Silvio Basile è stato fino a una decina di anni fa professore associato di "Diritto Regionale” presso la Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri” dell’Università degli Studi di Firenze, dopo aver insegnato "Diritto Pubblico” all’Università di Bari.
Tra i suoi scritti si segnalano:
Principi generali del diritto e diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 1968 (con G. Maranini); La corte e lo sciopero politico, in "Giurisprudenza costituzionale”, fasc. 5 (1975); Il referendum nell’Italia liberale: dibattiti ed esperienze, "Il Pensiero politico”, a. XXVI, n. 1 (1993); Valori superiori, principi fondamentali ed esigenze primarie, in Scritti in onore di A. Predieri, tomo I, Milano, Giuffrè, 1996; Classe politica e referendum in una dimenticata pagina degli Elementi di Gaetano Mosca, in Politica e società: studi in onore di Luciano Cavalli, Padova, Cedam, 1997; La cultura politico-istituzionale e le esperienze tedesche in Scelte della Costituente e cultura giuridica, il Mulino, 1981; nonché un saggio sulla legge costituzionale che ha portato al rientro dei Savoia in Italia per il Commentario della Costituzione edito da Zanichelli (Leggi costituzionali e di revisione costituzionale [1994-2005], 2006).

Prima di venire al tuo incontro con Calogero, raccontaci qualcosa di te, delle tue origini…
Sono nato in un’isoletta molto lontana dalla terra d’origine dei miei genitori e sono poi vissuto fino a diciotto anni un po’ dappertutto tra Italia e Corno d’Africa, finché, venuto per motivo di studio a Firenze, non mi sono stabilito definitivamente in Toscana. Sarà per questo che mi sento un uomo estraneo alla comunità in cui mi trovo a vivere, un uomo senza radici, senza patria; ma anche un uomo ben disposto a capire ogni altra persona di qualsiasi paese, specie se si sente come me. Non dev’essere stato un caso se ho messo su famiglia con una donna non italiana.
E della tua formazione politica, cosa ci dici?
Mi sono formato politicamente sui due settimanali di quell’area di sinistra liberale che a un certo punto uscì dal Pli e costituì un partito di poco seguito che nelle elezioni del 1958, alleato con il Pri di La Malfa, riuscì sì a fare uscire i repubblicani dalle loro roccaforti tradizionali, ma anche in quelle a far perdere molti dei loro consensi (Mario Pannunzio ci rimase male e scrisse un famoso articolo: "Un paese immaturo”. Aveva ovviamente ragione. Gli diedero ovviamente torto). Sono stato politicamente vicino a Mario Pannunzio fino a quando visse.
Quando nel partito radicale si venne allo scontro sul caso Piccardi e il gruppo pannunziano si dimise in blocco, fui senza esitazioni dalla parte dei dimissionari. Non poteva essere diversamente, non tanto perché a Pannunzio dovevo tutto il poco che ero riuscito a fare (mi faceva collaborare al "Mondo” e fu una delle attività utili per sopravvivere), quanto perché ero intransigente quanto lui su certe cose (si trattava, come si ricorderà, di compromessi che avevano indotto Leopoldo Piccardi a tenere una relazione a Vienna nel 1938 sulle leggi razziali in un congresso nazista. La relazione, per la verità, era anodina, ma il fatto per noi era sconvolgente: Pannunzio non era un uomo politico, ma una persona per bene, cose probabilmente poco compatibili).
Per un breve tempo, un lustro o poco più, al tempo delle questioni del divorzio e dell’aborto, mi iscrissi al partito radicale, che era ormai dominato da Pannella in un caos pittoresco, anzi esilarante. Il personaggio era alquanto buffo, ma allora agitava idee che proprio non erano male (poi di idee ne avrebbe cambiate più che mutande). D’altra parte, sentivo il Pr di quegli anni più che come un inutile altro partito, come un utilissimo gruppo promotore. Anche per questo, oltre che per la convinzione che Pannella e i suoi in parlamento non avrebbero saputo fare nulla di buono, fu del tutto naturale per me uscirne non appena si presentò alle elezioni. Ricordo che in una piccola assemblea di partito (quella fiorentina), tra molti perplessi, fui l’unico ad opporsi, nel modo più deciso, all’idea della partecipazione alle elezioni. Poi mi indispose il modo dittatoriale di Pannella che impose qui le sue candidature, in barba allo Statuto e alla democrazia interna, contro le scelte del partito locale. Da allora mi feci di lui e dei suoi fidi un cattivo concetto che ha poi avuto conferme. Conservo qualche amicizia fatta qui a Firenze in mezzo a loro (ma quasi tutti gli amici ne uscirono come me, tutti però dopo ...[continua]

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