Fin dal giorno successivo agli eccidi di Hamas, dunque ben prima che Israele fosse passata alla controffensiva, numerosi gruppi della galassia della sinistra radicale rilasciavano comunicati in cui non solo evitavano di condannare l’attacco terroristico in quanto tale -con le evidenti ripercussioni belliche che avrebbe ingenerato- ma, replicando in modo pedissequo uno schema di lettura manicheo giungevano a legittimare la barbarie dei massacri, riconoscendoli come un legittimo atto di resistenza. Ad esempio, il 9 ottobre venivano diffusi esecrabili comunicati del tipo: “Grazie Palestina! La resistenza palestinese il 7 ottobre ha conseguito una vittoria memorabile. Una nuova e gloriosa pagina è stata scritta”. Solo poche realtà politiche, come il Partito comunista francese (Pcf) o la Alliance for workers’ liberty (Regno Unito), pur partendo dalle posizioni classiche della sinistra, condannavano senza esitazione l’attacco compiuto da Hamas. Nelle manifestazioni promosse da movimenti e partiti che fanno capo alla sinistra radicale sono stati scanditi slogan che rivendicano una Palestina “dal Giordano al mare”, negando tout-court la legittimità dello stato di Israele. Si sentiva gridare non solo “Palestina libera”, ma anche “Allahu Akbar”, con i consueti cartelli “Ebrei = sionisti = nuovi nazisti” accompagnati dagli altrettanto abituali roghi di bandiere israeliane. In Francia ormai non si contano più le azioni antisemite dall’inizio del conflitto e, in generale, vandalismi e aggressioni sono in aumento esponenziale in tutto l’Occidente, compresa l’Italia. A Milano, solo per fare un esempio, durante un corteo per la Palestina, i manifestanti urlavano in arabo “Apriteci i confini, così possiamo uccidere i sionisti, gli ebrei”. Gli ebrei, come singoli e comunità, divengono nuovamente bersaglio di un antico odio la cui nuova espressione si condensa e si precisa nel rifiutare la legittimità dell’esistenza di Israele e nel ridurre il sionismo, movimento di autodeterminazione del popolo ebraico, a espressione di colonialismo, imperialismo e razzismo. Israele è ritenuta colpevole di “apartheid”, senza fare alcuna distinzione tra la piena eguaglianza giuridica degli arabi israeliani e la condizione dei palestinesi dei territori della Cisgiordania/Giudea e Samaria, e di “occupazione”, senza fare differenza tra i suoi legittimi confini e i territori della West Bank. Accuse che purtroppo sembrano trovare una sponda in ciò che ha dichiarato il mese scorso il segretario dell’Onu Guterres: “Gli attacchi di Hamas non vengono dal nulla”. La differenza tra le dichiarazioni fatte dai movimenti pro Palestina e quella di Guterres è che nel secondo caso si fa riferimento ai territori conquistati da Israele a seguito della Guerra dei Sei giorni del 1967 (56 anni di occupazione), mentre i primi parlano tranquillamente di 75 anni di occupazione, quindi dal momento della fondazione dello Stato di Israele, percepito come entità illegittima. Israele si è ritirata dalla striscia di Gaza nel 2005, con il risultato di vedere Hamas, una volta giunto al potere, trasformare quella terra in un’unica grande base terroristica (da cui la necessità dei blocchi egiziani e israeliani alle frontiere).
Dopo due mesi di guerra, con la drammatica incognita degli ostaggi rimasti ancora a Gaza e la tragica sorte delle vittime civili di entrambe le parti, è opportuno fare un passo a lato e domandarsi perché il nome di Israele sia a sinistra inaudibile. Non già criticato per questa o quella politica, per questo o quell’evento bellico, ma associato, in quanto tale, a colonialismo e occupazione; colto quale fenomeno irrazionale e astorico o, alla meglio, relegato a frutto di una volontà di riparazione dell’Occidente in seguito alla Shoah. Uno tra gli elementi decisivi risulta essere il rifiuto di riconoscere il carattere nazionale del popolo ebraico, riducendo quest’ultimo solo e soltanto alla dimensione confessionale. Qui troviamo un nodo effettivamente complesso, che può ingenerare cortocircuiti: da una parte è necessario distinguere tra ebraismo e Israele, dall’altra riconoscere in quest’ultima l’espressione politica del carattere nazionale del popolo ebraico. La ritrosia di parte della sinistra a recepire tale aspetto s’incontra e si somma all’ideologia derivata dal nazionalismo panarabo e dall’integralismo islamista, che vedono la presenza di Israele come un’intollerabile lacerazione della umma, la comunità dei credenti, sia in senso religioso
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