Roberta Raffaetà è ricercatrice presso la Libera Università di Bolzano. Marie Curie e Fulbright Fellow, ha studiato in varie università (Ucla, Monash Melbourne, Losanna). È in uscita il suo ultimo libro: Antropologia dei microbi. Come la metagenomica sta riconfigurando l’umano e la salute (Cisu, www.cisu.it, Roma).

Le tue ultime ricerche di antropologa si sono incentrate sul mondo dei microbi, ma anche sul nostro rapporto con questi microrganismi. Come è nato questo interesse?
L’esplosione della pandemia ha reso molto popolare il termine “microbi”, al giorno d’oggi ne parlano tutti. Il virus ne fa parte, anche se è un microbo molto particolare.
Ho cominciato a pensare di fare una ricerca su questo tema sei anni fa, perché mi permetteva di mettere insieme una serie di interessi, ovvero lo studio della salute e della malattia, lo studio dell’ambiente e lo studio della scienza e della tecnologia.
La mia ricerca è poi confluita in un libro, Antropologia dei microbi (Cisu, Roma), in cui racconto come i ricercatori studiano i microbi e cerco di riflettere sul perché sia importante comprendere le loro pratiche, di lavoro e interpretative, perché sono queste a dar forma a come ci relazioniamo al mondo microbico.
Tali pratiche sono cambiate in maniera significativa negli ultimi dieci anni, proponendo una visione del mondo microbico, e quindi anche del nostro rapporto con esso, molto innovativa. Rispetto ai paradigmi del passato, per cui i microbi erano qualcosa da cui bisognava difendersi, oggi i ricercatori sono in grado di vedere e studiare la grande complessità microbica che vive intorno, sopra e dentro di noi. Basti pensare che, secondo alcune stime, il 90% delle nostre cellule sarebbero microbiche, e non umane. In realtà esiste un dibattito, altri ricercatori hanno abbassato questa percentuale fino al 50%, ma anche se fosse è pur sempre una grande quantità.
Le pratiche che hanno aperto lo sguardo sulla complessità microbica consentono, come dicono gli scienziati, di vedere “who is there and what they are doing”, quindi chi sono loro (i microbi) e cosa stanno facendo. Ma questa nuova visione del mondo microbico vuol dire anche ridefinire cos’è il nostro stesso corpo, che non è delimitato e chiuso da confini netti, ma è semi-aperto, semi-poroso, sempre in scambio continuo con tutta questa comunità microbica.
I microbi influiscono anche sul concetto di salute, che non è più legato esclusivamente a un corpo o a singoli organi, ma emerge da una serie di interconnessioni con l’ambiente. In altre parole, la nostra salute è anche la salute dell’ambiente, e non bisogna dimenticarsi che l’ambiente è sempre sia materiale che socio-politico e culturale.
Tutto questo mi ha incoraggiato ad approfondire questo paradigma scientifico. Ero anche molto curiosa di vedere se e come questa complessità, molto antropologica, si traducesse nelle pratiche lavorative dei ricercatori. Per esempio, ora si parla molto di sequenziare il virus, ma probabilmente pochi di noi sanno veramente cosa significhi. Nel libro vado proprio a mostrare cosa vuol dire: è veramente affascinate percorrere tutti i passaggi, i protocolli che la comunità scientifica ha sviluppato per riuscire a leggere il dna dei microbi e il materiale genetico dei virus.
Ecco, una delle cose che ho osservato è che i ricercatori sono molto ancorati a quella che nel libro chiamo “visione molecolare” nel tracciare il dna dei microbi e nello stilare alberi filogenetici, cioè nel creare una storia evolutiva.
Cosa significa “visione molecolare”?
La visione molecolare significa vedere i microbi a partire dal sequenziamento del loro genoma; si tratta poi di riuscire a organizzare questi diversi genomi in configurazioni che abbiano un senso, per esempio secondo modelli evolutivi. Gli scienziati studiano il dna delle comunità microbiche: se prelevassero un campione della tua saliva potrebbero individuare l’intera comunità microbica che vive nella tua bocca. Con questa visione molecolare, riescono a capire abbastanza il “who they are”, il chi sono, e stanno provando a capire anche cosa stanno facendo questi microbi.
Si chiama molecolare perché parte proprio dallo studio del genoma. Io la contrappongo a una visione ecosistemica, che è quella a cui ti forza il paradigma del microbioma.
È molto difficile creare un ponte tra la visione molecolare e la visione ecosistemica, proprio perché la tecnologia di sequenziamento e di analisi dei dati è ancorata al paradigma cl ...[continua]

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