Haïm Vidal Séphiha è linguista e professore universitario. È stato tra i primi a creare una cattedra universitaria per il giudeo-spagnolo, nel 1984. Ha pubblicato diverse opere, tra cui L’Agonie des Judéo-Espagnols, ed. Entente (1977), Le ladino (judéo-espagnol calque): structure et évolution d’une langue liturgique, ed. Vidas Largas, (1982), Sépharades d’hier et d’aujourd’hui (con Richard Ayoun), ed. Liana Levi (1992). È stato deportato ad Auschwitz nel marzo del 1943. È padre di Dominique Vidal, ex direttore di Le Monde Diplomatique.

Lei è nato a Bruxelles...
Sono nato a Bruxelles da una famiglia di ebrei sefarditi originari di Istanbul. La famiglia, dal lato di mio padre, era originaria della Sicilia spagnola, che espulse gli ebrei tra il 1495 e il 1497. Il nostro nome, "Sephiha”, che in italiano si pronunciava "Sefika”, in arabo significa "saldatore”. Più tardi scoprii che nella mia famiglia paterna questo era, in effetti, il mestiere che si tramandava di padre in figlio. L’ultima volta che sono andato a Istanbul, nel quartiere di mio padre una donna mi chiese -in giudeo-spagnolo- chi fossi. Risposi: "Sephiha”, e lei disse: "Saldatore”.
"Haïm” significa "vita”...
Alcuni mi hanno detto che sono sopravvissuto proprio perché mi chiamo Haïm. Io rispondo: "Se sapeste il numero di Haïm che sono morti, non direste così”.
Comunque sì, per tornare alla sua domanda, sono cresciuto a Bruxelles. A casa parlavamo giudeo-spagnolo e francese. Mio padre parlava un francese meraviglioso. A scuola usavamo il francese, ma anche il fiammingo, per quanto non lo parlassi bene come il francese. Al liceo poi imparai l’inglese e il tedesco. E poi l’ebraico in sinagoga. E l’italiano durante i corsi serali: "Il bambino piccolo dorme e sogna nel lettino”... cose così.
Avevo un professore francese e fascista, che però amava gli ebrei. Mi adorava e aveva proposto a mio padre, che gli riparava i tappeti, di nascondermi durante la guerra. Mio padre rifiutò: pensava che avesse, diciamo, dei sentimenti esagerati verso i giovanotti. Chi lo sa, forse se avesse accettato non sarei stato deportato...
Comunque, nel 1941, presi il mio diploma. Nel frattempo, a 15 anni, avevo acquisito la nazionalità belga -prima avevo la turca- così con l’entrata delle truppe tedesche fui evacuato nel sud della Francia assieme agli altri belgi. Rientrato, mi iscrissi in un’istituto per diventare agronomo e proseguii gli studi, fino a quando non venni espulso assieme a tutti gli studenti ebrei. Ho ancora il documento di espulsione. Eravamo sotto occupazione e bisognava portare la stella.
A quel punto scoprii che avevano aperto una scuola di orticoltura a 25 chilometri a sud di Bruxelles; era diretta da Haroun Tazieff, un famoso vulcanologo ebreo, morto qualche anno fa. Lì imparai a lavorare la terra. A un certo momento, però, pativo talmente il freddo che decisi di tornare a Bruxelles. All’epoca, l’università era stata chiusa e i professori avevano messo in piedi dei corsi clandestini sotto forma di conferenze pubbliche: li seguivo tutti, mi mettevo la stella per uscire di casa e la toglievo all’interno. Seguivo filosofia, embriologia, chimica. Era entusiasmante!
Il primo marzo 1943, al ritorno da uno di questi corsi, fui arrestato dalla Gestapo. Stavo scendendo dal tram e non portavo la stella. Ero a trenta metri da casa mia. C’era un ebreo della Gestapo, lo chiamavamo "le gros Jacques”. Io negai di essere ebreo, avevo il passaporto belga. Mi tolsero i pantaloni e poi mi presero in giro in yiddish. Mi portarono prima al commissariato della Gestapo e, da lì, al campo di raccolta di Malines.
Nei Paesi occidentali c’erano i campi di raccolta, mentre nei Paesi orientali, dove c’erano molti quartieri ebraici, li si rinchiudeva nei ghetti. La politica era quella di separare gli ebrei: a Drancy in Francia, a Malines in Belgio... A Malines rimasi a lungo perché, essendo nato turco da genitori turchi, bisognava capire se potevo godere di protezione. All’epoca la mia fidanzata, che non era ebrea, andò da Bruxelles a Parigi, all’ambasciata turca, per chiedere aiuto. I turchi però rifiutarono. Alla fine mi venne assegnato un numero come ebreo belga. All’inizio sembrava che gli ebrei belgi non potessero essere deportati. In effetti a Malines vidi liberare molti ebrei. Ci speravo anch’io. In realtà era una strategia delle SS: dividerci per governare meglio. Tant’è che alla fine ci fu una retata generale e gli ebrei belgi finirono tutti a Malines, anc ...[continua]

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