Tetiana Pechonchyk, giornalista e attivista ucraina, è direttrice di Zmina, Centro d’informazione sui diritti umani. Nel quadro dell’assegnazione del Premio Langer 2023 (3 marzo 2024), il Comitato scientifico e di garanzia della Fondazione Langer ha assegnato all’organizzazione Zmina una menzione speciale.

Puoi parlarci della tua organizzazione? Quando è stata fondata?
Zmina è stata fondata nel 2012, nel periodo in cui l’ex presidente Viktor Janukovych aveva cominciato a imporre le sue politiche autoritarie. Io sono un’ex giornalista e ho vissuto personalmente gli effetti diretti e indiretti della censura. L’oligarca proprietario della nostra testata, volendo farselo amico, aveva proibito a tutti i suoi giornalisti di criticare il presidente. Per questo siamo stati costretti a lasciare la testata. Assieme ad altri, da tempo ci occupavamo di diritti umani ed eravamo consapevoli dell’importanza di dare voce agli attivisti e anche di mettere insieme le persone per rafforzare la lotta contro il regime.
Di fatto quando è nata la nostra organizzazione eravamo in tre. Uno dei nostri cofondatori, Maxim Butkevich, famosissimo attivista ucraino per i diritti umani, ora è prigioniero dei russi.
Nei mesi a seguire, davanti alla presa d’atto che Janukovych si rifiutava di firmare l’accordo di associazione con l’Ue, iniziarono quelle che diventeranno poi note come le proteste di piazza Maidan. Nel 2014 c’è stata l’occupazione della Crimea. Poi è iniziato il conflitto in Dobass, fino ad arrivare all’invasione su larga scala del 2022. Insomma, mentre l’Ucraina stava ancora lottando per costruire la propria democrazia, già stava emergendo una società civile molto forte. Purtroppo i primi anni della nostra esistenza indipendente hanno coinciso con tempi molto drammatici della storia del nostro paese. Comunque, se undici anni fa eravamo in tre, ora siamo quaranta. Il fatto è che se pure fossimo in quattromila, non saremmo ancora sufficienti a gestire l’entità del disastro che ci troviamo di fronte.
Una delle date è il 2014. Puoi raccontarci come avete vissuto l’invasione in Crimea e Donbass?
Per noi tutto è cominciato il 20 febbraio 2014, il giorno che ha registrato il maggior numero di vittime tra i manifestanti in piazza Maidan, nel centro di Kiev. Parlo del più grande bagno di sangue della storia dell’Ucraina. La Russia aveva già iniziato l’invasione della Crimea; immaginate che scoppi un incendio a casa vostra, e il vostro vicino, anziché venire ad aiutarvi, vi entra in casa e vi ruba delle cose. I soldati russi hanno quella data incisa sulle loro medaglie. All’epoca erano chiamati “omini verdi” i soldati coinvolti nell’occupazione della Crimea. Per noi fu un giorno drammatico. Io ero volontaria per Euromaidan Sos, un gruppo che forniva aiuto legale, psicologico e di varia natura ai manifestanti. Mi occupavo di documentare le uccisioni dei manifestanti, di contattare i parenti, di raccordarci con i volontari che ci mandavano le informazioni su chi era stato ucciso… In quei giorni fummo costretti a renderci conto che in Ucraina stava succedendo qualcosa di grave.
Con la comparsa di questi “omini verdi” era iniziata l’occupazione. Il 26 febbraio ci fu una grande manifestazione in Crimea; i rappresentanti dei tatari si appellarono al parlamento per protestare contro l’invasione, ma non servì: i russi presero il parlamento della Crimea con la forza e dopo poco gli attivisti locali e i difensori dei diritti umani cominciarono a scomparire. Il primo caso fu registrato nel marzo 2014. L’attivista tataro Reshat Ametov si era recato nella piazza centrale di Simferopol, che si chiama piazza Lenin, per manifestare contro l’occupazione. Venne preso da quattro uomini appartenenti a un gruppo paramilitare chiamato “Autodifesa ucraina” che collaborava con le forze militari russe. Due settimane dopo, il suo corpo, martoriato dalle torture, venne rinvenuto a sessanta chilometri da Sebastopoli, nel villaggio di Zemlianychne. Gli avevano conficcato un coltello in un occhio. In seguito sarebbero scomparsi decine di attivisti. A quel punto abbiamo capito che dovevamo agire. Così nel marzo 2014 è partita la nostra cosiddetta “Missione sul campo in Crimea”; all’epoca la nostra era l’unica iniziativa internazionale congiunta, formata da attivisti dei diritti umani russi e ucraini, che operava in Crimea stabilmente con l’obiettivo di raccogliere testimonianze e documenti sugli abusi che si verificavano nella penisola occupata. Funzionava così: i nostri colleghi russi andavano in Crimea ogni mese, restavano due-tre settimane, raccoglievano le informazioni e ce le mandavano. Noi preparavamo i report congiunti e li inoltravamo ai media, alle organizzazioni internazionali. Per loro era più facile, avendo i passaporti russi, andare e venire dalla Crimea.
Se viaggiavi con i passaporti ucraini, specie se registrati a Kiev, potevi anche sparire nel nulla, cosa successa a diversi attivisti in Crimea in quel periodo. Abbiamo installato questo gruppo congiunto ucraino-russo proprio nel momento in cui molti giornalisti e attivisti locali avevano iniziato ad andarsene. Quest’iniziativa ha funzionato per un anno e mezzo, fino all’estate del 2015, quando la Federazione russa, con la misura denominata “Patriotic stop list”, ha reso pericoloso operare anche per i nostri colleghi russi. Con questa legge, infatti, i russi potevano includere nella lista delle organizzazioni non desiderabili anche i loro connazionali. A quel punto il nostro lavoro è diventato completamente clandestino, in modo da preservare la sicurezza della nostra rete di osservatori nella Crimea occupata. Negli anni successivi abbiamo potuto continuare a lavorare proprio grazie alle fonti interne che raccoglievano e ci mandavano le informazioni.
Nel frattempo eravate impegnati anche nel monitoraggio delle riforme democratiche avviate in Ucraina.
Per noi era chiaro che non potevamo aspettare che la Russia cessasse la sua aggressione per portare avanti le necessarie riforme democratiche. Sapevamo che l’invasione sarebbe durata a lungo; ormai sono trascorsi dieci anni. Dal 2014 abbiamo dovuto lavorare sugli effetti dell’aggressione russa e al contempo fare pressione per una trasformazione democratica nel nostro paese. Abbiamo promosso la riforma della polizia, quella della giustizia, una legislazione non discriminatoria, la protezione delle persone Lgbt, e altre iniziative volte a difendere le vittime dell’aggressione russa. Ora che è in corso una trattativa per entrare nella Ue, si aprono per tutti noi opportunità importanti per portare avanti questo lavoro.
Dal febbraio 2024 il vostro lavoro si è concentrato sui territori occupati.
Dal 24 febbraio 2022 la maggior parte del nostro lavoro si è necessariamente focalizzato sulla documentazione dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi in Ucraina. Raccogliamo testimonianze sui reati più gravi; parliamo di sparizioni forzate, omicidi extra-giudiziari, torture… Documentiamo anche le deportazioni dei cittadini ucraini in Russia o Bielorussia. Per raccogliere queste testimonianze abbiamo attivato missioni sul campo nelle zone liberate, dove parliamo con le vittime, con i sopravvissuti, con i testimoni, con tante persone; se sono all’estero, facciamo delle interviste da remoto. Usiamo anche i dati open-source.
Ci tengo a dire che non siamo soli in quest’impresa. Facciamo parte di una grande coalizione di 37 organizzazioni della società civile, ci coordiniamo tra di noi, lavoriamo sullo stesso database. In questo momento l’ufficio del procuratore generale dell’Ucraina ha registrato circa 111.000 procedimenti penali basati su crimini di guerra commessi dall’inizio dell’invasione. Ovviamente è un numero destinato a crescere visto che la guerra è tuttora in corso.
Data l’entità del lavoro da fare, la cooperazione e il coordinamento con altre organizzazioni è fondamentale. La nostra rete si chiama “Ukraine 5am coalition”. Le cinque del mattino è l’ora in cui ci siamo svegliati il 24 febbraio al rumore delle prime esplosioni a Kiev e in altre parti del paese, ma le cinque del mattino è anche l’ora in cui la polizia russa faceva le perquisizioni nei villaggi tatari in Crimea, l’ora in cui tirava giù le persone dal letto. È una formula che evoca un senso di allarme, di vulnerabilità, come anche la necessità di reagire.
Oggi molti nostri concittadini sono detenuti ed è molto difficile liberarli. Servono campagne dispendiose in termini di tempo ed energie e quand’anche riusciamo a liberare una persona, la Russia nel frattempo ne ha prese altre dieci o cento. Anche se otteniamo qualche successo, è un percorso pieno di ostacoli, tanto più che ora la Russia controlla il 20% del territorio ucraino e la popolazione di quelle zone è de facto loro ostaggio. È una lotta improba, soprattutto perché i meccanismi di tutela dei diritti umani non funzionano per loro; la Russia non solo non rispetta alcune dichiarazioni o raccomandazioni in materia, non adempie neppure alle decisioni delle Corti internazionali. Prendiamo per esempio due decisioni della Corte internazionale di giustizia (Icj) dell’Aja, l’ultima, quella del marzo 2022, chiedeva alla Russia di ritirare le truppe dall’Ucraina. La Russia, come sappiamo, non l’ha fatto. La decisione precedente dell’Icj, nel caso Ucraina vs Russia, prevedeva che la Russia ripristinasse l’attività del Mejlis, l’organo rappresentativo dei tatari di Crimea. Nemmeno questo è stato fatto e sono già passati sei anni. Il Mejlis viene tuttora considerato un’organizzazione terroristica e in Crimea i suoi componenti sono perseguitati. Il primo rappresentante è stato arrestato e ora è stato mandato in Russia, in una colonia penale. Parte di quella risoluzione del 2017 richiedeva alla Russia di predisporre corsi in lingua ucraina nelle scuole in Crimea, ma neanche questo è stato fatto. Abbiamo a che fare con un paese che non riconosce le leggi e gli ordinamenti internazionali. L’unico modo efficace per riportare lo stato di diritto, la tutela dei diritti umani, il sistema penale, è liberare queste aree, perché nessun meccanismo di tutela oggi funziona nelle aree occupate dalla Russia. Purtroppo l’osservatorio delle Nazioni Unite sui diritti umani, insediato nel 2014, non ha accesso ai territori occupati della Crimea. Non gli è proprio permesso andarci. Fanno dei report sulla Crimea, ma usando informazioni fornite da noi o altri; se intervistano delle persone lo fanno online.
C’erano poi altre istituzioni che fornivano aiuti umanitari in Ucraina. Anche il loro lavoro è importante, ma quando è iniziata l’invasione su grande scala tutte queste missioni hanno lasciato il paese con tutto il loro staff e personale, o si sono traferite a Uzhgorod, ai confini occidentali. A cercare di difendere i diritti umani siamo rimasti noi, quasi senza risorse. Quando i conflitti terminano o i contesti sono più sicuri allora anche le grandi organizzazioni tornano e riaprono i loro uffici… Purtroppo il loro aiuto sarebbe invece necessario proprio nell’emergenza, nel mezzo del disastro. Quando, per esempio, non vengono creati corridoi per l’evacuazione e le persone restano uccise nelle proprie auto mentre sono in coda nel tentativo di fuggire dalle loro città, quando non c’è elettricità, non c’è cibo, non c’è acqua… è allora che il loro aiuto sarebbe richiesto, invece arrivano quando tutto è stabilizzato.
In tutti questi mesi sono stati principalmente i cittadini ucraini a raccogliere aiuti e distribuirli alle persone.
Nei primi due mesi dell’invasione, a fine febbraio, marzo e aprile 2022, tante organizzazioni hanno lasciato Kiev. Una mia collega, impiegata in una di queste realtà, è rimasta nella capitale, ma l’ha fatto come volontaria; essendo infermiera ha prestato aiuto agli anziani, ai malati di cancro, ai giovani, in generale a chi non poteva lasciare la città.
L’aiuto è venuto dai tanti volontari, che hanno raccolto fondi, distribuito medicine, cibo. Gli altri se ne sono andati.
Che situazione state trovando nelle zone liberate?
Le città nei pressi del fronte sono distrutte e spesso continuano a essere sottoposte a bombardamenti. Kherson, liberata oltre un anno fa, quasi ogni giorno viene bersagliata dai russi L’altro problema è che ci sono le mine. Si registrano diversi casi di agricoltori uccisi dalle mine antiuomo. In quei posti non vivono tante persone, molte se ne sono andate, spesso a essere rimasti sono gli anziani. Poi ci sono i bambini: per loro è molto pericoloso andare a scuola quando questa si trova a poca distanza dal fronte.
Inutile dire che tutte queste persone sono state traumatizzate durante l’occupazione, hanno subìto detenzioni illegali, torture, e altri crimini. Necessiterebbero di una riabilitazione, specialmente chi ha subìto torture. Purtroppo in questo momento non c’è un numero sufficiente di operatori in grado di fornire cure mediche e assistenza psicologica e questo è un grosso problema.
L’altra questione è il perseguimento dei crimini commessi. Qualsiasi sistema collasserebbe di fronte a oltre centomila crimini di guerra da indagare. Le persone vorrebbero ricevere giustizia, ma non c’è modo, non ci sono attori in grado di rispondere a questa esigenza in tempi brevi. Poi c’è il fatto che alcune delle persone che vivono nelle zone liberate hanno paura perché magari hanno parenti o proprietà in territori ancora occupati, e quindi esitano a rilasciare testimonianze, temono di incorrere in azioni di rappresaglia contro di loro o i loro familiari o ancora hanno paura che i russi tornino e riprendano il controllo di quei luoghi.
Qual è il rapporto tra restrizioni legate alla sicurezza nazionale e tutela delle libertà fondamentali? Come vedi la situazione del tuo paese?
Come sapete, in Ucraina vige la legge marziale. In queste condizioni, capita che vengano limitati alcuni diritti, alcune libertà, per esempio quella di movimento; attualmente ai nostri uomini è fatto divieto di lasciare il paese, perché devono poterlo proteggere dall’aggressione. Ci sono altre limitazioni che riguardano il diritto all’istruzione; le scuole vicine al fronte sono state chiuse per tutelare la vita dei bambini. Ci sono limitazioni alla libertà di parola: non ci è consentito rivelare dove si trovano i soldati ucraini, eccetera. Parliamo di limitazioni comprensibili. Tuttavia, in quanto difensori dei diritti umani, noi monitoriamo costantemente la situazione, verifichiamo che nessuno elimini più libertà di quanto sia necessario per difendere la sicurezza del paese; è importante che le misure siano proporzionate. In alcuni casi abbiamo criticato alcuni provvedimenti o fatto pressioni perché venissero ritirati o rimodulati quando la situazione subisce un cambiamento. Per esempio, se prendiamo la libertà di parola, abbiamo registrato casi di limitazioni non necessarie per i giornalisti che lavorano al fronte, specialmente a sud. Un altro tema che riguarda la libertà di informazione è stata l’introduzione di queste specie di “telethon” a reti unificate, per cui tanti canali diversi mandano le stesse notizie. È una misura che garantisce più controllo al governo.
Questo formato è stato imposto subito dopo l’invasione, ma ora sono in tanti a ritenere che non sia più necessario. Ci serve più libertà nei canali televisivi, è importante che ognuno produca il proprio contenuto, ci dovrebbero essere più dibattiti televisivi. Se nelle prime settimane aveva senso far sentire una voce unica, ora riteniamo che in tv ci vorrebbe più libertà. Non vogliamo sentire solo l’opinione del governo.
Tra i nostri report, ce n’è proprio uno dedicato alla libertà di informazione in tempo di guerra; abbiamo fatto un sondaggio e due terzi dei giornalisti interpellati hanno affermato che questo format andrebbe interrotto. Detto questo, ci tengo a sottolineare che, nonostante la legge marziale, in Ucraina resistono ampi spazi di libertà: si continuano a fare manifestazioni. Inoltre, anche se per la tv vigono quei regolamenti, sul web c’è libertà totale: infatti la gente ha smesso di guardare la televisione e va su YouTube per ascoltare le discussioni e i dibattiti!
Hai citato questa finestra di opportunità per entrare nell’Ue. Tu sei giovane, le nuove generazioni come giudicano il comportamento dell’Europa, cosa si aspettano?
Non sono più giovane! Ero studentessa al tempo della rivoluzione arancione, nel 2004. Poi ero all’Euromaidan… a quarant’anni sono veterana di due rivoluzioni! Ci tengo a dire che il percorso che stiamo facendo verso la democrazia è genuino, non abbiamo intrapreso la strada delle riforme perché vogliamo entrare a far parte dell’Ue. Qui non abbiamo zar, non abbiamo regnanti e comunque la nostra è una nazione europea. E allora perché non dovrebbe entrare a far parte della famiglia europea? Noi vogliamo restare uniti con i paesi democratici con cui condividiamo valori importanti, e anche lo sviluppo economico. Certo, molti ucraini forse coltivano delle illusioni rispetto all’entrata nell’Unione. Alla fine verosimilmente non sarà tutto rose e fiori e tuttavia sono convinta sia questa l’unica via. Così come dobbiamo entrare nella Nato, per ricevere protezione dal nostro vicino. Quando questa guerra sarà finita, non mi illudo che la Russia diventerà democratica in un futuro prossimo. Dovremo convivere con un vicino aggressivo per decenni, per generazioni: dobbiamo entrare a far parte di un sistema di sicurezza collettiva, cioè la Nato, e al contempo in un collettivo, in un’unione impegnata a difendere stato di diritto, diritti umani e sviluppo economico, e quella è l’Unione europea. In effetti, questo percorso era già stato tracciato anni fa; ai tempi dell’Euromaidan era anche stato messo in costituzione. All’epoca la stragrande maggioranza degli ucraini, l’80-90%, aveva espresso la volontà di entrare nell’Ue e nella Nato.
Cosa pensi delle esitazioni di alcuni paesi membri anche rispetto agli aiuti da dare al tuo paese?
Noi non stiamo lottando solo per il futuro del nostro paese. Stiamo anche proteggendo l’Ue. La logica della federazione russa è quella di un impero moderno. L’età degli imperi è finita nel Diciannovesimo e nel Ventesimo secolo, ma per qualche brutto scherzo della storia, l’impero russo continua a esistere nel Ventunesimo. Ora, se l’Ucraina collassa, soccomberà all’aggressione russa. A quel punto, non dico che la Russia possa pensare di attaccare direttamente paesi membri dell’Unione, come la Polonia, ma, per esempio, molto facilmente potrebbe occupare la Moldavia, questo sì.
Per questo dico che l’Ucraina sta proteggendo non solo se stessa, ma anche gli altri paesi europei. Sono molto rattristata dal fatto che talvolta questa cosa non venga capita in Europa.
Per me è doloroso, perché ho molti colleghi e amici al fronte, che sono stati feriti o uccisi, persone comuni, attivisti, ma anche giornalisti, programmatori, ristoratori. Ho tre cugini che in questo momento stanno combattendo. Stiamo pagando un prezzo estremo che non può essere misurato con il denaro. Stiamo dando la nostra vita. È per questo che mi fa arrabbiare sentire quei discorsi, scoprire che ci sono sostenitori di Putin in Europa…
Per noi tutto questo è molto triste. D’altra parte non abbiamo altre opzioni: dobbiamo combattere. Certo, preferiremmo farlo con l’aiuto degli altri, perché da soli non so se ce la facciamo.
La memoria dell’Holodomor è presente nell’immaginario delle nuove generazioni?
Dopo tanti decenni di oblio, quella memoria sta riemergendo. In epoca sovietica era proprio proibito parlarne. Io sono originaria di Rivne, una regione nord-occidentale del paese, vicina alla Bielorussia e non distante dalla Polonia, quindi in una parte del paese che non era sotto l’Unione Sovietica all’epoca dell’Holodomor, eppure i miei nonni e bisnonni ricordavano come talvolta qualcuno proveniente dal sud, dalle sponde del fiume Dnipro, si presentasse a casa nostra affamato, pronto a dar via anche gli ultimi capi di vestiario pur di poter mangiare qualcosa. Naturalmente i miei li sfamavano senza chiedere nulla in cambio. L’Holodomor è entrato a far parte della memoria di tutta quella generazione. Per esempio, pur non avendo noi una famiglia molto numerosa, mia nonna teneva sempre del cibo da parte; c’era del pane secco nascosto in giro per casa o sotto il tetto. Nel timore che potesse succedere di nuovo. A tavola, poi, non era permesso lasciare qualcosa nel piatto prima di alzarci. Dovevamo mangiare tutto come forma di rispetto. Piccole cose che testimoniano di un trauma collettivo che ha attraversato le generazioni: non dovevamo dimenticare. Poi, negli anni Novanta, sono stati aperti gli archivi storici. Nel 1989-90, in pieno collasso dell’Unione Sovietica, alle scuole secondarie, nei programmi di storia veniva raccontato l’Holodomor, quindi noi abbiamo studiato quello che è successo. Se ne parlava anche studiando la letteratura ucraina.
Oggi l’Holodomor è conosciuto anche a livello internazionale; molti parlamenti hanno riconosciuto il genocidio del popolo ucraino. Trovo sia una cosa positiva. Il problema è che i responsabili dell’Holodomor non sono mai stati puniti, nessun tribunale è stato mai istituito per fare giustizia. Dopo l’indipendenza dell’Ucraina non c’è stato quel processo di “lustrazione” avvenuto ad esempio in Polonia o in Repubblica Ceca: molte personalità e funzionari legati al Kgb o al Partito sono rimasti in carica. Le persone collegate a quei crimini, i loro discendenti, sono rimasti parte della classe dirigente. È anche per questo che l’Ucraina è stata a lungo in questa sorta di limbo, per cui non poteva entrare nell’Unione europea, ecc. Oggi in qualche modo stiamo riscoprendo la nostra storia. Molti, per esempio, hanno cominciato a condividere nei social network le storie delle loro famiglie…
A essere ottimisti riguardo alla fine della guerra: quali ritieni saranno le sfide principali per il tuo paese?
Il concetto di “fine della guerra” è un tema a sé, perché questo può assumere significati diversi a seconda dell’interlocutore. Se per fine della guerra intendiamo la riconquista, da parte dell’Ucraina, dei suoi territori, inclusa la Crimea, la sfida principale per me è rappresentata dal fatto che, come dicevo, non credo che la Russia assisterà a una transizione democratica interna nei tempi brevi.
La Russia resterà un paese autoritario, quindi la prima grande sfida sarà la questione della sicurezza: dobbiamo sapere che la Russia può riorganizzarsi, ricostruire la sua macchina da guerra e attaccarci ancora. In secondo luogo, c’è il problema degli ostaggi, inclusi i civili che sono stati catturati e trattenuti, molti dei quali si trovano in località segrete, centri di detenzione, colonie penali; non sappiamo neppure quanti siano. Per non parlare dei tantissimi bambini ucraini deportati in Russia. Dovremo identificare gli ucraini detenuti nel territorio della Federazione russa e liberarli. Ci vorranno tanti anni perché sono state loro comminate pene molto lunghe. Sono queste le due sfide più grosse che dovremo affrontare.
Nel futuro vedi una possibile riconciliazione con il popolo russo?
Non siamo i primi paesi a subire un’aggressione; sappiamo che non c’è un’unica ricetta. Esiste una cornice sperimentata di cosiddetta “giustizia di transizione” elaborata a livello dell’Onu, già codificata, che richiede però il perseguimento dei crimini e quindi una giustizia rispetto a ciò che è accaduto; ci sono poi le commissioni per la verità, la memorializzazione, tutte le misure necessarie affinché il conflitto non torni a ripetersi. L’Ucraina è già oggi coinvolta nella redazione di leggi importanti per il futuro; abbiamo un ministero per la reintegrazione. A noi, in quanto difensori dei diritti umani, spetta assicurarci che questo processo rispetti gli standard internazionali sui diritti umani. Non ci dovranno essere provvedimenti sproporzionati e arbitrari, per esempio nei confronti delle persone che non hanno commesso crimini ma magari hanno indirettamente collaborato all’occupazione. Sarà un processo lungo e doloroso, ma credo che per quanto riguarda i territori oggi occupati la riconciliazione e la reintegrazione saranno possibili. Più difficile sarà un riavvicinamento tra noi e i russi che vivono in Russia. Quello sarà un processo assai più arduo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)