Nel tuo libro hai raccontato la storia dei movimenti e delle lotte per una nuova convivenza tra gruppi linguistici diversi negli anni Settanta e Ottanta in Alto Adige / Südtirol in modo abbastanza speciale. Puoi parlarcene?
Ho cercato di realizzare una biografia collettiva, nel senso che ho raccontato di movimenti e riviste di quel meraviglioso laboratorio che promuoveva lo scambio tra popolazioni di lingua tedesca, ladina e italiana, che si batteva con grande impegno contro la politica istituzionale di quegli anni mirata alla separazione tra i singoli e alla blindatura delle collettività di appartenenza.
È un movimento che nasce alla fine degli anni Sessanta-inizio anni Settanta e prosegue per tutti gli anni Ottanta. Si contrappone in maniera decisa al concetto che lo sviluppo ordinato di una comunità possa realizzarsi solamente attraverso la separazione netta tra persone di lingua e cultura diverse, che custodiscono biografie e storie lontane tra loro. Siamo alla fine di quello che viene chiamato il lungo ’68 europeo. Tutte le guerre ridisegnano i confini e così al termine della Prima guerra mondiale, nel 1918, l’attuale Provincia di Bolzano e il Tirolo meridionale (Welschtirol), l’attuale Trentino, sono annessi all’Italia con un’operazione a tavolino, portando il confine al Brennero. Il secondo Statuto d’Autonomia, nel 1972, sostituisce il primo firmato nel 1946 da De Gasperi e Gruber, ed è una buona norma di rango costituzionale. Il nuovo accordo tra Roma, Bolzano e Vienna, viene condiviso -non senza difficoltà- da parte della Südtiroler Volkspartei e della Dc, cioè di quell’asse forte di potere che governava la Provincia. Lo Statuto è condiviso anche dalle sinistre vecchie e nuove come il mezzo più corretto per difendere le minoranze nazionali linguistiche e culturali.
Erano già lontani i tempi in cui ci si odiava e si saltava in aria, gli anni del terrorismo. Ma il fronte a cui appartenevo, anche se accettava i principi di fondo della nuova Autonomia, riteneva che la sua applicazione concreta aprisse dubbi di democraticità. Non ci si poteva accontentare di vivere uno accanto all’altro, ma si doveva cercare di vivere insieme, Miteinander, e di avere un reale scambio con il diverso da sé. Quindi al centro del dibattito, oltre alla tutela delle minoranze linguistiche, doveva essere promossa anche la ricerca di un nuovo modello di convivenza per la costruzione di un Alto Adige/Südtirol felice cerniera tra la cultura tedesca e italiana, fucina di iniziative capaci di delineare una nuova realtà europea.
Nel libro parlo molto anche del movimento delle donne, delle varie declinazioni in cui era stato articolato lungo queste nuove prospettive, per lasciare alle spalle il doloroso passato segnato dall’affannoso vivere uno contro l’altro, Gegeneinander. Nel suo ideale statuto costitutivo, il movimento di liberazione delle donne stava dalla parte del Miteinander. Questo è quello che si voleva fare. La convivenza tra diversi era auspicata anche con autorevolezza dal vescovo della Diocesi di Bolzano e Bressanone, Joseph Gargitter.
Ma l’opposizione a questa nuova prospettiva di convivenza da parte dei partiti al potere era veramente fortissima. Basti pensare che nel 1979 l’assessore alla cultura di lingua tedesca, Anton Zelger, pronuncia una frase programmatica che appare veleno allo stato puro e che impedirà a lungo esperienze di scuole e di associazioni plurilingui: “Più ci separiamo e più ci capiamo!”.
Ci puoi raccontare qualche iniziativa assunta in questa prospettiva?
Allora, nel 1979 gli studenti dei licei scientifici di Merano, la seconda città dell’Alto Adige/Südtirol, avevano iniziato a frequentarsi nelle aule, nel senso che una volta al mese una classe andava nella scuola dell’altra lingua e viceversa. I due licei scientifici erano divisi da un semplic ...[continua]
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