I cittadini consapevoli non sono mai stati così liberi come oggi. Possono scegliere tra fonti d’informazione diverse, e navigare da casa alla ricerca di notizie di prima mano, fin nel sito del ricercato Bin Laden. Durante la crisi in Kosovo ho toccato con mano, tramite un amico albanese, cosa vuol dire poter costruire da sé il proprio giornale quotidiano. Eppure succede ancora, dobbiamo ammetterlo, che prima decidiamo di schierarci, in base a convinzioni generali e frequentazioni personali, poi ci limitiamo a selezionare, a memorizzare, a trasmettere solo le informazioni che confermano la fondatezza delle nostre idee. Così preferisco rendere esplicito che mi sento schierato con le destinatarie e i destinatari del premio internazionale Alexander Langer, assegnati dall’omonima Fondazione: l’algerina Khalida Messaoudi (1997), le ruandesi Yolande Mukagasana e Jacqueline Mukansonera (1998), i cinesi Ding Zilin e Jang Peikun (1999), la kosovara Vjosa Dobruna e la belgradese Natasa Kandic (2000), infine il palestinese Sami Adwan e l’israeliano Dan Bar-On. Ognuno di loro ha regalato a Bolzano e a chi li ha personalmente conosciuti un ricco bagaglio di esperienze di vita, preziosi argomenti di riflessione, nuove ragioni di impegno. E’ uno schierarsi strano e complicato, dentro le zone grigie di chi lavora con la parte cosciente e critica della società, ma sa essere rispettoso e solidale con l’impegnativa responsabilità delle istituzioni comuni.

Guerre contro i civili
L’11 settembre un urlo ha attraversato in pochi minuti la terra mentre crollavano le torri gemelle di New York e veniva colpito il Pentagono. Un sentimento di paura e insicurezza si è esteso come un’onda per il mondo intero, che si è scoperto fragile di fronte alla tecnica più sofisticata e incontrollabile del terrore, che può agire a mani nude, mettendo a disposizione ciò che ha di più prezioso, cioè la propria vita.
Se durante la prima guerra mondiale l’80% dei morti erano stati soldati, nei conflitti regionali che hanno insanguinato i decenni della guerra fredda le vittime sono state per il 90% civili. “Guerre contro i civili” le aveva definite, a Bolzano, l’algerina Khalida Messaoudi, prima destinataria del premio internazionale Alexander Langer, polemizzando con gli intellettuali, anche di sinistra, che si ostinavano a definire “guerra civile” quell’orribile massacro, attuato nel suo paese dagli integralisti del Fis (Fronte Islamico di Salvezza), intendendo così insinuare che ci fosse un’equa distribuzione di responsabilità tra due parti in lotta mortale. Di “guerra civile” hanno parlato a posteriori anche le truppe governative e le milizie paramilitari responsabili in Ruanda del genocidio di 800.000 Tutsi e Hutu moderati nel 1994. E “guerra civile” veniva definita la cacciata dei kosovari dalla loro terra da parte delle forze paramilitari di Milosevic nel 1999.
Ora, con i giovani imbottiti di tritolo per le strade di Israele, gli aerei trasformati in missili contro il cuore di New York, la minaccia delle armi batteriologiche e atomiche, la “guerra contro i civili” è arrivata ad uno stadio nuovo. C’è solo da sperare, come aveva profetizzato Leonardo Sciascia dopo l’assassinio di Aldo Moro, che l’estrema ed inimitabile ferocia di quest’ultima azione si ritorca infine contro i suoi ideatori. Che diventi l’inizio del loro isolamento, a partire da un avvio di distensione in quella terra di Israele e Palestina che da decenni è stata caricata di troppi e interessati significati simbolici. Ce l’hanno detto in luglio a Bolzano Dan Bar-On e Sami Adwan: la pace lì è possibile, solo se si incomincia a mettere da parte le politiche del terrore, a dare un volto al nemico, riconoscendolo come un vicino di casa, altrettanto bisognoso di sicurezza e di futuro.

Non è uno scontro tra civiltà
Khalida Messaoudi, 43 anni, parlamentare e protagonista storica del movimento per i diritti civili delle donne algerine, era stata condannata a morte per questo suo impegno, nel giugno del 1993, da parte del Mei (Movimento per lo stato islamico). Da allora è stata costretta a vivere in clandestinità. L’atto scritto della sua condanna era pubblicato in bollettini che circolavano tranquillamente nelle moschee di Londra. A Bolzano è tornata tre volte dopo il 1997. L’abbiamo accompagnata al parlamento italiano e a quello europeo, dove ha invitato drammaticamente ad aprire gli occhi su ciò che stava succedendo in Algeria, Egitto, Iran, Sudan, Afghanistan, ad oper ...[continua]

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