Filippo La Porta, giornalista e critico letterario, ha pubblicato, tra l’altro, La nuova narrativa italiana. Travestimenti di fine secolo, Bollati Boringhieri 1995; Non c’è problema, Feltrinelli 1996; Manuale di scrittura creativa, Minimum Fax 1998; Narratori di un Sud disperso, L’Ancora del Mediterraneo 2000; Pasolini. Uno gnostico innamorato della realtà, Le lettere 2002.

La premessa del tuo libro è che non è possibile attualizzare la figura di Pasolini.
Sentivo di dover dire onestamente quanto è distante Pasolini da me e da noi, perché incarna un modello tragico eroico lontano dalle nostre esistenze. Pasolini sosteneva di voler vivere ogni istante in una tensione e in un rischio totali; in questo mi ricorda un’altra grande figura della cultura novecentesca, Michelstaedter, con la sua scelta netta tra la persuasione o la retorica, questi grandi aut aut, mentre io credo che l’esistenza sia fatta di et et, cioè di continui compromessi; la famiglia, il quotidiano, perfino il genere del romanzo sono tutte formazioni di compromesso. Pasolini invece aveva come un rifiuto del compromesso. Non a caso gli piaceva tanto l’estremismo dei Vangeli, quel Cristo che invita chi lo ama a rinnegare se stesso o che condanna l’albero del fico perché non dà frutti, benché -lo ricordo- non fosse neppure estate (quell’albero non doveva dare frutti, eppure Gesù lo condannò ugualmente proprio perché non era andato oltre se stesso). Io credo che soprattutto questo renda Pasolini una figura non imitabile e, insisto, tragica, in ciò estranea alla nostra tradizione cattolica e barocca, quella per cui nella Dolce vita felliniana, come sottolineava proprio Pasolini, il tragico diventa spettacolo e il negativo sprigiona sempre una vitalità… Pasolini, quindi, non è un modello, nonostante abbia illuminato con una chiarezza esemplare contraddizioni e problemi che riguardano ancora oggi tutti noi, e questo nonostante le sue non fossero idee originali. Prendiamo ad esempio gli Scritti corsari: quelle cose le avevano già dette i francofortesi, forse anche con più rigore. Ma quello che colpisce in Pasolini è la tempestività, lui cioè le dice al momento giusto; e poi la trasparenza esistenziale del suo pensiero, per cui dietro ogni sua frase, dietro ogni concetto da lui formulato, si riesce a dedurre lo stato d’animo che l’ha prodotto. C’è un legame molto forte tra la biografia e il pensiero, tra il vissuto emotivo e la riflessione, cosa che secondo me è molto rara nella cultura italiana e fa di lui un grande comunicatore. Credo infatti che soprattutto i giovani siano molto sensibili a questa trasparenza dello stile; io stesso ho sempre l’impressione che Pasolini parli a me direttamente. Ora si potrebbe anche obiettare che questa trasparenza sia il risultato di una retorica, che cioè sia la scelta linguistica di uno scrittore abilissimo, ma l’importante è che ci sia questo effetto tangibile di sincerità. Un retore come D’Annunzio, al quale Pasolini viene inopportunamente accostato, tende a produrre continuamente una specie di nebbia retorica, una specie di maschera vitalistica e spettacolare, dietro la quale è impossibile decifrare cosa prova o pensa veramente. In Pasolini, invece, c’è questo effetto di sincerità sconvolgente, e dico sconvolgente perché davvero lo è stata, ad esempio, per la nostra sinistra. Pensiamo a cos’era il partito comunista negli anni ‘50, alla cultura della doppiezza per cui i comunisti erano tutto e il contrario di tutto, erano rivoluzionari ma si riconoscevano nell’arco costituzionale, filosovietici ma leali verso l’interesse nazionale. Ebbene, Pasolini rompe con questa tradizione e dice la verità; questo è fondamentale, perché oggi spesso quando si celebra Pasolini si dice “era un poeta”, ma è un modo per disinnescarlo, per cercare di sottolinearne la stravaganza, per rinchiuderlo in uno spazio molto nobile ma inoffensivo. Il punto invece è che era un poeta che ha detto la verità sull’Italia quando questa verità non la sapevano dire né i politici né i sociologi.
Tu stesso dici che quella di poeta era forse la sua vocazione più autentica, anche se poi è nel genere del saggio che individui la chiave interpretativa unitaria di Pasolini...
In effetti arrivo a dire che Pasolini non scriveva poesie ma saggi sulla poesia e che non girava film ma saggi sul cinema, e lo dico perché il saggio è un genere molto aperto, perciò risponde alla sua fortissima esigenza di afferrare tutta quanta la realtà. Il sag ...[continua]

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