Anna Ponzellini, sociologa del lavoro, già docente alle Università di Bergamo e di Brescia, Carlo Dell’Aringa, economista, già sottosegretario al ministero del Lavoro e delle politiche sociali (ministro Enrico Giovannini), e presidente dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, Giuseppe Della Rocca, esperto di organizzazione e professore di Sociologia del Lavoro e dell’Industria all’Università della Calabria e Paolo Nerozzi, già sindacalista Cgil e senatore Pd, nella seconda metà del 2015 hanno partecipato a un gruppo di riflessione coordinato da Giuseppe della Rocca (assieme ad altri studiosi, politici e sindacalisti, tra cui Mauro Bonaretti, Carlo Mochi Sismondi, Renato Ruffini, Michele Gentile, Carmine Russo, Pierluigi Mastrogiuseppe) che si è incontrato alcune volte per esaminare la possibilità di utilizzare la leva della partecipazione diretta come via d’uscita alla debolezza delle relazioni di lavoro nel pubblico impiego rispetto alla pressante esigenza di innovazione dei servizi.

In questi ultimi anni avete lavorato per una proposta di partecipazione dei lavoratori nelle pubbliche amministrazioni. Potete raccontare?
Giuseppe Della Rocca. Tutto è iniziato mettendo assieme un gruppo di amici, pochi accademici, molti "operativi”, sindacalisti, ma anche dirigenti, per discutere di questo istituto della partecipazione nel pubblico impiego. Negli ultimi contratti sul pubblico impiego si parlava di diritti di informazione, consultazione e appunto partecipazione. Tuttavia, almeno a mio parere, questa impostazione non ha funzionato. Cioè, è sempre stata intesa come una partecipazione volta a far sì che il sindacato entrasse anche nel merito della gestione. All’epoca si parlava di "contrattazione in profondità” rispetto alle prerogative manageriali del pubblico. Insomma, si trattava di una partecipazione ai fini della contrattazione e non ai fini del miglioramento del servizio pubblico. Questo è stato uno dei temi su cui ci siamo interrogati. Di qui, grazie ad Anna Ponzellini, è nata anche l’idea di raccogliere e studiare alcune testimonianze relative a casi in cui, invece, pur in assenza di un riconoscimento ufficiale, la partecipazione dei lavoratori aveva portato a un miglioramento del servizio. In alcuni casi il sindacato era presente; erano forse anche presenti alcuni meccanismi di contrattazione, ma non erano questi i fattori fondamentali.
Ecco, siamo partiti da qui. Che considerazioni possiamo fare? Intanto va precisato che il contesto del pubblico impiego è molto diverso da quello del privato. Innanzitutto per l’alta percentuale di intellettuali e professionisti. Rispetto ad esempio al manifatturiero, dove pure sono in corso tanti esperimenti di tipo partecipativo, qui parliamo di un contesto con più del 50% del personale laureato; questa è una delle principali diversità.
Dopodiché, la pubblica amministrazione è caratterizzata da un quadro complessivo fatto di molte regole, all’interno di una logica top-down, dove al dipendente pubblico è chiesto, in primo luogo, di adempiere a delle norme. Per questa ragione ci è sembrato importante inserire un discorso di partecipazione manageriale, e quindi anche uno stile di direzione di tipo diverso, improntato all’ascolto e alla responsabilizzazione dei collaboratori. Almeno personalmente mi è sembrata un’ottica importante per il futuro. Dai primi segnali mi pare si riscontri una relativa sensibilità rispetto a questo.
Paolo Nerozzi. Faccio una brevissima considerazione storica sul tema della partecipazione. Alla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta, esisteva un modello di partecipazione dei lavoratori soprattutto nell’ambito dei servizi alla persona; siamo nell’epoca dell’inizio dei servizi socio-sanitari, psichiatria, medicina del lavoro, scuola materna, nido, ecc.
La partecipazione fu una proposta che veniva dagli operatori trovando alcune amministrazioni molto sensibili. Penso alla regione Emilia Romagna, in particolare Reggio Emilia, meno Bologna, Modena, eccetera. Con il sindacato che guardava a questa evoluzione con molta paura. In quelle fasi, gli accordi fissavano la cornice, ma la partecipazione non vedeva il sindacato coinvolto in prima persona. In realtà, il sindacato nazionale era contrario anche alla stesura degli accordi; furono iniziative che riguardarono sostanzialmente l’Emilia, Milano, un po’ di Toscana, e basta. Anche con intuizioni interessanti dal punto di vista normati ...[continua]

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