Nara Lotti vive a Santa Sofia, provincia di Forlì.

Mi chiamo Nara Lotti e sono nata a Santa Sofia il 28 giugno del 1928. Il mio babbo era morto nella guerra del ’18. Ci ha tirato su la mamma, eravamo poveri allora. Quando il mio babbo è morto, io avevo solo quattro anni e anche i miei fratelli erano piccoli. La mia mamma andava in campagna ad aiutare i contadini, così alla sera riusciva a portare a casa qualcosa da mangiare.

Sì, ho fatto la staffetta partigiana. Noi avevamo dei vicini con cui eravamo quasi un’unica famiglia, sempre da una casa all’altra. Loro erano chiamati i sovversivi, perché la pensavano in modo differente dalla maggioranza. Così finivano sempre in prigione e io sentivo che dicevano che lottavano per la libertà. Ero una bimba, li ascoltavo sempre e sono cresciuta con questa idea e questa speranza che si potesse stare meglio. Quando è iniziata la lotta partigiana due dei miei fratelli sono andati in montagna e così anch’io li ho seguiti. Ricordo che un partigiano mi invitò ad andare con lui a una riunione. Chiesi di cosa si trattava. Mi disse che c’era un partigiano che aveva partecipato alla guerra in Spagna che ci avrebbe detto come dovevamo comportarci. Mi invitò ad andare perché mi sarebbe stato utile se volevo fare la staffetta. Io non avevo mai sentito parlare di questo, non sapevo cosa volesse dire fare la staffetta. E lui mi rispose che avrei dovuto portare la roba in montagna e anche gli ordini.
Così da lì cominciai. Alla riunione c’era il segretario politico Battaglia, di Forlì. Quando mi incontrò mi disse di ricordarmi che era pericoloso fare la staffetta: “Se ti prendono, guarda, ti uccidono, ti torturano”. Gli risposi che non importava, che volevo fare la lotta anch’io per cambiare, per stare tutti meglio. Così cominciai ad andare in montagna. A Santa Sofia c’era il comitato, erano tutti uomini e io mi chiedevo come mai loro rimanessero a casa;  poi ho capito che avevano famiglia e anche paura. Io invece non avevo paura di nulla. Facevo tantissima strada a piedi per le montagne, sempre con le ciabattine, che le scarpe erano poche.
La mia mamma mi aiutava. Lei andava dai contadini che avevano le pecore, prendeva la lana e confezionava delle maglie per i partigiani. Anche le mie amiche e i vicini mi aiutavano, poi magari andavo in montagna da sola, che non si poteva mica essere in tanti. La staffetta l’ho fatta da sola, ma in paese mi aiutavano. Mi trattavano come una sorella. Io ero una ragazzina con le trecce, allora si diventava donne più tardi, a diciotto, vent’anni. Non prima. Mi volevano bene come a una sorella e guai a chi mi toccava.

Cosa pensavo del fascismo? Io andavo da un sarto e ricordo che venivano dei giovani della stessa mia età, dei fascisti, e dicevano che loro lottavano per diventare tutti uguali, che volevano uccidere i signori. E io gli chiedevo: “Ma come? Ma se vi mantengono loro?”. Non capivano. Erano di Rocca San Casciano. Loro non capivano proprio, poverini, che era una lotta sbagliata. E io invece sentivo che stavo partecipando a una lotta giusta e glielo dicevo. Ma loro continuavano a dire che no, non era così. Poi pian piano ho smesso di frequentarli, avevo paura, bisognava stare attenti. Quelli del Comitato mi avvisavano continuamente di fare attenzione, di non parlare.
I miei fratelli erano uno comandante di compagnia e uno commissario. Facevano politica. Andando su, a volte li vedevo, ma non sempre. Quando arrivavo, tutti mi chiedevano se avevo fame, se avevo mangiato, ma io sapevo che loro avevano poco o quasi nulla, così rispondevo di sì; in realtà mangiavo i fiori di sambuco e di maruga per strada. Sì, della maruga, non so come la chiamate, adesso non ne mangio, ma allora sì, perché camminando mi veniva sempre fame. A casa non è che ci fosse molto da mangiare, un po’ di pane che mettevamo sopra la brace e diventava un crostino. Quello era il nostro cibo.
Lassù i partigiani dormivano o in una capanna data dai contadini o a volte addirittura in una stanza, ma i più dormivano all’aperto. Si lavavano nel fiume. Io invece, di solito tornavo a casa a dormire. Ricordo che una sera, che dovevo andare ad avvisare un ufficiale inglese che partisse subito perché altrimenti i tedeschi lo avrebbero catturato, rimasi fuori e i partigiani suonarono dal prete, su a Poggio, a mezzanotte, per cercare asilo per me, ma lui non aprì, perché ero una donna. Però dietro alla canonica c’era una terrazza, i partigiani ci misero una scala, io salii ...[continua]

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