Stefano Ciccone, biologo, è tra i promotori dell’Associazione “Maschile Plurale”.

Che cos’è e com’è nata l’associazione “Maschile plurale”?
Oggi “Maschile-plurale” è il nome di alcuni gruppi di uomini nati in modo spontaneo ormai una ventina d’anni fa; piccoli gruppi di condivisione, di confronto sulla dimensione intima della propria vita. L’iniziativa è partita con una forte presa di posizione contro la violenza alle donne in occasione dello stupro di piazza Dei Massimi. Un avvenimento che colpì molto l’opinione pubblica perché avvenne nel centro di Roma ad opera di ragazzi, tra virgolette, perbene. Lo stupratore non era né il maniaco, né l’immigrato, né l’ubriaco, né l’uomo nero, ma erano appunto giovani come noi che vivevano al centro di Roma, eccetera. Questo ci portò a riflettere su quanto la violenza contro le donne avesse delle radici in un immaginario condiviso anche da noi, cioè in un mondo che era la normalità e non la devianza.
A partire da questo abbiamo iniziato a riflettere. Devo dire che quella vicenda fu anche un po’ un alibi: prendere posizione contro la violenza ci diede una sorta di legittimità per aprire una discussione. Diversamente un uomo che avesse deciso di fare un gruppo di riflessione sulla sessualità o sulle relazioni intime sarebbe risultato sicuramente più strano.
In questi vent’anni questi gruppi sono cresciuti in modo molto casuale, spesso indipendentemente l’uno dall’altro, sia in ambito politico che religioso. Sono nati all’interno dei gruppi della sinistra, nel movimento per la pace, dentro reti legate al Partito comunista a suo tempo o nella nuova sinistra dopo, oppure in reti che facevano riferimento ai cristiani di base o all’area protestante, i valdesi, ecc. Due mondi, quello politico e quello religioso, accomunati da questa domanda di senso.
Questa rete un paio di anni fa ha acquistato una nuova visibilità facendo un appello in cui si chiedeva agli uomini di prendere posizione contro la violenza: “La violenza contro le donne ci riguarda. Prendiamo la parola come uomini”. Volevamo ribadire che la violenza non è una questione che riguarda le donne, ma direttamente la sessualità, la socialità maschile. Quell’appello ha raccolto un migliaio di firme. E’ nato un sito che si chiama “Maschile plurale”. Di lì la costituzione dell’omonima associazione.
Sono gruppi di autocoscienza?
Sono dei gruppi in cui si riflette sulle proprie relazioni, sulla propria dimensione più intima, se vuoi, più contraddittoria, meno razionalizzabile, e se ne fa un elemento di pratica politica e di ricerca culturale o comunque di confronto collettivo.
Il gruppo è un po’ uno specchio in cui riconoscersi, in cui scoprire che alcune tensioni, disagi, domande non sono solo tue, ma sono anche di altri, dando così una legittimità, un valore, a questa dimensione. E’ anche l’occasione per smontare le tue costruzioni, cioè tu ti sei raccontato la tua storia, le tue vicende sempre in un certo modo e il gruppo è il momento in cui qualcuno ti dice: “Guarda che te la stai raccontando un po’ facile...”.
Ora, noi tendiamo a non chiamarlo gruppo di autocoscienza semplicemente perché pensiamo che questa parola abbia avuto un significato politico specifico per le donne che per noi non è riproponibile pari pari. In qualche modo l’autocoscienza per le donne era un percorso che diceva che esiste un mondo che in qualche modo nega la soggettività femminile, l’autorità femminile, un mondo di uomini costruito da uomini con parole di uomini. Il gruppo di autocoscienza femminile era un’operazione che cercava di rompere con quel mondo, costruendo un luogo di riconoscimento altro, tra donne e con parole di donne. Ecco, questa cosa io non la posso fare perché il mondo degli uomini è il mio mondo, cioè non è che ci sia un mondo che mi nega, di fronte al quale io devo costruire un’altra soggettività. La sfida per noi casomai è quella di fare un’operazione di critica, di destrutturazione, di distanziamento.
Senza cadere nel trabocchetto degli “uomini buoni” che si distanziano invece dal modello maschile.
Insomma è un percorso molto contraddittorio, sempre a rischio di rimozioni o di estraneità . A volte c’è anche il pericolo di una ricerca di “ambigue solidarietà maschili”. Cioè a fronte di un mondo esterno segnato dalla competizione, dalla lotta per il potere, io mi costruisco un luogo di ascolto reciproco segnato dal “tra noi ci capiamo” che riproduce una sorta di complicità: noi tra uomini ...[continua]

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