storie
Una Città n° 19 / 1993 Gennaio-Febbraio
Intervista a Luisa Campana
Realizzata da Gianni Saporetti
QUEI FIORI DEL SUO GIARDINO
"Credevi di poter prendere la luna fra le mani e non sei stata capace neanche di raccogliere i fiori del tuo giardino". Alla fine, in un giardino fattosi ormai strettissimo di fiori Carla ha saputo raccoglierne tanti. E di tanti amici erano i fiori che riempivano una chiesa. Luisa Campana racconta di sua figlia Carla, morta di Aids a 26 anni.
Oh sì, quella malattia così tremenda Carla l’ha affrontata a testa alta. Non potendola vincere, ha lottato per trarne degli insegnamenti. Rifiutava calmanti e analgesici e scriveva nel diario: "Cosa vuoi che ti dica, bambina, questa situazione è un affare che se vuoi ti toglie tutto ma ti può insegnare anche più di tutto". Osservava la sua compagna di stanza che dormiva profondamente dopo aver preso il Tavor e scriveva: "Non la invidio affatto, preferisco di gran lunga essere presente e mangiarmi il cuore, sono finiti i tempi delle fughe e degli anestetici. Finiti, capiti, sofferti e superati e ne vado molto fiera". Carla preferì la sofferenza della malattia, ogni idea di fuga, di ricorso alla droga, le riusciva ormai estraneo. In realtà, dopo sei mesi di ricovero ininterrotto al Maggiore di Bologna e col successivo incontro con la Casa della Carità le era tornato l’amore per la vita. Con rimpianto scriveva: "Miseria, Carla, non lo potevi capire prima che non c’è scampo, ... perché mai non ti sei fermata prima, perché hai voluto entrare a tutti i costi nell’apocalisse, credevi di essere aquila e ti sei ritrovata struzzo, credevi di poter prendere la luna fra le mani e non sei stata capace neanche di raccogliere i fiori del tuo giardino"...
Per lei era stato determinante l’incontro con suor Giovanna, che aveva la sua età, una suora molto dolce, capace di trasmettere felicità di vivere, calore, comprensione, solidarietà, solo con la presenza, senza bisogno di parole. Infatti sono indirizzate a suor Giovanna le più belle lettere di Carla, quelle dove le racconta tutti i suoi problemi, anche cose che per una suora credo siano abbastanza inedite come esperienza di vita, ma lo fa con naturalezza. Carla sentiva che suor Giovanna l’accettava così com’era. E sempre alla Casa della Carità fu determinante l’incontro con Valeria, una donna con la sclerosi multipla, paralizzata a letto da 5 anni, però lucidissima, che, chiedendole di aiutarla, facendole capire che aveva piacere che fosse lei ad accudirla, ha dato a Carla, per la prima volta dopo la droga, la sensazione di poter essere utile, le ha fatto improvvisamente sentire che, malgrado la droga di ieri e la malattia di oggi, poteva essere ancora una persona e dare qualcosa a qualcuno. Fu così che venne fuori la Carla degli ultimi tre anni che, non solo per me, ma per tanti altri, fu una persona meravigliosa.
Devo dire che il senso della morte, della perdita del figlio, l’ho provata più quando ho saputo che mia figlia era tossicodipendente che quando ho saputo che era ammalata di Aids. Quando si viene a sapere che un figlio è tossicodipendente, la prima cosa cui si pensa è proprio la morte perché il cammino della droga è un cammino verso la morte, è la morte come scelta di vita. E per un genitore all’inizio c’è proprio il panico, totale e assoluto. Ci si sente come un animale braccato, completamente impotente e inutile di fronte al dominio perverso di un’entità che stravolge il figlio e contro cui non si sa cosa fare. All’inizio poi si prova in tanti modi, si vuole credere alle promesse del figlio ma ogni volta si è sempre delusi e, addirittura, la situazione peggiora. Fra l’altro il tossicodipendente è molto bravo a impietosire, a far leva sull’affetto del genitore... Così, piano piano, comincia un cammino che è di morte, in cui ogni telefonata può essere quella della polizia per un incidente o un’overdose o una dose tagliata male comprata dal tizio che non hai ancora pagato e che te la dà di proposito... Sono fatti che succedono tutti i giorni. Insomma, anche se la droga non è ancora una condanna definitiva, se si continua sempre a sperare, un genitore sente che il figlio è perduto. Il ragazzo che si droga non ha più sentimenti, ha solo la droga. Alla fine drogarsi vuole dire rifiutare la vita, nascondersi, non affrontare la realtà così com’è, cercare di non fare, gettare la spugna. La malattia non è che la conseguenza di quel rifiuto della vita...
Carla l’aveva capito e alla fine si è ribellata, ha voluto tenere gli occhi aperti di fronte all’Aids piuttosto che ritornare nell’obnubilamento. Io non direi che ho ritrovato mia figlia, è lei che ha ritrovato se stessa, anche la madre certo, tutti gli affetti, il fratello, l’amica, un ragazzo, e infine un lavoro. Ha ritrovato tutto.
L’Aids è una cosa tanto assurda che si può accettare soltanto se ci si rifugia nella fede. E’ veramente una beffa atroce del destino... Si può trovare consolazione solo i
...[continua]
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