Alfonsina Troisi. Io sono una delle fondatrici dell’associazione, lavoro in questa scuola da quasi 9 anni coi bambini della materna; la mia bambina di 8 anni frequenta le elementari in questo istituto. Come insegnante, fin dall’inizio ho cercato di coinvolgere i genitori dei miei alunni in attività interne alla scuola. Ad esempio, invece del solito ricevimento riproponevo loro attività di pittura o di manipolazione che avevo fatto coi loro figli in modo che diventasse un’esperienza anche dei genitori. Così è nato un contatto diretto con le famiglie, per cui poi è stato possibile iniziare a fare qualcosa di concreto. Che so, avevamo visto che presso l’istituto c’era un giardino abbandonato e, siccome mancavano gli spazi verdi per i bambini, insieme a tutti i bambini e ad alcuni genitori abbiamo fatto un progetto per recuperarlo, che è stato finanziato dal Comune. Si chiamava Maestra mi porti in giardino e risale a 5 anni fa. Poi c’è stato un periodo di stasi, di scarso contatto tra le varie famiglie che avevano i bambini a scuola. Infine quando si è presentata l’occasione di ospitare questa grande mostra interattiva contro il razzismo, dal titolo “Gli altri siamo noi”, abbiamo ripreso a trovarci. Inizialmente eravamo solo due o tre famiglie, abbiamo costituito un comitato da cui poi si è originata l’associazione. Lo scopo fin dall’inizio è stato quello di trovare dei modi per partecipare in maniera positiva alla vita di questa scuola, perché volevamo andare oltre alla chiacchiera sul problema e partecipare attivamente alla soluzione. L’adesione all’associazione è stata abbastanza trasversale, anche se credo ci accomuni un’idea di stato sociale che è quella della condivisione, della partecipazione attiva alla cittadinanza, quindi la voglia di essere propositivi. Eravamo molto motivati, come persone e come genitori. Volevamo vivere e far vivere ai nostri figli un’esperienza diversa che superasse l’isolamento del nucleo famigliare. Si parlava addirittura di “condominio sociale”; per questo abbiamo iniziato a fare delle piccole esperienze di uscite in comune, di condivisione di spazi fisici giorno e notte, in modo che i bambini, in un certo senso, crescano figli di tutti e interagiscono fra loro come fratelli e sorelle. Infatti se, quando siamo insieme, qualcuno interviene su mia figlia io mi comporto come farei con mio marito: non mi intrometto perché è già intervenuto lui. In tutti noi c’è questa consapevolezza dell’intervento positivo degli altri. Fin dall’inizio abbiamo evitato di perderci in discussioni, siamo partiti col fare e mentre facevamo si parlava, perché dietro al fare c’era la voglia di dirsi, di raccontarsi. Questo era un bisogno fortissimo ed evidente.
Così si è creato un clima nuovo e vedo che i nostri figli lo recepiscono e lo assorbono; tante volte si dice che nascono generazioni vuote, ma non è vero, in realtà è solo un vuoto di spazi, di proposte, di condivisione, di apertura della famiglia alla responsabilità sociale, quindi alla vita scolastica come momento centrale della vita dei figli. Quando parlo dell’esigenza di uno spazio laico, che è stata alla base della nostra associazione, alludo a questo. All’Esquilino in fondo c’erano già degli oratori, però sono spazi dove noi non arriviamo, così abbiamo pensato che la scuola fosse il punto nel quale un quartiere come questo si poteva incontrare, perché è certo anche il primo punto d’incontro delle famiglie straniere immigrate. Questo l’ho vissuto anche come insegnante: il momento dell’accoglienza è sempre stato fondamentale. Penso anche a piccole cose, come il fatto di trovare nella scuola un posto dove far chiacchierare le mamme straniere con noi. Può sembrare poco, ma da noi è servito ad innescare un processo di apertura e fiducia reciproche; prima di tutto perché la scuola è un ambiente protetto visto che il maschio musulmano non ritiene opportuno il chiacchiericcio tra donne di culture diverse per strada, che so, a Piazza Vittorio. E poi sono loro stesse che in una piazza avrebbero dei problemi a entrare in contatto con altre donne perché si sentono osservate. Certo, nel contatto con loro io sono facilitata. Ad esempio due anni fa ho conosciuto una mamma appena arrivata dal Bangladesh coi due figli per raggiungere il marito che era in It ...[continua]
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