Stefania Senno aveva poco più di due anni quando assieme a sua sorella Alice, il 10 luglio 1976, fu investita a Seveso dalla nube tossica fuoriuscita accidentalmente dagli impianti dell’Icmesa, uno stabilimento chimico di proprietà della Givaudan, del gruppo svizzero La Roche. Fra la popolazione non vi furono vittime, anche se migliaia di animali morirono per l’intossicazione. Le due sorelline stavano giocando sul terrazzo di casa, a poche centinaia di metri dalla fabbrica. La foto del volto di Stefania sfigurato dalla diossina fece il giro del mondo, diventando il simbolo di quel disastro ecologico e del rischio per la salute e l’ambiente che l’industria chimica comporta. All’epoca si sapeva poco o nulla sulla tossicità delle diossine, la gravità della situazione fu sottovalutata, le prime evacuazioni furono decise solo due settimane dopo l’incidente. I primi segnali d’allarme furono le lesioni della pelle che colpirono circa seicento persone, tra cui molti bambini. Quello di Stefania Senno fu uno dei casi più gravi: sul suo viso si sviluppò la cloracne, una forma grave di dermatosi provocata dal cloro contenuto nella diossina. Dopo anni di cure la cloracne scomparve, ma le cicatrici provocate dalla malattia rimasero evidenti. La storia di Stefania, a lungo dimenticata assieme alla sua famiglia, lasciata sola a curarsi le ferite subite nel corpo e nella psiche, è stata ora recuperata da un documentario della televisione svizzera, “Specchio delle mie brame” di Valerio Selle, Claudio Moschin e Riccardo Falciola, presentato a Torino al Festival di CinemAmbiente 2006. Dopo trent’anni, e dopo quattro operazioni chirurgiche al viso, Stefania così racconta la sua storia.

Immediatamente, subito dopo quanto accaduto il 10 luglio 1976, la vita della mia famiglia è stata stravolta, in tutto. Mia nonna è morta dopo qualche mese, l’autopsia ha rivelato la presenza di diossina nei suoi organi. I miei genitori hanno dovuto abbandonare la casa, che poi fu abbattuta, e trasferirsi con me e mia sorella Alice in Veneto. Non ne potevano più di stare là, a Seveso, di sentir parlare di questa diossina. E soprattutto, per circa quattro anni, i miei genitori non sono stati sicuri che noi saremmo sopravvissute. Questo era stato detto dai medici: non c’era la certezza. Vivevano veramente nell’angoscia.

Per fortuna, con il passare degli anni si sono resi conto che stavamo bene e hanno ripreso coraggio. Anche grazie al trasferimento in Veneto sono riusciti a dimenticare, almeno quello che potevano dimenticare. Per me e Alice, però, la cosa rimaneva sempre viva. Questo problema, la diossina di Seveso, la vedevamo tuti i giorni, perché bastava che ci guardassimo allo specchio. Poi crescendo, già mi ricordo verso gli undici, dodici anni, la vedevamo riflessa anche negli sguardi delle altre persone. Noi in famiglia eravamo ormai abituati, tra virgolette, a questo viso, a questo passato, alla nostra storia.

Ti abitui anche a vedere i genitori piangere in casa, ma fuori, quando ti trovi insieme ad altre persone tutte più fortunate di te, che vivono in un’isola felice, come era il Veneto rispetto ad altre zone d’Italia, e tu, invece, hai dentro già a undici anni una storia triste, una vita a metà, ti accorgi subito della differenza. Perché di certo non mi sentivo al pari delle mie coetanee, vedevo nei loro sguardi il riflesso del mio problema. Sicuramente quel che mi ha fatto male, che più ha sconvolto la mia adolescenza, è stato proprio il distacco dalle altre persone, il fatto di sentirmi diversa.

Non è stato facile. Alice ha avuto la fortuna di conoscere già a diciassette anni il suo attuale marito, che peraltro è nato e cresciuto vicino Seveso, che l’ha sempre accettata e amata per quella che è, l’ha sempre implorata di non farsene un problema. Io non ho mai incontrato una persona così, ho passato la mia adolescenza in un vero incubo. Tutte le mattine mi svegliavo e pensavo: “No Stefania, tranquilla è stato un brutto sogno”. A volte prima di alzarmi dal letto mi toccavo il viso e mi accorgevo invece che era la realtà. Altre volte aspettavo di arrivare davanti allo specchio per vedere che era tutto vero, e allora lì mi sentivo morire. Non esagero, veramente morire. Sono arrivata veramente al punto di volermi suicidare, non l’ho fatto per amore dei miei genitori; avevano già sofferto abbastanza, non volevo che soffrissero ancora. Così ho detto: “Ok, accetto di rimanere a questo mondo a continuare a soffrire, purché n ...[continua]

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