Maria Minuca, rumena, vive a Forlì.

Da dove vieni?
Vengo dalla Romania, sono nata nel ’61,  in campagna, a cinquanta chilometri dalla prima città, però in un posto bello, bellissimo per me. La casa è ancora lì, ma è vuota, vecchia, deve essere ristrutturata. L’ha fatta la mia mamma, l’ha proprio costruita lei con dei mattoni che faceva con la terra. Era molto povera, non possedeva niente. Io sono l’unica figlia, sono andata a scuola prima in campagna, a Cluj, per otto anni, poi dopo in città. Ho fatto la scuola professionale e poi ho cominciato a lavorare con un contratto in una fabbrica di scarpe, perché allora funzionava così: dopo la scuola avevi direttamente un posto di lavoro. Ti davano anche la possibilità di andare all’università, ma io non ci ho mai pensato, perché avevo pochi soldi e la mia mamma faceva fatica. Volevo iniziare presto a guadagnare.
La fabbrica era a Toplita. Avevo un contratto di cinque anni, dopo due anni è morto il mio babbo, che era di vent’anni più vecchio della mia mamma. Una volta non era importante che ti sposassi con un uomo che ti piaceva o che amavi, ma che, per esempio, avesse un po’ di terra. La mia mamma non aveva niente e allora i suoi genitori l’hanno proprio spinta a questo matrimonio anche se c’erano tanti anni di differenza. Lei non ha avuto una bella vita, non è stata felice. Comunque lui a 70 anni ha avuto un infarto ed è morto.
A quel punto la mia mamma è rimasta da sola e allora sono ritornata a casa e sono stata quasi due anni con lei. Alla fine però è stata lei a dirmi: “Non devi stare qui con me, devi andare a lavorare e farti la tua vita”. Ho trovato lavoro a Reghin, sempre in una fabbrica di scarpe: era quello che sapevo fare. Lì ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito.
A differenza di quello della tua mamma, quindi il tuo è stato un matrimonio d’amore?
Non lo so, forse allora... Adesso non saprei dire perché non è stato un matrimonio felice: ho incontrato quest’uomo e sono rimasta lì. All’epoca, alle donne che non erano sposate e che erano brave al lavoro, davano un alloggio. Era un appartamentino piccolo, una camera e un lavandino, il bagno era da un’altra parte. Era una specie di corridoio lungo, però lì mi sono trovata bene, perché ero da sola.
Ci siamo sposati il 31 gennaio del 1987, ed ero già incinta di quattro mesi. A luglio è nata mia figlia, e mi sono dedicata completamente a lei, alla mia bambina. Lui ogni tanto beveva. Andava a lavorare, però la sera non era proprio lucido. Questa bambina per me è stata tutta la vita. Mentre ero al lavoro, pensavo a cosa dovevo fare quando arrivavo a casa, cosa dovevo comperare, cosa mi mancava. La mia vita era lei. Poi c’era la mia mamma, che era rimasta da sola. I primi anni, quando Alina era piccola, andavo da lei ogni due o tre settimane, poi ho cominciato ad andarci tutte le settimane. Mi ha aiutato molto nella crescita di mia figlia, è stata un angelo per me.
Tre generazioni di donne... i maschi sono un po’ assenti in questa storia.
Sì, i maschi sono stati assenti.
Mia mamma ha sempre lavorato con gli animali, per un periodo di tre, quattro anni ha tenuto le oche, ne aveva fino a seicento in allevamento, non erano sue ma di una società, poi ha avuto dei maiali; ha fatto sempre un lavoro da uomo. Poi un giorno ha preso una botta al seno con la maniglia di una porta; stava trasportando un sacco di farina per i maiali sulle spalle. Facendo i controlli è venuto fuori che aveva un nodulo nel seno. Il medico le ha detto che si doveva operare. Ma lei si è rifiutata, non poteva smettere di lavorare. Lei era da sola. Io non mi sono sentita di spingerla; le ho detto che doveva decidere lei, che era la sua vita. A 64 anni le hanno diagnosticato un cancro ormai non operabile. Le hanno dato delle medicine e le hanno detto che aveva sei mesi di vita.
In realtà è vissuta fino a 80 anni. Ha sempre continuato a lavorare: c’era la casa da seguire, il suo orto, il suo cortile; era una gran lavoratrice e anche una donna buona. È morta lo scorso 17 febbraio; è stata ricoverata sette giorni e poi me l’hanno lasciata a casa.  
Alina nel frattempo era venuta in Italia. Già quando aveva vent’anni ci voleva venire perché una sua amica c’era andata sette anni prima e poi si era sposata con un rumeno. E come avveniva per molti, quando tornava a casa aveva sempre delle cose molto belle, non so, un bell’orologio, un profumo, delle belle auto. Alina voleva fare come lei. Non voleva neanche finire l ...[continua]

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