone che hanno creduto che si potessero esprimere altre idee. Ma tutti coloro che sono andati un po’ troppo lontano nella riflessione, mettendosi a contestare i metodi di Mao, sono finiti nel Gulag cinese o sono stati fucilati.
Mao muore nel ‘76, e, dopo un biennio di transizione, arriva il periodo di Deng Xiaoping. Qui c’è una breve fase di apertura, tra il ‘78 e il ‘79, che permette a un’élite, la generazione dai 25 ai 40 anni, di prendere la parola e proporre di aprire il paese al mondo circostante.
Tuttavia, in quell’élite -ero a Pechino in quegli anni, so di cosa parlo- i rivoluzionari erano meno del 10%, e per “rivoluzionari” intendo persone che hanno avuto il coraggio, se non di dirlo apertamente, almeno di pensare: ...[continua]

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