Danilo Beltrambini, 38 anni, vive a San Mauro Pascoli (Rimini); da vent’anni lavora in un laboratorio artigianale di taglio scarpe.

Che studi hai fatto?
Ho fatto l’istituto d’arte. Avevo iniziato a fare l’Iti ma non mi piaceva l’ambiente, così ho cambiato e sono andato a fare grafica pubblicitaria. In quel periodo mio padre si è ammalato. Sono riuscito a prendere il diploma di terza superiore, ma dopo sono dovuto andare a lavorare. Una decina d’anni dopo, a 26 anni, siccome mi era rimasto il pallino di non essere riuscito a diplomarmi, ho fatto i corsi serali e adesso sarei ragioniere.
Avrei anche voluto fare il conservatorio ma erano tutte cose piuttosto lunghe e dispendiose. A sette anni mi avevano regalato le tastierine: ci stavo molto tempo, mi è sempre piaciuto tantissimo. I miei mi hanno mandato un po’ a scuola di musica e poi, da solo, ho studiato la classica. Da grande ho suonato anche con Max Gazzè e Cristina Donà. Però è rimasto un hobby; ci faccio cinque-seicento euro l’anno con i concerti. Il mio lavoro sono le scarpe.
Ho iniziato a 18 anni. Sono stato costretto perché mio padre stava male e i miei non mi potevano mantenere. Doveva essere una cosa temporanea, invece sono vent’anni che lavoro in quello stesso posto. Mi sono trovato relativamente bene. È una piccola azienda, un laboratorio artigianale gestito da padre e figlio.
Tu fai il tagliatore, puoi raccontare?
Quando ho iniziato tagliavamo a mano, con un trincetto e una lima. I modellisti ci davano le sagome, noi ci mettevamo lì e piano piano, un paio alla volta, facevamo le scarpe. Le sagome le chiamavamo "delme”, in dialetto. Immagina un cartoncino un po’ più rigido con dentro, scavati, dei solchi per fare i segni che servivano ai montatori.
Il trincetto altro non era che una lastra sottile di metallo, un metallo abbastanza morbido, che si poteva arrotare anche con una lima. Non aveva neanche la forma della lama, era proprio un rettangolo, e tu lo dovevi tagliare per dargli la forma che volevi.
Quando entravo, la mattina, c’era un silenzio delizioso. Si sentivano dei colpetti, come giornali che cadono sul legno. Arrivavo al lavoro, aprivo l’armadietto, prendevo il camice. La stanza era piccola, con sei operai, ognuno al suo banchetto con i modelli ai lati. Tu entravi e sentivi: tam, tam, tam. La mattina nessuno aveva voglia di parlare, si sentiva solo questo tam, tam, tam. Così. Ogni tanto qualcuno arrotava: trr, trr, trr. Quando il materiale era particolarmente duro dovevo spingere con il dito. Le mie mani erano piene di calli e ogni tanto capitava la famigerata "bistecca”. Quando appoggiavi il modello di cartone sul pellame lo dovevi tenere con le mani per ritagliare la sagoma. Dopo un po’ uno faceva in fretta, non puoi stare lì a guardare ogni volta. Facendolo tutto il giorno capita la distrazione: se tieni il dito fuori dalla sagoma te lo prendi, e il trincetto è molto affilato. Se ti tagliavi sulla punta delle dita ti provocavi solo una ferita, però se ti tagliavi sul polpastrello ti veniva via proprio una fettina di dito: la chiamavamo "bistecca”. Era una scocciatura perché per un giorno intero non riuscivi più a usare il dito.
Comunque in generale è un mestiere abbastanza sicuro, non mi posso lamentare. Anzi, dove lavoro prestano grande attenzione a tutte le formalità: ci sono i cartelli con scritto "Attenzione alle mani”, ci sono i gradini con il nastro zigrinato per il pericolo di caduta e su ogni scaffale è indicato il peso massimo. Stanno molto attenti, non gli conviene prendere una multa per una sciocchezza. Non è che siamo messi proprio benissimo, la crisi l’abbiamo sentita parecchio.
All’inizio come apprendista guadagni pochissimo. Quando ho iniziato prendevo circa 800 mila lire, sui 400 euro. Non ci si poteva vivere. Se avevi i genitori che lavoravano allora potevi uscire, comprarti dei vestiti, ma non era possibile pagarsi le bollette con quella cifra.
D’altra parte, i primi quattro-cinque mesi sei quasi un peso, perché sbagli un sacco di cose, ti devono seguire, ti devono spiegare. Sei lentissimo, produci poco, insomma non credo tu sia remunerativo. All’epoca il titolare lo faceva proprio per avviare una persona, per formare un tagliatore esperto. È un investimento: prendi un ragazzino, gli insegni il mestiere, e dopo sì che vedi la differenza, perché il tagliatore è uno che va a prendersi il suo modello, si organizza, guarda il pellame e fa anche il conteggio del consumo. Il punto ...[continua]

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