Carla Melazzini insegna all’Istituto Nautico di Napoli.

Periodicamente gli alunni chiedono a gran voce che la prova scritta di italiano sia un tema di attualità. In genere rifiuto: in primo luogo perché il tema di attualità è un rito compiuto innumerevoli volte, incentivo al conformismo e alla banalità del pensiero. Del secondo motivo parlerò più avanti.
Quest’anno una terza classe chiede un tema sulla camorra, e dopo ogni rifiuto torna alla carica con maggiore insistenza. Questa ostinazione inconsueta, insieme ad altri indizi, mi fanno ritenere che nella richiesta sia implicito qualcosa di importante; e poiché l’attività didattica deve partire dalle motivazioni degli alunni più che da quelle degli insegnanti, acconsento finalmente al tema di attualità.
Riflettendo sulle parole dei ragazzi, ad esempio sulla figura di Raffaele Cutolo, credo di indovinare che un punto di partenza significativo potrebbe essere la personalità del camorrista. Allora, dal libro di Enrico Deaglio “Raccolto rosso” fotocopio due pagine: quella in cui il medico legale di Messina analizza la fisiologia del Killer, i cui tessuti segnalano uno stato irreversibile di paura, stress e angoscia; e quella in cui un boss in procinto di essere ammazzato scoppia a piangere perché il biscotto inzuppato nel latte gli si è sbriciolato.
Il successo strepitoso delle fotocopie, che vanno a ruba, dimostra che l’inizio è stato azzeccato, che l’interesse dei ragazzi per l’argomento non è opportunistico né platonico.
Propongo allora di elaborare assieme un semplice questionario, che abbia al centro la personalità e le motivazioni dell’affiliato alle organizzazioni criminali, e gli atteggiamenti di coloro che gli vivono attorno. Dopo che la classe ha riempito il questionario, si può finalmente procedere al tema, nel quale ciascuno è chiamato a motivare le risposte date, e a riferire poi eventuali esperienze personali in merito ai punti trattati.
I temi, come si può vedere, rivelano quello che mi aspettavo: anziché essere la copia stereotipa di ciò che gli adulti desiderano si dica su un certo argomento (tale è in genere il tema di attualità), sono la rivelazione sincera di un’esperienza di vita di ragazzi che, rispetto al mondo criminale, si situano nella posizione, per così dire, dei vicini di casa, con qualche incursione al di là dei cancelli.
La loro ostinata domanda proveniva dunque dalla scomodità, dal disagio di questa posizione geografico-sociale.
Il questionario è stato poi diffuso anche in altre classi dell’istituto. L’ultima tappa del lavoro avrebbe dovuto essere la discussione sui risultati globali dell’inchiesta, ma era di maggio e i ragazzi avevano fretta di concludere l’anno scolastico per andare a lavorare.

Parole magiche

Non finisce mai di stupirmi la facilità con la quale l’intelligente, laico uomo d’oggi si abbandona all’uso di parole magiche: parole cioè che, oltre al loro significato strettamente denotativo, sprigionano un alone rassicurante, medicamentoso, contro le angosce dell’esistenza.
Tali parole seguono le vicissitudini della vita associata così come delle innovazioni tecnologiche : si espandono come epidemie poi vengono sostituite quando la loro funzione magica abbia perso efficacia.
Così, per un periodo ogni genere di malanno sociale apparve suscettibile di guarigione certa, a condizione che si installasse da qualche parte una banca dati in proposito. Poi toccò alle catastrofi naturali di essere messe sotto controllo grazie ad opportuno monitoraggio. Ogni disfunzionalità nei rapporti tra gli esseri umani sembrò infine essere giunta alla sua soluzione purché si instaurasse la necessaria professionalità nei reciproci ruoli. E così via. Qualche parola magica finisce purtroppo per diventare dotazione permanente dell’umana credulità, come l’attributo a rischio, vero e proprio esorcismo contro tutto ciò che è sgradevole e sgradito, per la salvaguardia di noi che siamo normali e non corriamo rischi di sorta.
La parola magica epidemica di questi tempi è senza dubbio memoria storica. La sua frequenza settimanale è impressionante, sulla bocca degli illustri pensatori come dei più umili professori. Suo obiettivo prevalente è di incolpare la gioventù- oltre che di tutto il resto- anche della svolta conservatrice in atto nel paese, in quanto priva della medesima (memoria storica).
L’ipocrisia, implicata in questo giudizio è a mio avviso stupefacente. Non mi capacito come gente così istruita possa dimenticare a un tratto (a proposito di memoria) ciò che la scienza e l’arte ci hanno insegnato sull’essere umano; e far finta di credere che esso sia non un labirinto ma una tavola di cera su cui basti incidere qualche buona parola, o un paio di capitoli del programma di storia, per esorcizzare il male.
A me pare piuttosto che sia il mondo adulto a soffrire di amnesia totale nel suo rapporto con i giovani: amnesia innanzitutto di se stesso da giovane; poi di che cosa sia un giovane, quali bisogni abbia (quelli veri, non quelli che ci fa comodo attribuirgli perché sono i più facili da soddisfare).
Se posso permettermi una parentesi personale: mi sono confrontata personalmente (cioè a prescindere da quanto sentito precedentemente in ambito familiare) con il problema del nazifascismo da adolescente, seguendo le cronache del processo Eichmann.
Trenta e più anni dopo ricordo ancora il tema che scrissi a scuola in proposito (un tema di attualità): era una primavera trionfante, il vento trascinava milioni di pollini qua e là per la valle alpina dove abitavo, e io dichiarai per iscritto che rifiutavo come intollerabile l’ammissione di quei milioni di morti accanto a quell’esplosione di vita.
Ebbene, sono convinta che per un ragazzo di oggi, anche il più apparentemente distratto, il problema si ponga esattamente negli stessi termini, cioè come desiderio di rifiutare l’intollerabile: per un essere umano in formazione, incerto della propria identità e del futuro, è difficile accettare l’idea che il mondo che lo attende includa la possibilità di un simile orrore.

Con la vittima o con il carnefice?

Mio figlio- quinta ginnasio- è stato condotto con la classe a vedere La lista di Schindler. Ne è uscito sconvolto, restio a parlarne. Tra le varie classi presenti, c’erano parecchi ragazzi di scuola media. Gli ho chiesto quale era stata la reazione dei compagni: quando vedevano gli ebrei nudi nei campi qualcuno, in particolare ragazze, ridacchiava e diceva “come sono brutti!”. Sono gli stessi ragazzi che, con l’arrivo della bella stagione, rifiutano di fare una gita al mare insieme, perché si mettono vergogna di esporre i loro corpi.
Prendiamo una quindicenne che non riesce a coabitare con il suo corpo, lo sente brutto e spregevole, facciamole vedere immagini di uomini e donne nudi che in lunghe file attendono il loro turno per la morte, e cerchiamo di indovinare le sue reazioni.
La frase “come sono brutti!” segnala che l’identificazione è avvenuta; il risolino denuncia il disagio se non l’angoscia che ne deriva. Immaginiamo anche i rimproveri scandalizzati degli insegnanti presenti.
Cerchiamo di non dimenticare (la memoria!) che un ragazzo si trova statutariamente in posizione di inferiorità e impotenza di fronte all’adulto, e pertanto, posto dinnanzi a qualunque tipo di narrazione, proietta se stesso e si identifica spontaneamente con il debole, l’inferiore. Questo è il motivo per cui, con millenaria saggezza, la narrazione- dalla fiaba al romanzo di formazione - presenta al giovane storie nelle quali il debole e l’inerme, grazie alle sue doti e agli opportuni aiuti, riesce alla fine a costruire l’edificio del suo futuro.
Che effetto gli deve fare invece una storia dove il debole, spogliato delle sue vesti cioè della sua identità, si avvia senza ribellarsi all’annientamento insieme a milioni di suoi simili?
Non è pensabile che l’angoscia prodotta dalla immediata identificazione con la vittima, non produca a sua volta un segreto desiderio di identificarsi con il carnefice?E allora, il senso di colpa connesso a un simile desiderio, non potrebbe trovare sollievo finalmente nella negazione che tutto ciò sia mai realmente accaduto?
Quando un adolescente apostrofa -con la dovuta aggressività- il suo democratico insegnante dichiarando che gli amici del bar gli hanno garantito che i lager non sono mai esistiti, di tale messaggio sono possibili due letture (a parte quella “politica” che non mi interessa: non si può trattare un adolescente alla stregua dello storico revisionista). La prima, immediata, che sia un’affermazione provocante di autonomia giovanile contro il professore e il mondo adulto.
La seconda ne è l’esatto rovescio, e suona pressappoco: “noi giovani preferiamo credere che questo orrore non sia mai esistito perché ci angoscia troppo, e vorremmo da voi adulti rassicurazione o sostegno in proposito”.
Probabilmente i messaggi sono tutti e due presenti insieme, credo però con prevalenza del secondo. Se è così, una risposta adulta tendente a schiacciare il giovane sotto la incontrovertibile verità dei fatti (la memoria storica) non può che ottenere l’effetto contrario: aumentare l’angoscia e la conseguente negazione. E il risentimento contro l’adulto capace solo di condannare e affermare la sua superiorità.
Una risposta che parta invece non dalle parole ma dallo stato d’animo soggiacente potrebbe essere del tipo: “è perfettamente comprensibile che tu e i tuoi amici desideriate negare che tutto ciò possa essere avvenuto, tutti noi vorremmo poterlo fare; e del resto siete in buona compagnia, perché prima di voi lo hanno negato l’intera comunità internazionale con i suoi capi, e le stesse vittime; e questo è un problema non meno importante e tragico del fatto stesso”.
Si aprirebbe qui un discorso sull’uomo, le sue angosce, le sue difese che, per quanto difficile e doloroso, avrebbe un duplice vantaggio: di attribuire ai sentimenti dell’adolescente -invece che una condanna sommaria- la drammatica dignità di un problema umano universale; e di offrire qualche spiraglio per una effettiva “assimilazione della tragedia” che è ben altra cosa da quella operazione intellettualistica, per non dire scolastica, che viene predicata sotto il titolo di “memoria storica”.
I fatti, quelli di allora come questi che scorrono oggi sui teleschermi davanti agli occhi dei giovani, non possono essere assimilati: nemmeno un adulto formato riesce ad accettare fino in fondo l’impotenza dell’uomo di fronte a se stesso (che cosa ci dicono le vestali della memoria storica sul Ruanda?).
Ciò che possiamo fare è elaborare e integrare nel nostro io una parte almeno del significato di questi fatti, come ci hanno insegnato uomini coraggiosi quali Bruno Bettelheim e Vasili Grossmann.
Seguendo le loro orme, ai miei alunni- solo ai più grandi- cerco di far capire gli effetti del moderno stato totalitario sulla personalità degli individui, per poi discutere insieme che cosa si può fare, subito, per salvaguardare la propria autonomia personale, vera base della democrazia.
Parlo di queste cose solo dopo una convivenza con la classe sufficientemente lunga per dare ai ragazzi la sicurezza di essere rispettati.
Ciononostante non sono mai sicura di non aumentare in loro incertezza e paura nei confronti del mondo che li attende (e Dio sa quanta ne hanno).
Trovo ingiusto caricare gli orrori del mondo sulle spalle fragili di una gioventù che non ne ha la responsabilità e non è tenuta a pagare i sensi di colpa degli adulti.
L’unica memoria che conta per l’adolescente è la storia delle relazioni personali che ha intrattenuto dalla nascita con i suoi familiari ed educatori; questa storia è troppo spesso intessuta di delusioni e fallimenti: sotto il manto di una permissività che maschera a stento indifferenza e fastidio, l’educazione è troppo spesso addestramento alla sottomissione e all’ipocrisia: qualità tipiche di quei ceti sociali che sempre sono i più disponibili ad affidarsi alle sicurezze del potere totalitario.
Preoccupiamoci di formare giovani sicuri della propria autonomia e dignità personale, e quando verrà il loro tempo stiamo certi che faranno le scelte giuste.
E questo è il secondo motivo per cui non amo i temi di attualità.