Michele Nardelli si occupa da molti anni di cooperazione internazionale. La sua lunga esperienza nei Balcani ha alimentato una riflessione da cui è nato (coautore Mauro Cereghini) un libro di prossima pubblicazione dedicato alla cooperazione di comunità.

Tu denunci un paradosso: la crisi della cooperazione internazionale in un mondo sempre più globale…
E’ proprio così. Mentre la dimensione globale entra di forza in ogni disciplina, si fatica a prendere consapevolezza dell’interdipendenza, si rimane immersi nell’orizzonte dello stato-nazione tanto che non riusciamo nemmeno a “pensare europeo”, si continua a ragionare di cooperazione come attività di aiuto allo sviluppo. Credo che la crisi profonda nella quale si dibatte da anni la cooperazione internazionale nasca da una molteplicità di fattori, ma in primo luogo dall’incapacità di leggere il nostro tempo.
Perché dici che il sistema di globalizzazione economica ha reso “a-geografica” la divisione fra inclusione ed esclusione, mandando in soffitta le categorie classiche di Nord/Sud, paesi ricchi e paesi poveri, sviluppo e sottosviluppo?
E’ come se non riuscissimo a mettere a fuoco quel che accade intorno a noi, accecati dalle chiavi di lettura di un tempo che non c’è più. Perché non ci rendiamo conto che le trasformazioni in atto e l’accelerazione di tali processi dopo la fine del bipolarismo ci pongono di fronte ad un “sistema mondo” nel quale le aree di massima deregolazione diventano centrali rispetto ai processi di finanziarizzazione dell’economia, che ormai sovrastano in maniera crescente la produzione di beni e servizi.
Tanto per capirci, quando noi andiamo in banca a depositare qualche risparmio, quel denaro non rimane certo in cassaforte, dopo pochi minuti è a Hong Kong, transita per le isole Caymann, interagisce con i fondi pensione e poi ritorna all’ovile. In questo volo virtuale, per produrre rendita, questo denaro s’incrocia proprio con le aree di massima deregolazione, ovvero le guerre, i traffici criminali (dal plutonio ai rifiuti, dalla droga agli esseri umani), si sporca, ma trova modo di ripulirsi attraverso il riciclaggio, i grandi centri commerciali, il mattone… insomma le forme di massima accumulazione. Dinamiche che prescindono dalla geografia tradizionale, che attraversano il nord e il sud del pianeta, dove paradossalmente diventano centrali i luoghi periferici, se ancora possiamo usare questa terminologia.
In questo quadro, quali sono i paesi sottosviluppati? Chi è rimasto indietro? Come non vedere che l’esclusione è a due passi da casa nostra o nel pianerottolo accanto? Sono le nostre letture della realtà che ancora si attardano a pensare che il mondo sia fatto di progrediti e trogloditi. E, se questo è vero, come si fa a parlare ancora di cooperazione allo sviluppo?
Hai indicato nelle tre “i” uno dei fattori di crisi della cooperazione tradizionale: invasività, insostenibilità e inefficacia. Puoi spiegarti?
Come dicevo, la cooperazione internazionale è in crisi perché fa fatica a leggere il nostro tempo. E’ stata pensata come “aiuto allo sviluppo”, dando per scontato peraltro che il nostro modello potesse dare risposte positive e sostenibili per l’insieme del pianeta. Il che, come sappiamo, si scontra con il carattere limitato delle risorse.
Abita proprio qui l’invasività, ovvero la non conoscenza e il mancato rispetto dei contesti locali, delle loro culture, ma anche delle ragioni che hanno portato alla rottura di equilibri che per secoli avevano presieduto un determinato territorio. Partendo dal presupposto (infondato) che i paesi dove si avviano programmi di cooperazione siano poveri e arretrati, nei fatti affermando una sorta di superiorità dei modelli occidentali. Imponendo regole astratte (i programmi Frankenstein) destinate peraltro a creare nuove dipendenze. Senza alcun coinvolgimento, se non in chiave subalterna, dei territori.
Progetti calati dall’alto che le comunità locali vivono come estranee, oppure come opportunità per la fortuna di qualcuno pronto ad intercettare finanziamenti di ogni tipo. E che finiscono inesorabilmente con l’esaurirsi degli stessi. Questo procedere per progetti che considerano la sostenibilità in uno spazio temporale finito, genera insostenibilità. L’opposto cioè dell’interrogarsi sulla riproducibilità nel tempo, ma prima ancora sulle modalità di ideazione e progettazione attorno ad un bisogno, laddove la comunità locale è chiamata tutt’al più a ratificare scelte co ...[continua]

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