Redazione Una Città

La luce nella nostra stanza

Islam e democrazia

Ed. Una Città, 2003
96 pagine

Franco De Courten, Soheib Bencheikh, Jean-Pierre Henry, Abdesselam Cheddadi, Latifa Lakhdar, Nadia Alit Zai, Gianni Sofri.
Interventi e relazioni al convegno di Riccione (11 ottobre 2002)

Leggere l'Islam, tentare di capirlo attraverso la comprensione dei nostri lontani antenati signifca fargli subire una grande ingiustizia. I musulmani stessi sono ingiusti verso l'Islam. Dopodiché, nell'immaginario musulmano, si va a cercare all'esterno un responsabile per tutte le proprie disgrazie, gli americani o gli ebrei, Israele, il colonizzatore le crociate, i complotti... Ora, tutto può essere, ma dobbiamo sempre tenere presente che la natura aborre il vuoto: se i musulmani sono incapaci di riempirlo, saranno le altre civilità a occupare quel vuoto. Se non accendiamo la luce nella nostra stanza, questa sarà illuminata dalla luce del vicino.
(dall'intervento di Soheib Bencheikh, mufti di Marsiglia)

Dal 1963 al 1973 c’erano stati due tentativi di stesura di progetto del codice che non erano andati in porto per diverse ragioni che oggi possono essere analizzate e comprese alla luce della lotta fra le tendenze politiche tradizionaliste e la tendenza modernista. In effetti, già nelle commissioni del diritto della famiglia create nel febbraio 1963 si fronteggiavano i sostenitori dell’ortodossia musulmana e quelli di una modernizzazione, anzi di una laicizzazione, del diritto musulmano. Ma, nonostante il ricorso alle norme del diritto musulmano classico, fino al 1984, data di promulgazione del Codice della famiglia, la donna non ebbe bisogno d’un tutore, né del suo consenso, né della sua autorizzazione, né della sua presenza per contrarre matrimonio davanti all’ufficiale di stato civile. Il codice della sanità pubblica del 1976 prevedeva la presa in carico della madre nubile e del bambino abbandonato.
Ma il 21 aprile 1984, al momento della presentazione del progetto del Codice della famiglia all’assemblea nazionale, il rappresentante del governo ricordò ai deputati “che i diritti delle donne sono contenuti solo nel Corano”. Quanto al relatore della commissione giuridica e amministrativa, rilevò contraddizioni dei testi con le disposizioni della sharia e i precetti dell’Islam. E ricordando ai deputati che l’Fln, al momento della guerra, aveva creato commissioni giuridiche che avevano lo scopo di regolare le questioni dello statuto personale conformemente alla sharia, affermò che “le norme di procedura tratte dal colonialismo puntavano a sopprimere i principi della sharia di cui si nutre la famiglia algerina”. Questo Codice, votato all’unanimità senza un particolare dibattito, discriminò palesemente le donne, relegandole in uno stato di minorità. Norredine Saadi osservò giustamente che “la condizione delle donne resta prigioniera d’una profonda contraddizione. Si ricorre al dibattito teologico tutte le volte che si affronta il loro statuto, e in compenso la legge, che sul piano politico, commerciale o penale è fondata formalmente sul principio costituzionale dell’uguaglianza dei sessi, fissa uno statuto di cittadina a parte”.
Quel Codice consacrò la superiorità dell’uomo sulla donna, istituì la poligamia, il diritto di ripudio, la tutela matrimoniale, attribuì il domicilio coniugale al marito in caso di divorzio, e reintrodusse norme come il khol, che permettono alla donna di riavere la propria libertà offrendo al marito una somma equivalente alla dote.
La vita familiare in Algeria è rimasta quindi in balia della religione e dei costumi, ai quali compete quella funzione regolatrice che ci si aspetterebbe fosse di competenza del diritto. Infatti lo Stato, per tutte le altre branche del diritto, in materia civile, commerciale, penale, optò per dei codici mutuati da quelli delle democrazie occidentali.
Nel 1985, infine, la nuova legge che portava “protezione e promozione della sanità”, avendo abrogato la legge precedente del 1976, soppresse la protezione delle madri nubili e decise che “le modalità d’assistenza miranti alla prevenzione efficace degli abbandoni di bambini, sono fissate per via regolamentare” (art. 73).
(dall'intervento di Nadia Ait Zai)

Islamismo, fondamentalismo, integralismo, tante parole per designare una stessa realtà, “l’intolleranza”, che caratterizzerebbe l’Islam moderno, se non addirittura l’Islam tout court. Nei paesi musulmani, le reazioni non possono, evidentemente, essere troppo vivaci nel respingere ciò che costituisce oggi, agli occhi del mondo, il più grande anatema che si possa scagliare contro una civiltà, una religione, una nazione. D’altronde, nell’Occidente stesso, non mancheranno persone per denunciare questo giudizio in quello che ha di riduttivo e di eccessivo, o almeno, per sfumarlo, fare dei distinguo, ricordare i periodi in cui, a Baghdad, Toledo o Istanbul, l’Islam aveva dato prova della più grande tolleranza religiosa ed etnica. Tuttavia, qualunque sia il credito che si concede a questo genere di giudizio generale, pronunciato abusivamente a proposito di una civiltà e di società nello stesso tempo molto varie e molto complesse nel tempo e nello spazio, il semplice fatto della sua apparizione e della sua larga diffusione in un momento particolare della nostra storia moderna -quello in cui, paradossalmente, si sta compiendo un passo decisivo verso la concretizzazione della mondializzazione- è l’indizio che un nuovo capitolo si è aperto nei rapporti fra l’Occidente e l’Islam, un capitolo in cui si rischia di assistere a una reistituzione di frontiere rigide e a una riattivazione dell’antagonismo.
Che si veda il futuro come destinato a uno “scontro di civiltà” o si cerchi di scrutare “la malattia dell’Islam”, si affrontano qui, in realtà, questioni fondamentali che superano l’ambito dei paesi musulmani e si collocano nel cuore della Modernità...
(dall'intervento di Abdesselam Cheddadi)