Pare proprio, in questi ultimi giorni, che si possa con grande incertezza vedere forse l’uscita dai tragici due anni appena scorsi:  la strage condotta da Hamas il 7 ottobre contro gli israeliani intorno alla striscia di Gaza, e i duecentocinquanta rapiti come ostaggi, di cui ancora quarantotto detenuti vivi, moribondi o morti; la prolungata spaventosa vendetta israeliana con mèta irreale di resa incondizionata dei terroristi sanguinosi, trasformati in eroici partigiani; la distruzione totale di gran parte della striscia, con più di sessantamila morti, tra cui quasi un terzo bambini, e il blocco degli aiuti umanitari vitali; la deportazione a sud di centinaia di migliaia di civili, per lo più profughi già dal 1948, con la speranza assurda che fuggano in Egitto e di là si disperdano nel mondo; la trasformazione dello stato degli ebrei, nato dalle ceneri dell’Olocausto, in aguzzino o carnefice dei palestinesi, negli occhi dei giovani occidentali, riaccendendo i carboni latenti dell’antisemitismo. Dovere questa ancora incerta speranza a una figura disgustosa come Trump sarebbe la degna conclusione di questa tragedia, anche se il premio Nobel se lo meriterebbe certamente.
Ma sarebbe l’ora, finalmente, di pensare al “giorno di poi”, come invece il governo israeliano ha evitato da sempre, temendo di svelare anche a chi si fa cieco e sordo gli assurdi progetti messianici, coloniali e razzisti degli estremisti suprematisti ebraici che Netanyahu ha coltivato per conservare il potere. Non sarebbe stata appunto l’ora dell’opposizione di presentare all’elettorato israeliano e al mondo intero, sconvolto dalla tragedia palestinese, un piano alternativo per il futuro dei due popoli che si consumano reciprocamente da più di un secolo? 
Ecco invece che le differenti formazioni che si oppongono al governo d’estrema destra attuale non riescono a combinare alcun programma, non certo da presentare all’elettorato per eventuali elezioni, ma neppure a corto termine per far cadere il governo che ci ha portato al 7 ottobre e ha condotto la guerra genocidiale. E naturalmente non sanno accordarsi a chi dirigerebbe l’eventuale governo di alternativa democratica, anche se di centro destra e centro sinistra assieme. L’unica posizione comune a quasi tutte le varie liste ebraiche in lizza, è l’impegno di non fare coalizione con le liste arabe, senza le quali si può quasi sicuramente prevedere rinnovata vittoria alla coalizione attuale e alle manipolazioni di Netanyahu.
Ma gli intellettuali, per lo meno, dove sono? Eccetto pochi gruppi modesti di buone intenzioni (per lo più senza collaborazione con palestinesi) che in silenzio preparano proposte utopiche che sembrano distaccate dalla realtà esacerbata sia a Gaza, sia in Cisgiordania, sia all’interno d’Israe­le, la maggior parte si accontenta, come gli artisti e i professionisti liberali, di firmare petizioni e di sostenere di persona o d’intenzione le manifestazioni di piazza che perdurano da due anni, avendo come scopo comune la liberazione degli ostaggi.
Finalmente il rinomato Istituto israeliano per la democrazia ha organizzato, quasi segretamente, un convegno con noti esperti israeliani ed esteri: il resoconto ha sorpreso chi, come me, si sarebbe aspettato che gli eventi estremi di cui sopra avessero aperto nuove intuizioni o prospettive. Di che cosa dunque hanno trattato invece? Del “giorno dopo Netanyahu”, supponendo che la fine della guerra, grazie a Trump, porti alla caduta del governo e a nuove elezioni.  Il tutto imperniato su come risanare la democrazia interna d’Israele e lo stato di diritto, come se fossimo nuovamente in mezzo alle manifestazioni di prima del 7 ottobre, che dal gennaio di quell’anno, che pare così lontano, erano riuscite a rallentare l’attacco all’indipendenza della magistratura e alla formalità democratica per gli ebrei in Israele. Anch’io allora avevo partecipato alla difesa dello stato di diritto, e contro le tendenze autocratiche: certo aggiungevo, assieme a pochi, purtroppo, che l’attacco populista non derivava solo per salvare Netanyahu dal processo di concussione, ma soprattutto per facilitare ancor più l’espansione coloniale nei  territori occupati in Cisgiordania e la formalizzazione legalista e giuridica del suprematismo ebraico in Israele. Ma adesso? Dopo la catastrofe di questi due anni? Democrazia liberale all’interno della società israeliana potrebbe bastare per risanare la putrefazione sia morale sia prammatica attuale? Nulla di se ...[continua]


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