Marina Piazza, sociologa, negli ultimi anni si è occupata prevalentemente della tematica della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Ha pubblicato, tra l’altro, Le ragazze di cinquant’anni. Amori, lavori, famiglie e nuove libertà, Mondadori, 2000; Le trentenni. Progetti di vita e di lavoro, Mondadori, 2003. Il libro di cui si parla è L’età in più, Narrazione per fogli sparsi, edizioni Ghena, 2012.

Nelle tue riflessioni sulla vecchiaia, dici che, a differenza di altre stagioni della vita, vissute più collettivamente, la vecchiaia è un tragitto molto individuale e anche molto precario...
Quattro o cinque anni fa avevo cominciato a scrivere un diario per me su questo avvicinamento a qualcosa che sentivo un po’ come minaccioso, quasi inconcepibile.
Dopo aver scritto sulle cinquantenni e poi sulle loro figlie, le trentenni, arrivata a questa età mi intrigava provare a capire che cosa vuol dire. Di lì è venuta subito una prima considerazione, cioè che non sarebbe stata un’indagine di tipo sociologico. Ho come realizzato -e questo era anche uno dei motivi della mia, tra virgolette, depressione- che, mentre da giovani e poi anche un po’ dopo, durante i cinquant’anni, c’era uno scambio continuo, un lavoro collettivo, un flusso autocoscienziale, tutto questo col tempo era venuto meno.
Mi sembrava che questo inoltrarsi nel territorio della vecchiaia (perché questo non è un libro sulla vecchiaia, ma piuttosto sull’invecchiamento, su questo "procedere verso”) fosse qualcosa che ciascuno viveva molto singolarmente e che dipendeva moltissimo dalla situazione di vita.
Questo discorso vale in fondo per tutte le età, ma è particolarmente vero per questa fase della vita. Cambia infatti moltissimo se c’è un buon rapporto di coppia, se hai i nipotini vicini, se stai bene in salute, se hai ancora un lavoro che però non ti sfianca; insomma, se ci sono delle condizioni favorevoli. Se invece, per caso, uno qualsiasi dei pilastri di questo equilibrio viene meno, non so, un’improvvisa malattia, la perdita di un sostegno, la fine di un lavoro, ecco che allora tutto diventa molto più duro e anche solitario.
Volevo parlare di questo e di altro e mi sono detta: "Va bene, allora parto da me”, in un certo senso sfidandomi anche. Ci sono stati dei momenti in cui mi sembrava un po’ di spogliarmi in pubblico, c’era del pudore a mostrarmi con le mie debolezze, fragilità, inquietudini, e poi però mi sono detta che era un modo di riallacciare dei fili con altre donne della mia generazione. Alla fine, quando ho messo insieme tutti questi fogli sparsi, è venuta fuori una specie di autobiografia individuale, ma anche un’autobiografia generazionale.
Questo lavoro mi è servito anche per affrontare le asprezze di quest’età che si avvicinava; è come se mi fosse servito a entrare, a non voler più fare un corpo a corpo con la vecchiaia, ma a dire: "Ci sono!”. Naturalmente non è che io adesso sia una vecchia signora "rotonda” e quieta, sono sempre inquieta e balzana, però è come se sentissi di più che ci sono dentro. In fondo, come dice Betty Friedan, il modo in cui affronti la vecchiaia è legato al tuo passato, non è che ci sia uno stravolgimento. Dice la Friedan: "Tutte le esperienze, gli errori, i trionfi, le battaglie perdute e quelle vittoriose, i momenti di disperazione e quelli di esaltazione sono ora parte di me: sono me stessa a questa età!”.
Nel mio caso, forse a quest’età ho imparato ad accettare qualcosa che mi sono portata dietro per tutta la vita e che viene dalla mia storia, segnata dal fatto di essere rimasta orfana di padre e di aver sempre sentito il bisogno di una specie di riconoscimento. Ecco, a un certo punto mi sono detta: "Adesso basta, sei tu che devi dare riconoscimento! Sei tu che devi ospitare l’altro, non l’altro che deve ospitare te”. Questo mi sembra un grande cambiamento, però, intendiamoci, è ancora molto teorico!
A quest’età, racconti, se si lavora ancora, c’è il rischio di una sorta di precarietà di ritorno.
Io ho sempre lavorato abbastanza a pieno ritmo. Correre da un posto all’altro, gestire impegni ravvicinati è stata una costante nel mio lavoro; nella nostra cooperativa bisognava scrivere, partecipare ai convegni e contemporaneamente dovevamo fare ricerca, perché altrimenti non stavamo in piedi. Di questa frenesia oggi un po’ mi pento: di essere andata in giro, aver fatto tanta formazione e non aver avuto il tempo, non essermelo ritagliato, per fermarci e confrontarci. Abbiamo lasciato ...[continua]

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