Pierpaolo Perretti, patrologo e ricercatore, da vent’anni insegna materie letterarie nei licei. Attualmente è professore di lettere presso il liceo classico di Rende (Cosenza). Il libro di cui si parla nell’intervista è Perché (non) andare a scuola, Rubettino, 2022.

Vorremmo partire dalla domanda che attraversa il tuo libro: a cosa serve la scuola?
Nelle pagine iniziali ho proposto la trascrizione-rielaborazione dei dialoghi al centro delle lezioni con cui tradizionalmente introduco l’anno scolastico, perché quello delle motivazioni mi sembra uno dei temi centrali. Di qui anche il titolo, ovviamente provocatorio, Perché non andare a scuola, che vuole appunto rappresentare le false motivazioni con le quali ci si iscrive a scuola e allo stesso tempo offrirne di diverse. Ovviamente i ragazzi, nella maggioranza dei casi, vanno a scuola perché sono obbligati; raramente ci sono motivazioni personali profonde. Nella migliore delle ipotesi ti dicono che vengono a scuola per poi trovare un lavoro o per farsi il famoso “bagaglio culturale”. Ora, a me tutto questo è sempre sembrato un po’ insufficiente: tutti noi pensiamo giustamente al nostro futuro, ma abbiamo anche necessità di qualcosa che ci renda vivi e motivati sul momento. Voglio dire: è difficile motivare qualcuno a studiare per cinque anni alla luce di quello che gli succederà magari dopo quindici. Io resto dell’idea che una delle vere motivazioni dovrebbe consistere un po’ nella percezione della bellezza delle diverse cose che si fanno.
Venendo alle questioni di fondo, una delle domande ormai annose è se la scuola pubblica contribuisca all’uguaglianza o se addirittura non enfatizzi le disuguaglianze…
È un problema enorme. Io tendenzialmente sono sempre e comunque a favore della scuola pubblica. A patto che la scuola pubblica svolga effettivamente il suo mestiere. Purtroppo, per come è stata intesa, la scuola è sempre più diventata un luogo di accoglienza, che da almeno venti, trent’anni ai ragazzi chiede sempre meno. Per cui il rischio è che effettivamente si parifichino tutti, però verso il basso. E questo nonostante i grandi, enormi sforzi di tanti professori, schiacciati però da un sistema che per tanti motivi non funziona. Allora la scuola pubblica andrebbe sostenuta. L’impressione, da semplice lettore dei giornali, è che la scuola venga sostenuta nella migliore delle ipotesi con soldi. Per carità, sono assolutamente necessari, ma quando i soldi arrivano, specie ultimamente, si trasformano in un pc o in una Lim più performante.
Nel libro ho cercato di esprimere il senso della perdita di significato della scuola, tema che richiederebbe una riflessione profonda da parte di tutti. Purtroppo è questo che vedo mancare in Italia. Non basta fare la campagna elettorale su “aumentiamo gli stipendi”; lo sforzo andrebbe sostenuto con un movimento di pensiero.
Hai dedicato molte riflessioni alla questione della valutazione.
È stato un senso di desolazione a spingermi a scrivere. Dopo l’ennesimo anno scolastico in cui tutte o gran parte delle mie energie psicologiche erano andate a scontrarsi con questa questione della valutazione, ho sentito proprio la necessità di uno sfogo. Nel libro ne parlo a lungo, ma non ne parlo con piacere perché mi sembra sia ormai diventata una questione assolutamente sterile. Proprio poco fa abbiamo avuto una riunione in cui si è parlato prevalentemente di questo. Sembra essere diventato l’unico argomento su cui si prova la qualità di una scuola, di un insegnamento; su questo si valuta il rapporto con le famiglie, con i ragazzi stessi. Alla scuola si è chiesto di diventare un ente certificatore, con il paradosso che comunque non la si ritiene in grado di svolgere questo compito.
Lo si deduce anche solo dal fatto che in qualunque colloquio di lavoro, per esempio rispetto alla competenza nella lingua inglese, se uno dice “livello scolastico” vuol dire zero? Ma come può essere che una materia che si studia per tredici anni valga zero! I miei figli hanno cominciato in prima elementare... Se invece hai frequentato un corso in una scuola di inglese che rilascia una certificazione, allora quello viene considerato. È soltanto un esempio, ma che vale per tutte le altre discipline.
Quindi la scuola da un lato pretende di poter certificare qualcosa (noi parliamo continuamente di competenze anche se non abbiamo ancora bene capito cosa siano), ma lo fa in maniera illusoria, perché poi i voti dipendono da troppe cose. Io stesso no ...[continua]

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