Marina Piazza, sociologa, ha pubblicato, tra l’altro, Le ragazze di cinquant’anni. Amori, lavori, famiglie e nuove libertà, Mondadori, 2000; Le trentenni. Progetti di vita e di lavoro, Mondadori, 2003, L’età in più. Narrazione per fogli sparsi, edizioni Ghena, 2012. Il libro a cui si fa riferimento nel testo che segue è: La vita lunga delle donne (Solferino 2019).

Metamorfosi di una parola. Prima della grande catastrofe, era indelicato (di cattivo gusto?) chiamare vecchi i vecchi e vecchie le vecchie. La stessa parola -vecchiaia- faceva orrore e appunto dis-gusto. Anziani si poteva dire, senior si poteva dire, persino post-adulti, senza timore di cadere nel ridicolo. Per questo, per ridare dignità e vita alla parola vecchiaia, per entrare nello sguardo di chi la vive, ho ascoltato tante donne e ho scritto questo libro. E improvvisamente, come in un repentino cambio di scenario, i vecchi sono diventati vecchi: deboli, bisognosi, vulnerabili, reclusi per ordine superiore in casa, condannati a morte nelle Rsa, che hanno evidenziato il loro lato disumano, isolandoli prima in un parcheggio a pagamento in attesa della morte, facendoli rapidamente morire oggi.
È una strana sensazione: come se questo libro, su cui ho lavorato tanto tempo, uscito nel settembre dell’anno scorso, che ho discusso in tante presentazioni e discussioni,  si fosse improvvisamente allontanato, fosse già di un’altra epoca. Un’epoca in cui mi sembrava essenziale parlare di vita nella vecchiaia, di contraddizioni e paure, di perdite e di guadagni, ma comunque di vita. E ora ci confrontiamo con una morte possibile, vicina, e con la solitudine, la lontananza, la mancanza di contatto. Anche se ci siamo disabituate a pensare che si muore di vecchiaia, sappiamo comunque che di vecchiaia si vive, che a volte un impulso può scuoterci come un ricordo antico, come una primavera di febbraio che sente la gelata, ma mette fuori lo stesso il suo fiore. Per questo, perché penso che si potrà tornare alla vita -una “normalità” che ci appartiene- credo di poter ancora parlare di questo libro. Proprio alla fine, come conclusione, citavo l’episodio del vecchio albero di prugne nel giardino della casa di campagna che da anni sembrava rinsecchito e morto, e che invece proprio nei giorni in cui scrivevo la conclusione, aveva inaspettatamente esibito un tripudio di frutti gialli, succosi, buonissimi…. L’albero era bizzarro, dicevo, ma anche la vecchiaia lo è, può anche capovolgere tutto. Soprattutto le idee preconcette, le immagini stantie, i luoghi comuni, siano negativi o positivi. Per dare un po’ di spazio alla vita.
Anche ora voglio parlare di vita, ma non credo che ne potrò parlare con le stesse parole di prima. Perché la presenza devastante del virus -e il modo immorale, disumano con cui lo si è messo in contatto con la vecchiaia (pazienza se muoiono i vecchi)- ha  sconvolto i nostri pensieri. Fin  dall’inizio dell’espandersi del virus abbiamo dovuto confrontarci con la morte, con la morte accettata -e persino a volte suggerita- di noi, con la morte in solitudine, senza cari vicino, senza aver potuto vedere per l’ultima volta i nostri figli, i nostri nipoti, con la violenza tragica di un corteo di bare che corre anonimo sotto i nostri occhi. Potrebbero essere le nostre bare, abbiamo pensato. Abbiamo pianto sulle nostre possibili morti senza diritto al compianto, che è qualcosa che implica una collettività, una società, una polis.
 Ma poi, lentamente, è emersa una verità: che quella morte era stata inflitta soprattutto a chi viveva nelle Rsa, diventate improvvisamente non un rifugio ultimo, ma un mattatoio. Non avevamo veramente mai preso in considerazione l’ipotesi che questo ricorso alle Rsa fosse qualcosa di auspicabile per noi, avevamo però indugiato nella speranza che potessero diventare qualcosa d’altro, più sopportabili, più vicine ai bisogni delle persone, più umane. Il coronavirus ci ha sbattuto la verità in faccia. Avevamo anche pensato che non ci auguravamo di passare questa fase della vecchiaia nella nostra casa con una badante. Il corona ci ha tolto anche questa eventuale, seppur non invidiabile, possibilità perché anche le badanti o le colf non potevano uscire di casa. E nemmeno noi ci sentivamo di spronarle a venire per un dovere di protezione anche nei nostri confronti, oltre che dei loro.
Così siamo rimaste faccia a faccia con la solitudine, con lo stare da sole in casa, con la necessità di organizzazione quotidiana, con la manutenzione obbligata della nostra esistenza e di quella della nostra casa, con l’arduo compito di confrontarci con l’uso di strumenti tecnologici, che finora frequentavamo male e non spesso. Noi che viviamo sole e che non abbiamo la compagnia di un marito, di un compagno, di un figlio, di una sorella. Ci siamo attrezzate, ci siamo un po’ abituate, ma ci restano molte domande. Perché il tempo del corona virus è anche un tempo di interrogazioni, su chi e cosa siamo attualmente, ma soprattutto su chi e cosa diventeremo.
E sono interrogazioni che partono dal vissuto personale, ma che diventano politiche perché pensiamo che a queste domande è la società che deve rispondere, che deve individuare pensieri e modi diversi nell’affrontare la vecchiaia. Non lasciando alla buona volontà, alle competenze, alle capacità del fai-da-te il periodo del passaggio all’invecchiamento e poi ammucchiare i grandi vecchi nelle residenze assistite.
Ci sono altri modi. In Danimarca, ad esempio, fin dal 1986 è stata proibita la costruzione di nuovi istituti; dal 1996 al 2010 i posti-letto negli istituti sono stati ridotti da 36.000 a 8.000; contemporaneamente i posti-letto in soluzioni abitative sono passati da 22.000 a 71.000. Quindi nuove politiche abitative per gli anziani e studio di modalità efficaci per la cessione e la gestione del patrimonio immobiliare agli enti pubblici. Quello che comunque è sembrato emergere in modo vistoso durante questo tempo sospeso è la consapevolezza che non si debba e non si possa guardare al pianeta anziani come un tutto indifferenziato e che non si possano tralasciare le differenze sostanziali tra le fasce di età che convivono nella lunga, e sempre più lunga scia della vecchiaia. Quando si è vecchi? A 65? A 75? A 80 anni? L’età anagrafica è fluttuante, l’unico ancoraggio è l’età statistica, avversata duramente da un coro di giuste negazioni (vecchio a 65 anni? Impossibile solo a pensarsi). E poi ci sono le differenze di reddito e di condizione sociale, di salute o malattia, di solitudine o di vicinanza con altri, e soprattutto le differenze di genere. Perché è diverso invecchiare come donne e invecchiare come uomini.

Come scrive Mariangela Gualtieri (“adesso lo sapremo quanto è triste stare lontani un metro”), mi sembra importante riflettere sull’impatto che può aver avuto sulla nostra psiche la necessità, anzi l’obbligo, di distanziarsi dall’altro. Non più abbracci, né baci, né strette di mano. La solitudine imposta -mitigata (?) dal video del cellulare o del pc- diventa centrale.
Le donne sono abituate a vivere da sole in vecchiaia, perché vivono più a lungo degli uomini, ma anche perché nella loro vita adulta l’hanno scelto, ma questo vivere in un silenzio assordante non l’avevamo mai provato, è diverso da quello che avevamo sperimentato precedentemente, è una solitudine estrema. E allora, credo, si debba mettere a frutto la solitudine. Bisogna ritrovare la capacità, di fronte agli avvenimenti catastrofici, di sviluppare nuovi apprendimenti, nuove soluzioni, nuovi aggiustamenti, ciascuna nella sua situazione perché non c’è una soluzione uguale per tutte. Bisogna preservarsi una sorta di retrobottega, di esercizio spirituale, un luogo tutto nostro in cui riscoprire alcune parti di noi che sembravano dimenticate, sbagliando, ritentando, disimparando, ma vivendo. Scoprire insomma, oltre all’importanza dell’altro-da-sé, anche l’importanza dell’altro-di sé, come scrive Manuela Fraire. Possiamo anche scoprire che non sempre ci piace, anzi a volte ci dispiace, come sembra dirci un personaggio di Altan “il lockdown mi ha fatto riscoprire me stesso: mi sono tolto il saluto”.
Certo, può succedere che non ci piacciamo, può succedere che in queste notti lunghe la nostra vita ci appaia densa di strappi, che non siamo state noi a vivere la nostra vita… Forse può anche andar bene guardarci dentro con sincerità. Con sincerità, ma anche con un po’ di compassione: se non sentiamo compassione per noi, per le nostre meschinità e fragilità, se non conosciamo quello che sta dietro la nostra corazza, come possiamo avere compassione per gli altri? Come riusciamo a vedere anche la bellezza dell’imperfezione?

Esercizi di funambolismo, anche avanzati, anche rischiosi, richiesti da questo che sentiamo come un ulteriore passaggio. Molti sono i passaggi che abbiamo attraversato: il passaggio dei trent’anni, dei cinquanta, dei settanta…
Pensavamo che l’ultimo fosse la morte. Invece no, la vita, con il virus, ce ne propone un altro. Un ulteriore passaggio rispetto a quello della consapevolezza di invecchiare, che pure ci era costato molto. Un momento in cui possiamo avere l’impressione di aver perso tutto: la fiducia, la speranza, il progetto -per quanto piccolo e breve potesse essere. Si fa strada qualcosa che potremmo chiamare angoscia o disperazione, non solo per le nostre sorti individuali, ma anche per quelle collettive, per la mancanza di una luce finale. Allora è meglio chiamare l’angoscia angoscia e la disperazione disperazione, scrivere le due parole in caratteri robusti, con piena visibilità. È meglio riuscire a piangere, piangere molto, a dirotto, come quando eravamo bambine. Non ci siamo sbucciate un ginocchio, ci siamo sbucciate l’anima.
Ma forse, dopo aver pianto, possiamo anche asciugarci le lacrime e pensare che qualche piccolo guadagno -piccolo rispetto alla perdita, ma prezioso- possiamo metterlo in campo. Ad esempio noi, per la nostra età, sappiamo che navighiamo nel mare dell’incertezza e della fragilità. L’abbiamo accettato. Ma questa consapevolezza non ci deve far dimenticare che la fragilità diventa vulnerabilità se l’altro non la accetta, se se ne serve per farci del male, ferirci, danneggiarci. Questo abbiamo visto in questo periodo e non lo tollereremo più. Lotteremo con tutte le nostre forze per un farci buttare nel mare dei sommersi. Ci esporremo: contro la politica sociale, contro la politica sanitaria, contro le Rsa, contro tutto quello che di disumano si è rivelato in questo tempo. Come scriveva Primo Levi, che di sommersi aveva cognizione, “nascosto e esposto… perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vuole esposizione”. E non ci sottrarremo nemmeno al guardarci dentro, al combattere quel senso continuo di inadeguatezza alimentato dalle nostre molteplici fragilità, alla difficoltà di condividere e di chiedere aiuto all’altro, per orgoglio, per la propensione a fidarci solo di noi, al non saper chiedere all’altro, per pudore, per vergogna. Abbiamo capito che chiedere vuol dire imparare ad affidarsi, a “fidarsi” dell’altro. Non riuscire a chiedere implica il pensiero sotterraneo (ma quanto potente) che sia l’altro a dover indovinare o, peggio, che l’altro non sia in grado di farlo. In fondo è un modo per sminuirlo, per disprezzarlo.
Non ci sottrarremo nemmeno al continuare ad amare e apprezzare le piccole cose, le piccole esplosioni, il sale della vita, come ci ricorda Françoise Heritier. Nei primi tempi del confinamento ci siamo buttate a capofitto ad affidarci alle nostre mani, a pulire, a cucinare, a riordinare, a disinfettare, insomma a far agire le nostre mani come se il fare del corpo ci aiutasse a far stare in silenzio la paura. E abbiamo anche capito che c’è una gioia del corpo, delle mani, del fare (imparare a far bene le pulizie a ottant’anni?), una sorta di piccola ritrovata libertà. Forse quella che devono pur aver provato le nostre nonne, da sempre in casa? E che noi avevamo dimenticato, magari facendo le stesse cose, ma male, in fretta, con l’occhio all’orologio, con l’urgenza di sbrigarci perché non erano queste le cose importanti.

Oppure ci siamo permesse di mollare la presa e di riuscire ad assaggiare qualche momento felice a cui aggrapparci: stare in silenzio di fronte a un tramonto che cambia tutti i giorni o vedere giorno per giorno lo schiudersi di un fiore. Piccole cose, piccole esplosioni. E non subito, ma abbastanza presto abbiamo letto, abbiamo riflettuto, abbiamo scritto qualcosa, per tentare di capire noi e gli altri. Non so se servirà a qualcosa: non credo in generale che questo periodo di solitudine e di distanza -se e quando finirà- ci cambierà davvero, non credo alla sua natura salvifica e redentrice, non credo che ci farà più “buoni”. Forse più attente, anche alla nostra vecchiaia, a come posizionarla e legittimarla di fronte a un contesto ostile.