Deborah Lucchetti è responsabile della Campagna Abiti Puliti e presidente della cooperativa sociale Fair, che promuove servizi di consulenza, formazione e comunicazione nel settore del commercio equo e solidale.

Il commercio equo e solidale per anni ha importato soprattutto prodotti alimentari o artigianali, oltre duemila articoli, ma con un’incidenza sul mercato ancora minima. A lungo ci si è cullati nell’idea di importare prodotti di massa, industriali, ma ci si è imbattuti in difficoltà enormi. E’ molto complesso certificare tutta la filiera, inoltre le Botteghe del Mondo non dispongono, salvo rare eccezioni, di spazi per garantire l’assortimento e la prova dei modelli. Poi sono arrivate per prime le t-shirt. Con le felpe ora si apre una nuova frontiera: il primo capo di moda prodotto con criteri ecologici e di giustizia. Come si è arrivati a questo prodotto?
Con i colleghi di Fair siamo partiti da una visione. Individuare prodotti che incontrassero le esigenze dei consumatori e che quindi provocassero un impatto molto più forte sul mercato e sugli stili di vita delle persone rispetto a quelli del commercio equo, in larga misura voluttuari o comunque non indispensabili. Lo scoglio da affrontare era la filiera industriale, che è più complessa di quella per esempio del tè, del caffè o dei prodotti artigianali, tipici del commercio solidale. Nel settore tessile è impossibile avere capi senza un’organizzazione d’impresa. La sfida si presentava ardua ma stimolante e abbiamo cominciato a lavorarci sopra mettendo a punto un percorso di rete. Tutto è nato da richieste provenienti dai gruppi di acquisto solidale. Anch’io faccio parte di un Gas, a Genova, e coordinando la Campagna Abiti Puliti ho sviluppato una particolare sensibilità su questi temi. Il primo passo dunque è stato fatto da un Gas di Genova, che ha lanciato la proposta del tessile alla rete nazionale dei gruppi di acquisto solidale. Dal punto di vista politico il problema per i Gas è identico a quello del movimento equo solidale: comprare un frutto biologico da un contadino vicino a casa è relativamente semplice, acquistare un abito che abbia determinate caratteristiche è molto più complicato. Il lavoro è durato un anno ed è partito da questa idea: arrivare a un prodotto non individuato dall’offerta (ti vendo il caffè perché i campesinos messicani coltivano quello) ma dalla domanda. Il consumatore che vorrebbe indossare una felpa che sia stata prodotta con criteri di equità e con metodi non inquinanti. Il salto qualitativo che ci aspettava era notevole.
Le centinaia di famiglie “gasiste” hanno detto: ok le arance, l’olio, la frutta e il formaggio, proviamo a trasferire l’idea di acquisto socialmente responsabile anche all’abbigliamento. Perché si sono scelte le felpe?
Abbiamo pensato a un capo simbolo e la felpa corrispondeva bene a questa immagine. Piace ai giovani, ma lo indossano anche gli adulti. Dunque, un esempio di come sia possibile compiere il percorso etico anche nel tessile. Da lì è nato tutto, tenendo presente che era necessario costruire una filiera attenta agli aspetti ambientali e sociali, dalla produzione alla distribuzione. Ciò significa che la felpa non verrà mai venduta nei supermercati o nei negozi convenzionali, ma destinata al pubblico delle botteghe del commercio equo e solidale, attraverso un accordo con la centrale di importazione Libero Mondo, che è nostro partner commerciale nell’iniziativa. Oppure i capi si possono ordinare su internet tramite i Gruppi di acquisto solidale. La filiera è totalmente indiana, dal cotone biologico alla manifattura. Unico apporto concreto “occidentale” è il design che è stato studiato dalle stiliste genovesi dello Spaventapasseri, che hanno un piccolo laboratorio e un negozio. E’ vero, la felpa è un prodotto trendy, d’altra parte il tema della moda, del piacere e del gusto non sono trascurabili. Ignorarlo è sbagliato e risulta perdente. Però il cotone non è colorato, è bianco naturale, è a impatto zero, il cotone non è trattato né all’origine né con sbiancanti ottici.
Dalle felpe siete passati alla biancheria intima e ai pigiami, ma in questo caso avete coinvolto dei piccoli artigiani piemontesi. Come?
In Italia sopravvive un tessuto artigiano, di piccole dimensioni, che si trova in forte difficoltà a causa della globalizzazione e che invece può cooperare con altri artigiani nel Sud del mondo, con benefici per entrambi. Siamo partiti quando abbiamo conosciuto Gianluca Bruzzes ...[continua]

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