Marco Cammelli è professore emerito presso l’Università di Bologna.

Vorremmo il tuo parere sull’autonomia differenziata che tante polemiche sta suscitando.
Allora, cerchiamo di capire innanzitutto cos’è e come ci si è arrivati, poi che implicazioni ha nei confronti del regionalismo in generale e col sistema nostro in particolare (il che non è semplice perché questi, in modo incauto, hanno messo il dito nel centro del centro dei nostri problemi e quindi dipanarli è un po’ complicato) e infine a che punto siamo in questo momento e cosa se ne può concludere.
Partiamo dal “cos’è”. Si intende per autonomia differenziata il trasferimento di ulteriori funzioni legislative e amministrative alle regioni a statuto ordinario (quelle speciali sono a parte) rispetto al catalogo di competenze che già hanno in base all’articolo 117 della Costituzione e relative risorse. Questo è l’art. 116.3. Su quali materie può avvenire? Su tutto? Può riguardare, per esempio, l’esercito, la marina militare? No, sono ventitré materie, dove però c’è tutto quello che riguarda il governo locale, dai servizi sociali all’area dell’assistenza sanitaria, della salute, all’ambiente, al territorio, alla scuola e beni culturali; insomma, quello del potenziale trasferimento è un arco molto ampio di materie. Tutto questo è indicato in un disegno di legge già approvato dal Senato e che sta andando ora alla Camera; siamo proprio nel tragitto parlamentare tra l’uno e l’altro. Questo per quanto riguarda le materie. Come avviene tale trasferimento? Attraverso accordi bilaterali tra la singola regione e lo stato: si parlano, si accordano, poi le rispettive assemblee, quelle regionali e il Parlamento, approvano l’intesa sottoscritta con un procedimento un po’ complesso, che prevede varie approssimazioni. Comunque, il punto chiave è che questo è in sé una cosa prevista dalla Costituzione, non nata dalla mente di Giove o da un colpo di mano della destra eversiva.
Ecco, devo dire che di questo meccanismo possono essere date due letture. Una, per cui qualcuno di noi, e io in particolare, si è inutilmente battuto (ma rischiamo di essere tutti specialisti in cause perse), è quella che, considerando la riforma potenzialmente molto rischiosa per tanti motivi, ne consigliava un’interpretazione restrittiva, e cioè che queste condizioni speciali di autonomia, di autonomia aggiuntiva e differenziata alle regioni, fossero sostanzialmente operazioni di ricucitura, di integrazione, di sartoria, fatte su misura di specifiche esigenze rimaste fuori dal catalogo generale delle funzioni che invece a una singola regione possono servire.
Faccio un esempio per spiegarmi: la regione Veneto ha la laguna di Venezia, che è una cosa particolare evidentemente, con tutta una serie di problemi e che da sempre è disciplinata da una registrazione speciale nazionale; ecco, dare alla Regione poteri anche regolativi in materia di navigazione interna, di ambiente marino, di coste, delle cose che nel resto del territorio vengono gestite dalle capitanerie, per intenderci, ha un senso, perché li integra in modo positivo. In alcuni casi si può procedere in modo abbastanza agevole: se c’è una regione, per esempio la Basilicata, che ha giacimenti di petrolio su cui insistono le trivellazioni con tutta una serie di problemi, beh, voglio dire, chiedere e dare poteri normativi, amministrativi ha un senso, perché permette l’integrazione. Ecco, questa è una prima lettura di tipo integrativo e ricompositivo: ho un certo potere fin qui sulla scuola, ne ho un altro fin qui sugli edifici scolastici, beh, datemi la possibilità di chiudere il cerchio, perché io ho grandi distanze, ho le montagne... e, infine, perché sono in grado di farlo.
L’interpretazione lombardo-veneta è stata opposta: chiedo tutto quello che posso; chiedo tutti i poteri di tutte le ventitré materie. Questo significa avere in mente la costruzione di una regionalizzazione ad hoc, diciamo così, fatta per alcuni e non per tutti, che ha una serie di problemi evidenti, a cominciare dalle ripercussioni sul sistema nazionale.
Un conto è se io uso una cassetta degli attrezzi per rammendare e riempire lacune specifiche, un conto è chiedere il trasferimento di tutto quello che posso chiedere su queste materie.
Questo per quanto riguarda il “che cos’è” e le sue due letture diverse.
Il secondo punto è come si è arrivati a questa cosa?
Come mai in costituzione si è messo questo? Bel tema. Fondamentalmente si trattò di prendere atto, a partire dagli anni Settanta, del fatto che la regionalizzazione aveva tradito molte aspettative. Quindi l’art. 116.3 in primo luogo è stata una risposta a una domanda politica di un minimo di flessibilità rispetto alla rigidezza a cui il sistema era, ed è, costretto e che è il motivo per cui l’amministrazione fa fatica a funzionare (poi c’è da domandarsi perché la rigidezza, ma ci arriviamo). Teniamo presente che questa domanda aveva anche una declinazione estrema da parte della Lega e del Nord, quando, soprattutto nei primi tempi, si parlava addirittura di secessione, di ampolle del Po, cose fantasiose ma pure rischiose, perché poi con le parole non si scherza e, comunque, una volta svanite le fantasie, al fondo è sempre rimasta la richiesta: “Voglio cambiare le cose e se non le cambiate per tutti, le cambio almeno per me”.
Il primo motivo per cui si è arrivati a questo è che c’era una domanda, declinata fra un meno e un più, proveniente da due diverse letture dell’art. 116.3.
Il secondo è che noi venivamo da vent’anni di inadempimento delle decisioni prese in tema di regionalismo. Le riforme Bassanini e il Titolo quinto (2001), si sono rapidamente trasformate in pericolose fughe in avanti e quindi lasciate lì. Abbiamo un pezzo di costituzione, la riforma del 2001, non attuata, e questo è un primo dato.
Il secondo è il federalismo fiscale del 2009, anche quello fermato. Il terzo è che nel prendere atto della persistenza di una realtà in cui è un unicum a legare stato e regioni, diversamente, cioè, dal dualismo che la Costituzione immaginava, sarebbe stata necessaria almeno una presenza delle regioni al centro, cioè dove si decide. Questo anche per togliere alcune fantasie di plenitudo potestatis legislativa che le regioni potevano avere. La riforma Renzi del 2016, che assicurava una presenza del sistema delle autonomie regionali al Senato, poteva servire a questo, ma fu bocciata dal referendum e così tutti i problemi rimasero completamente irrisolti.
Quindi, in ogni modo, con qualsiasi ipotesi, il problema è quello del rapporto centro-periferia...
Sì, c’è stato un tentativo di risposta politica che però si è bloccata. Su questa difficile sistemazione, su questo “va e vieni” del proporre e fermarsi, pesa il problema delle relazioni centro-periferia con tutti i suoi nodi irrisolti. Gira e rigira, si torna al problema della larga irresponsabilità fiscale della periferia, ma prima ancora della diversa capacità amministrativa dei vari livelli, per cui, a parità di regole, diverse capacità amministrative danno diversi risultati. In questo sistema, la differenziazione, la diseguaglianza è endemica, direi strutturale. Aggiungiamoci la larga irresponsabilità fiscale, con il centro che si occupa di tutto, e regioni ed enti locali di pochissimo, e tutto il sistema viene stravolto, a cominciare dal tema della responsabilità politica degli amministratori. L’amministratore mi chiede i soldi e io lo premio se vedo che fa le cose; se i soldi vengono da un’altra parte io al massimo cercherò di premiare quello che mi dà il maggior numero di quattrini raccattati dappertutto in qualche modo. Insomma, è uno stravolgimento dell’intero sistema e non se ne esce. Bisognerebbe che chi amministra il potere rispondesse innanzitutto delle risorse che esso medesimo chiede ai cittadini, il che ovviamente comporta anche il reciproco: i cittadini non hanno solo diritti, ma anche responsabilità: un territorio non può avere il 100% dei diritti e il 40% dell’adempimento fiscale. Così non funziona. So che questo è un discorso duro ma ha la sua importanza.
Questo è un primo punto che si aggiunge alle difficoltà che dicevo. Il secondo riguarda il centro che è il convitato di pietra di tutto, sia quello politico che quello amministrativo, perché rivendica il ruolo di cerniera (e con ragione in un certo senso) in questa diversità di situazioni, ma contemporaneamente garantisce il mantenimento di questo sistema dualistico. Ora il centro, sia politico che amministrativo, è inalterato dai tempi di Giolitti, è fermo da allora, ma si autolegittima sul fatto di tenere insieme questi pezzi che senza di esso non ci starebbero. La cosa è pure aggravata dal fortissimo accentramento che c’è stato negli ultimi vent’anni, dovuto alla crisi del 2008, alla pandemia, alle guerre, e, molto, a un rapporto con l’Europa veicolato dal centro e solo dal centro. Anche questa è un’interpretazione italiana perché in altri paesi il centro è meno “collo di bottiglia” nei rapporti autonomia locale-Europa. Insomma da tutto questo siamo arrivati al paradosso che le Regioni hanno un certo spazio legislativo, peraltro limato dalla Corte Costituzionale, ma la partita che sono chiamate a giocare è essenzialmente amministrativa, il campo cioè dove sono meno attrezzate perché sostanzialmente marginali. Gli strumenti di guida dell’amministrazione, infatti, cioè la finanza pubblica, la contabilità, la funzione pubblica, la contrattazione collettiva del personale, sono interamente statali. Da ultimo abbiamo una forte centralizzazione al centro delle politiche di settore, dovuta a quello che è avvenuto negli ultimi decenni e quindi, alla fine, la discrezionalità dell’ente locale è molto limitata. Tanto è vero che i gruppi di pressione dove si fanno vivi? Chi protesta non va alle regioni, va a Roma. Seguiamo i trattori per capire dove stanno i poteri decisionali. I tassisti, i bagnini, i vari gruppi sanno dove si decide e là vanno.
Insomma, in tutto questo abbiamo la straordinaria possibilità di prendere i fili e di collegarli e, però, di fare cortocircuito.
Attualmente della “lettura modesta” nessuno parla perché ci sono regioni non interessate, mentre la resistenza dei contrari all’autonomia differenziata si è organizzata, anche con buone ragioni (ma l’inferno è lastricato di buone ragioni) immaginando la seguente sequenza: “Vogliamo fare queste cose? Benissimo, facciamole, ma tenendo conto che i trasferimenti richiedono prima la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, i Lep, sennò va in discussione l’unità del paese, i diritti civili, l’eguaglianza sostanziale, eccetera, eccetera”. Piccolo particolare: i diritti civili e l’eguaglianza sostanziale sono già in grossa difficoltà. Li scopriamo solo oggi? In realtà dovevano essere fatti rispettare per tutti già dal 2001. Ora, ben venga, se è un’occasione per essere virtuosi, ma è bene rendersi conto che il problema c’era da prima. È giusto dire che prima di trasferire ci devono essere questi standard e ci devono essere per tutte le regioni, anche per quelle che non chiedono niente, perché i diritti vanno rispettati in tutto il territorio nazionale, ma dobbiamo anche tenere presente che non è possibile parlare dei costi standard senza parlare delle risorse e delle forme di finanziamento delle funzioni nuove. Contemporaneamente resta aperto il discorso della capacità amministrativa. Cioè, non basta mettere lo standard. E poi?
Si tratta di un tema su cui sono particolarmente sensibile, perché di nuovo si ritorna al problema dell’operatività dell’amministrazione. Ora, il disegno di legge Calderoli, approvato dal Senato, prevede che la precedente preliminare definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, con la sequenza di livelli, costi, risorse, capacità, sia il governo a farla nei prossimi due anni con una procedura molto complessa.
Ecco, considerando la farraginosità del tutto e la sequenza di inadempimenti che abbiamo alle spalle, la sensazione è che si sia entrati in un percorso per dare ragione formale a una parte politica, trovare un’intesa fra tutti per poi non farne più di tanto.
Quindi un dibattito serio non c’è stato...
Sì, un dibattito serio non c’è stato, purtroppo, perché gli oppositori hanno subito messo sui cartelli “la secessione dei ricchi”. Che ci sia qualcuno che pensa ai quattrini è probabile, che sia questo il punto, no. Semmai, il valore simbolico delle due regioni più ricche che dicono: “Dateci le nostre cose”, suona come dire: “Ce ne andiamo per conto nostro”, ma questo è un discorso politico. Invece di sistemare l’albero storto del regionalismo italiano dopo tanti anni è come se dicessero: “Intanto cerchiamo di farci dare quello che possiamo e farci in casa qualcosa che funzioni”. Questo è il messaggio che trasmettono, che effettivamente ha un sapore eversivo, perché se pure giustificato e anche comprensibile sul piano istituzionale, politicamente ha un effetto completamente disarticolante. Dopodiché in questa trappola sono cadute immediatamente tutte le voci delle aree più deboli che hanno gridato alla “secessione dei ricchi”. Ma l’autonomia  è l’assunzione di responsabilità sulle funzioni che ti sono affidate.
Teniamo presente che anche la semplice richiesta di una maggiore flessibilità, comporta una maggiore autonomia e quindi diversificazione. L’autonomia non può non differenziare e scoprirlo oggi è francamente sorprendente; il che non vuol dire che sia l’autonomia a creare le differenze, l’autonomia se mai le rende esplicite, visibili e può essere, non l’unica, certo, ma una risposta possibile.
Dovevano essere proprio le voci contrarie a rilanciare chiedendo un regionalismo più attrezzato, dicendo: “Siamo noi ad avere bisogno delle diversità, delle differenziazioni, affinché da noi la cosa funzioni e se non funziona chiederemo forme di decentramento statale come supporto per andare avanti”. Voglio dire che invece di esorcizzare la cosa, vedendone giustamente l’aspetto rischioso, occorreva una controproposta, pena il rischio di lasciare tutto come sta. Anche chiedere i Lep e poi non avere garanzie sulla capacità amministrativa non mi pare un grande passo avanti verso l’eguaglianza dei cittadini nel Paese.
Insomma, il dibattito è stato particolarmente fragile, intanto per questa reazione e in parte per la clausola micidiale della coalizione a cui il sistema semi maggioritario ci costringe mettendo a forza nello stesso contenitore cose diverse. E qual è il modo con cui stanno insieme? Molto semplice: io mi faccio i fatti miei, tu i tuoi e l’altro pure, con l’accordo che nessuno metta il naso nel paniere altrui, il che non è esattamente il modo di fare una politica nazionale. La conclusione è stata che i tre protagonisti di questa coalizione hanno ognuno il proprio tesoretto istituzionale. Fratelli d’Italia ha il premierato, Forza Italia ha la giustizia e Calderoli e la Lega hanno l’autonomia differenziata e ognuno sostanzialmente lascia l’altro… “padrone a casa sua”, per così dire. Questa è la pratica che talvolta non manca neanche  nei consigli di Facoltà . Non è che mi sconvolge, ma il Parlamento e il governo non sono un consiglio di Facoltà, non sono un condominio.
Come possiamo concludere su questo?
Io parlerei delle prospettive che ci possono essere perché altrimenti ci deprimiamo tutti e andiamo a casa a piangere. A me pare che intanto la vicenda metta in luce dinamiche profonde. Ci sono certamente forti e generali elementi di squilibrio del sistema e di diseguaglianza, peraltro presenti da sempre e da sempre denunciati. In fondo, dalla questione meridionale alla nota aggiuntiva di La Malfa all’inizio degli anni Sessanta, siamo sempre lì sugli squilibri, quindi non è una novità. Certamente c’è una frattura profonda, ma la cosa che mi preoccupa di più è il rischio di una frattura grave nella cultura politica delle due Italie. In particolare vorrei prendere un aspetto, la diversa lettura che viene data al tema della prossimità. Per tutta una parte del paese, cioè nel centro nord, la prossimità del potere, del suo esercizio, è un’opportunità, perché ti permette di partecipare, di aderire alle cose, perché ci puoi mettere le risorse, perché puoi cambiare. Penso alle stagioni di innovazione degli anni Cinquanta e Sessanta a Milano e Bologna e a quanto, con la seconda regionalizzazione operata con il Dpr 616 si è avuto nei comuni, soprattutto nelle grandi città, in alcune aree regionali. Ricordo ancora che a una festa dell’Unità, dove ero andato a illustrare i cambiamenti, un signore saltò su e disse: “Giusto, così noi comandiamo, poi allo stato gli diamo la paghetta se ha bisogno”. Per dire del senso della prossimità come riappropriazione di una serie di cose che sai di poter fare. Questo è un dato profondo di cultura politica e sociale che c’è, è reale, è vero, ed è anche confermato dai fatti. Dall’altra parte, nel Mezzogiorno, c’è spesso un’antica e profonda sfiducia nella prossimità, l’autonomia viene letta come abbandono nelle mani dei potenti e dei prepotenti di turno, nell’inefficienza, nel sopruso. È come se in questi casi ci fosse ancora il riflesso dei baroni di un tempo che erano lì vicino e prevaricavano, mentre l’elemento di protezione erano il viceré a Napoli e la corte. Chi conosce la storia del meridione sa bene quanto fosse il potere lontano a garantire dal potere vicino, perché quest’ultimo era un potere incontrollato, arbitrario. Secondo me c’è del vero in questo, perché niente nasce da nulla. Se questo è vero la cultura politica di un paese che ha queste due versioni così opposte è un problema da tenere presente.
Quindi, qual è una via d’uscita?
Io vedo un rischio e una possibilità. Il rischio più grosso è che fra l’accusa di “secessione dei ricchi” da una parte e dall’altra il regionalismo del nord che procede di forza, non si capisce se per malizia o per scarsa cautela o altro, si finisca per non cogliere l’occasione per guardare dentro a ciò che questa proposta di riforma ha fatto emergere. Parliamo di domande diverse che nascono da situazioni diverse: da un’amministrazione che non riesce a essere attrezzata, da un centro non rinnovato che proprio per questa inadeguatezza paradossalmente garantisce il mantenimento della frattura fra le due realtà del paese. L’avviluppo che abbiamo è un nodo che dobbiamo almeno iniziare a sciogliere. Una volta che ci siamo opposti, se mettiamo tutto sotto il tappeto, perdiamo una grande occasione per capire e imparare e fra dieci anni ci risaremo. Perché è proprio sotto il tappeto, nel mantenimento, cioè, dell’esistente che crescono le disuguaglianze.
A mio avviso andrebbe colta l’opportunità che questo tema ci dà nella consapevolezza che il percorso è lungo e che riguarda tutto il regionalismo in sé, non singole regioni, ma l’intero sistema. Per fare cosa? Intanto per ricordarsi che le ragioni delle regioni e dell’autonomia tuttora sono forti, presenti in tutta Europa, in tutti i sistemi, e questo proprio per la complessità dei problemi odierni, per le sfide del futuro, che richiedono una forte partecipazione della gente, altrimenti non ce la si fa, non c’è Stato che ce la possa fare. È questo che voglio dire: non siamo in un vicolo cieco, su una cosa che si spegne, siamo su una cosa che invece ha forza, che ha ragioni attuali. Certamente va ripensato il sistema. Possiamo continuare ad avere un Parlamento-governo del tutto senza collegamenti credibili e organici con il sistema dell’autonomia delle regioni?
Non è pensabile; fra l’altro è un sovraccarico di domande politiche da affrontare che piega le gambe al centro stesso, e che spesso viene gestito malamente. Quindi va ripensato il centro istituzionale e soprattutto il centro amministrativo. Abbiamo i ministeri uguali a quelli di inizio Novecento, che erano in gran parte uguali ai ministeri napoleonici dell’Ottocento. Ci stupiamo che il centro non svolga bene la maggior parte delle funzioni? Noi abbiamo bisogno di sistemare le regioni cogliendone la valenza in larga misura amministrativa. La legge è un modo per amministrare meglio, non è che c’è la legge e poi l’amministrazione seguirà, l’intendance suivra, no, nei sistemi attuali è l’amministrazione che definisce le cose, perché altrimenti è l’amministrazione che le ferma. Oggi le cose si fermano sul piano amministrativo. La legge dà all’immigrato il diritto di asilo politico e le questure gli fissano un appuntamento dopo due anni. La coda davanti allo sportello è diventata uno strumento di filtraggio dell’operatività di un diritto, in parte per malizia, in parte perché mancano i mezzi, ma in ogni caso è lì che va a sbattere il sistema. È così dappertutto. Fai le leggi sulla fiscalità, non fai i controlli, vari addirittura politiche senza i controlli. È pensabile questo? Le Regioni e le amministrazione locali hanno bisogno di autonomia vera e quindi anche di opportune diversificazioni, ma in un quadro di sistema organizzato, definito, bilanciato e con un recupero in ogni caso di responsabilità organizzativa e fiscale.
In questo momento le Regioni e i sistemi locali non sono padroni della loro organizzazione, che peraltro è definita non soltanto dai ministeri, ma anche dalla contrattazione collettiva, quindi anche dalla negoziazione sindacale. La stessa contrattazione decentrata ha limiti significativi in questi dati. L’organizzazione pubblica è condizionata dalle leggi di bilancio; è lì che si definiscono le risorse e anche le regole per usarle, ma tutto questo è al centro, fuori dalla disponibilità di tutto il sistema decentrato. Quindi si tratta di ripensare il sistema con un metodo partendo innanzitutto dal basso.
Per l’operatività non si parte dall’alto e dalle categorie dello spirito, ma dal basso e dai dati delle effettività. Quali sono i risultati delle politiche scolastiche? Chi sono quelli che abbandonano gli studi? Quelli che non riescono? Qual è il grado di preparazione? Bene, io i livelli li costruisco su questo, non sul numero di milioni o miliardi spesi per costruire scuole in cui magari poi manca il personale, oppure digitalizzando. Lo stesso Pnrr è stato utilizzato dall’Italia spesso proponendo come obiettivi degli strumenti. La digitalizzazione è uno strumento, non è un obiettivo. Costruire scuole è uno strumento, l’obiettivo è il grado di apprendimento dei ragazzi. Lo vogliamo misurare? Vogliamo vedere quali sono le cause per cui in una certa zona è alto o basso? È da lì che si parte, risalendo verso l’alto e cercando di vedere quali sono le condizioni di contesto che spiegano certe differenze e i colli di bottiglia che impediscono di colmarle. Questo è il modo di lavorare pezzo per pezzo e risalendo dal basso verso e per questo, ancora una volta, diventano fondamentali i livelli decentrati. delle autonomie e dello stato
Non sono fantasie da Alice nel Paese delle Meraviglie. Maurizio Ferrera ha scritto un ottimo articolo sul “Corriere della Sera” del 21 febbraio 2024 su come l’Unione europea su una serie di cose fissi i dati partendo dal basso per poi controllarli anno per anno e dire a che punto si è.
Occorre partire dal basso e controllare e verificare, queste sono le due modalità con cui costruisci le cose. A quel punto puoi arrivare anche ai meccanismi di riequilibrio, ma tutto questo deve avvenire cambiando anche il metodo. Dopodiché possiamo discutere dell’autonomia, che è un punto d’arrivo, non è un punto di partenza.
È una prospettiva difficile, lunga, me devo dire possibile e, confesso, è l’unica che mi sembra praticabile.
(a cura di Gianni Saporetti)