Il ricordo di Elvira Segreto
Sono andata a Tuzla per la prima volta nel gennaio del 2000. Vilmo, un amico, da sempre mi parlava dei viaggi che faceva per portare aiuti durante la guerra e anche dopo. Alla domanda: “Dove vai a consegnare le cose raccolte?”, la sua risposta era stata: “Vado a Tuzla, da cal doni (da quelle donne)”. Mi sono quindi aggregata a un suo viaggio, più per curiosità di conoscere cal doni che per capire la situazione postbellica.
Tuzlanska Amica allora aveva la sede in centro, all’ultimo piano di una palazzina. Uffici piccoli e inadeguati per i bisogni dell’associazione. Tutti fumavano e si entrava in una coltre nebbiosa. La prima volta che l’ho vista era in quell’ufficio insieme alle altre operatrici, con la perenne sigaretta in mano, tenuta fra il pollice e l’indice in quel suo modo particolare. Sono stata accolta come amica di Vilmo e mi sono messa ad ascoltare. Stavano facendo la riunione di programmazione e lì ho capito che cal doni portavano sulle spalle un pesante fardello. Avevo tanta voglia di aiutarle ma da sola veramente non sapevo cosa fare. Tornata in Italia ho iniziato a parlare agli amici della possibilità di fare adozioni a distanza. Si sono fidati, mi hanno creduto e così nel giro di pochi mesi è nata l’associazione Adottando e con essa un rapporto durato 23 anni.
Sono iniziati i frequenti viaggi Bologna-Tuzla-Bologna, con i donatori che andavano a conoscere i ragazzini da aiutare perché in questa “adozione a distanza ravvicinata” la reciproca conoscenza era fondamentale. Altri viaggi erano fatti per parlare con lei delle necessità immediate e dei Progetti Speciali. Ricordo giornate passate ad ascoltare le riunioni di programmazione per stabilire i giri sul territorio, fra persone che arrivavano di continuo a chiedere aiuto, e i ragazzi del Dom che portavano problemi esistenziali da risolvere. Sì, perché Irfanka era tutto questo, riusciva ad ascoltare chi andava a chiedere aiuto, a parlare con l’Unione Europea in qualità di testimone e poi tornare alla quotidianità indicando ai ragazzi come gestire l’emotività. Era lucida e obiettiva sulla situazione politica del suo paese, di cui parlavamo spesso, senza mai perdere affetto e umanità verso i ragazzi sempre al centro del suo “sentire”.
L’avvicendamento alla presidenza di Adottando, il lavoro, questioni di salute familiari hanno rallentato le mie visite a Tuzla, per poi definitivamente arrestarsi a causa del Covid. Anche in questo periodo però l’affetto, le telefonate, non sono mai venuti meno.
Poi in Tuzlanska Amica è iniziato un periodo critico: operatrici storiche che hanno raggiunto l’età della in pensione, la morte di Enam, il calo delle adozioni e sempre meno risorse per gestire il tutto.
A dicembre 2022 sono finalmente tornata a Tuzla con Cristina e un amico comune. È stata una grande emozione: mancavo da cinque anni. Irfanka era già malata. Abbiamo incontrato molti dei ragazzi del Dom, l’orfanotrofio, ora adulti; siamo usciti con loro e abbiamo constatato che non si erano dimenticati.
Lei è venuta in Amica il giorno successivo, si è fermata poco, ma abbiamo parlato molto. Era molto sofferente. Con il senno di poi abbiamo capito che era venuta a salutarci, ad accomiatarsi da noi.
Io non avevo capito fosse un addio, non ci potevo neanche pensare e soprattutto le ho creduto quando mi ha detto che sarebbe stata meglio, le ho voluto credere.
Ho trascorso 23 anni vicino a Irfanka. È stata presente nella mia vita anche quando non andavo a Tuzla. Dialogavo spesso con lei nei miei pensieri perché percepivo quanto fosse una “grande donna”. Era una donna unica, dotata di una capacità di visione rara che perseguiva con forza e tenacia, umiltà e determinazione. Una visione che teneva assieme relazioni istituzionali con la politica locale e internazionale e la capacità di coinvolgere le persone verso un obiettivo di profonda umanità: l’accoglienza e l’inclusione degli altri, i più bisognosi, quelle giovanissime vite a cui  “i grandi” e la follia della vita avevano tolto tutto.
Ho guardato l’ultima foto a Tuzla con Irfanka. Lei era piena di dolori, io un grumo di angoscia, ma ridevamo, scherzando. Eravamo di nuovo insieme Irfanka, Cesarina e io.

Il ricordo di Lalla Golfarelli
Mi sono chiesta quando abbiamo cominciato a condividere i sorrisi e le parole.
Non subito. Non la prima volta che siamo arrivati a Tuzla Raffaele, Raffaella e io. Non quando siamo tornate Cesarina Asioli e io. Le donne di Spazio pubblico di Bologna, le italiane. A Bologna, con noi, Liliana: senza di lei non ti avremmo conosciuta, non avremmo scelto Tuzla, non ci sarebbe stato il gemellaggio fra Tuzla e Bologna.
Ricordo Beslagic aprirsi agli abbracci e tante donne, tante future amiche, sciogliersi nei sorrisi, nonostante gli orrori del conflitto, lo stupore, la paura.
Irfanka no. Chiusa, ammutolita.
Poi la costruzione di un rapporto di fiducia, di reciproca curiosità, di riconoscimento del suo valore, della sua indispensabilità nel farsi di un gruppo di donne e qualche uomo che decisero di dare molto di sé per aiutare donne travolte dal conflitto.
Spazio Pubblico di donne era nato per costruire ponti e dare parola alle donne nei luoghi del conflitto, della lacerazione della Jugoslavia di allora, nominando lo stupro come strumento di guerra.
Ponti di donne attraverso i confini è stato un progetto pensato per dare forza a donne determinate a tenere aperta una speranza di futuro per persone e popoli che l’odio e lo scontro di potere potevano distruggere.
La Bosnia era la vittima sacrificabile, smembrabile; si poteva salvarla solo non cedendo alla divisione etnica. Tuzla aveva la stessa idea e proprio lì volevamo costruire nel presente di allora la conoscenza dei fatti per garantire la memoria futura.
A Tuzla, Irfanka, ammutolita dal dolore, teneva memoria degli stupri, con la sapienza della sua grande competenza professionale. Cesarina e io capimmo che dovevamo lavorare con donne differenti per dare gambe a un progetto che non voleva essere solo per donne in stato di estrema difficoltà, ma anche di riconoscimento di donne di valore e a Tuzla ne conoscemmo alcune che avevano già una loro grande autorevolezza. Vesna, Suada, Rabja, Nevenka, Melika sono le prime che abbiamo incontrate. Svetlana, più tardi. Riunioni su riunioni per dare forma al progetto e forza a donne capaci che, entrando in rete con altre, avrebbero potuto aiutare altre donne e contare nella storia di Tuzla.
Volevamo essere dei lieviti, non dirigere alcunché e Irfanka e Vesna allora lo capirono e si misero all’opera con una splendida compagine.
Non fu semplice, ma nacque Amica, in una forma diversa da quella che molti oggi conoscono. Un luogo di benessere e di aiuto per le donne arrivate a Tuzla e che Tuzla accoglieva; non solo donne vittime di violenza; anche perdere mariti, figli, amici e consuetudini, lasciare le case e i luoghi amati, il lavoro distruggeva le vite. Irfanka era una professionista riconosciuta, ma anche una di loro. Non più muta ma dolente e con su di sé il peso di rimediare, almeno un poco, a quei dolori.
Amica ha avuto tante vite. Irfanka è stata sempre una donna di Srebrenica e la sua esperienza e quel genocidio si sono saldati e lei ha deciso che il suo impegno era un dovere, un debito. La sua scelta di  dare vite decenti ai bambini e alle bambine e alle loro famiglie, ai profughi, ai più poveri è diventata la sua stessa vita.
Ritornare a Srebrenica la faceva piegare in due ma resisteva. Doveva. È diventata più forte, aveva cura degli altri, la doktorica, anche delle amiche lontane, non di se stessa. Non era più silenziosa, faceva discorsi, accettava riconoscimenti, regalava anche abbracci, sorrisi e ironiche battute, ma la sua felicità era quella degli altri, a lei toccava pagare il debito di essere una sopravvissuta.
Se n’è andata sola, per scelta: ma, sai, Irfanka, devi saperlo, ovunque tu sia, non eri sola. C’erano i nostri pensieri sempre più inquieti e timorosi di ammettere che non ti avremmo più rivista.
Cesarina, quel giorno a Tuzla, ti guardava, arrabbiata; Edi voleva tornare ancora prima di ripartire; Liliana, a Bologna, non poteva credere che quell’ultima telefonata fosse un addio. A me resta quell’ultimo sorriso e le nostre chiacchiere e un abbraccio che ti ha fatto sobbalzare di dolore, oltre al ricordo di quando hai finalmente preso la parola, un giorno lontano, con Tuzla sotto attacco e i tuoi occhi lucidi; quando a Bologna mi hai detto: devi venire a Srebrenica. Irfanka una grande donna, una grande amica.

Il ricordo di Barbara Bertoncin
Ho conosciuto Irfanka alla fine degli anni Novanta, grazie a Liliana Zufic, l’amica croato-bolognese che teneva i fili con alcune donne straordinarie impegnate nei Balcani. Per me Irfanka era una figura mitica già prima di conoscerla: nata a Srebrenica, psichiatra, costretta a lasciare la sua città nel 1992, con l’arrivo delle truppe di Arkan, e a rifugiarsi nella città di Tuzla, guidata all’epoca da un sindaco coraggioso e lungimirante, Selim Beslagic, infine fondatrice di un’associazione, Tuzlanska Amica, che si occupava di centinaia di donne e bambini vittime della guerra.
Solo in queste settimane ho realizzato che nel 1992 lei non aveva ancora quarant’anni. Da un giorno all’altro aveva perso tutto: la casa, il lavoro, gli amici, i suoi libri. La sua vita precedente, quella trascorsa nella sua Srebrenica, era finita. Di tutto questo lei non parlava mai. Al mio secondo viaggio in Bosnia, mi volle ospitare a “casa” sua: un’unica piccolissima stanza con ricavati due spazi sporgenti per la cucina e il bagno. Si dormiva per terra. Era l’abitazione lasciata da un profugo, che a un certo punto rientrò e lei dovette cambiare casa. Successe più volte. Di quel periodo ricordo che aveva un’amica che le telefonava tutte le mattine verso le otto e poi di nuovo dopo un quarto d’ora per assicurarsi si fosse alzata. Se alla seconda chiamata non otteneva risposta si presentava davanti a casa. Irfanka dormiva poco. Di notte leggeva e in quel periodo ricordo che mi costringeva a fare dei terribili giochi di abilità, anche mentale, al computer, ridendo di gusto ogni volta che fallivo.
Delle tante idee e progetti realizzati, parlano i racconti di queste pagine. Nel documentario “Adottando a Tuzla” (https://documentando.org/it/film/adottando-a-tuzla/), Irfanka racconta come l’idea iniziale fosse di seguire una cinquantina di bambini. Nel 2006 i bambini adottati erano diventati mille.
All’origine della peculiarità di Tuzlanska Amica c’erano alcune intuizioni cruciali. La prima: che chi più aveva bisogno di aiuto non si sarebbe presentato alle porte dell’associazione, bisognava andare a cercarlo. Ecco l’importanza di costituire delle “squadre mobili” fatte di un autista e un’operatrice che ogni giorno si recavano fin nei villaggi più sperduti per portare cibo (e le attese lettere dei genitori adottivi) ai bambini e alle loro famiglie. L’altra terribile intuizione era che lo stupro etnico, in una società così fortemente patriarcale, aveva in qualche modo violato, se non annientato, anche gli uomini, sottoposti all’atroce frustrazione di non aver saputo proteggere la parte più debole della famiglia. Non di rado all’associazione si presentavano anche loro a chiedere aiuto (Irfanka all’epoca li chiamava scherzosamente i “clandestini”). Infine c’era la scelta dei collaboratori. Il fatto che le prime “operatrici”, dai nomi per me fiabeschi, Fahira, Ferida, Fata... e tante altre fossero rifugiate e spesso testimoni di crimini, e che i leggendari autisti, Enam e Asim, fossero di Srebrenica non era certo un caso. Quella scelta era stata dettata, non solo dalla volontà di dare a queste persone un’occupazione, ma anche dall’intuizione che proprio loro, i rifugiati, coloro che avevano perso così tanto, fossero le persone “giuste” per mettersi in relazione con le famiglie e i bambini altrettanto colpiti dalla guerra.
E poi era accaduta, chissà se prevista, una felicissima congiuntura: l’affacciarsi di una generazione di italiani, arrivati da Bologna, Bagnolo, ma anche dalla Liguria e da altri luoghi, con figli ormai grandi, che sentivano il bisogno di fare qualcosa e che avevano delle risorse, di tempo, di affetto e, perché no, anche economiche. Il modello che Irfanka aveva scelto e che seguiva con grande rigore, quello di un affido a distanza molto “ravvicinata”, si poteva così realizzare: bambini e famiglie adottive si scambiavano lettere, pensieri e in occasione dei periodici viaggi degli italiani, c’era il momento tanto atteso dell’incontro. L’altro appuntamento importantissimo era la vacanza in Italia. Mi è capitato di essere a Bagnolo in Piano negli anni in cui organizzavano questa iniziativa, ed era uno spettacolo: l’intero paese mobilitato, dall’ultimo commerciante al sindaco, per offrire a questi bambini qualche giorno di gioia. E poi l’incontro con Edi Rabini e con gli amici della Fondazione Langer, il premio ricevuto nel 2005, il progetto Adopt Srebrenica...
Di quanto male le facesse il dolore dei bambini e di quanto li amasse, basta leggere la prima lettera che pubblichiamo. Nei primi anni ancora riusciva a seguire alcuni casi nel suo ruolo di psichiatra. Ricordo solo che un giorno mi fece vedere con grande felicità i pupazzi che qualcuno le aveva regalato, spiegandomi che erano uno strumento preziosissimo per aiutare i più piccoli a raccontare le ferite dei traumi subiti.
Era una persona molto intelligente e arguta, sincera, intransigente, talvolta burbera, con pochi fronzoli, che non provava alcuna soggezione verso le autorità che le capitava di incontrare, e che anzi ho visto spesso piuttosto intimorite davanti a lei. Era anche divertente. Le sue mail erano sempre brevi, essenziali. Quando non ci sentivamo da un po’, alternativamente partiva una mail con il solo oggetto “ziva?” (sei viva?), a cui ci rispondevamo scherzosamente “no”, “forse”. Il 10 luglio del 2021, in piena pandemia, alla mia su come andassero le cose, era arrivata la nota formula balcanica: Nema problema, nema vakcina (nessun problema, nessun vaccino).
Aveva un modo tutto suo di farti capire che ti voleva bene. Ancora recentemente in redazione avevamo riso alla risposta arrivata alla mia richiesta di pubblicare sulla rivista una bella lettera che aveva mandato alle associazioni. “Mozes raditi sa njim sto zelis. Ti i jos samo dvije osobe mogu raditi sto god zele. Nemam pojma zasto ti vjerujem” (In oltre vent’anni non aveva mai desistito dallo scrivermi in bosniaco, per non farmi dimenticare quel poco che avevo imparato). Traduzione: “Puoi farne quello che vuoi. Solo poche persone possono fare quello che vogliono. Non ho idea del perché mi fido di te”.
Pur essendo uno degli obiettivi del mio primo viaggio, non sono mai riuscita a intervistarla. Mi raccontava sempre un sacco di aneddoti, condivideva alcune riflessioni, ma ogni volta che le ricordavo la mia volontà di intervistarla, glissava. A un certo punto smisi di chiederglielo. Per lei intanto era quasi diventato un punto di vanto; quando doveva presentarmi a qualcuno, diceva: ecco la persona che era venuta qui per intervistarmi e che non è mai riuscita a farlo.

Il ricordo di Enrico Predieri
Non è facile ricordare degnamente chi era Irfanka e quello che ha significato per migliaia di famiglie. L’ho conosciuta alla fine degli anni Novanta, quando sono entrato in contatto con il progetto di affido a distanza. Amica aveva ancora la sede in centro, in un sottotetto perennemente saturo di fumo di sigaretta.
Il progetto di affido a distanza è via via cresciuto fino ad arrivare a oltre mille bambini, di cui 260 “nostri”.
A Irfanka, oltre all’aspetto materiale, interessava soprattutto curare i traumi derivati dalla guerra e il fatto che persone che a mala pena sapevano dov’era la Bosnia si interessassero ai loro problemi, era un aiuto psicologico fondamentale per i bambini in affido. Di qui la grande e peculiare attenzione dedicata a che ci fosse una regolare corrispondenza tra i bambini e i loro donatori.
Questo ha comportato anche un coinvolgimento emotivo importante per i donatori che negli anni sono potuti andare in Bosnia per verificare di persona la situazione. Molti, a distanza di anni, hanno mantenuto i rapporti con gli ex bambini e le loro famiglie.
In questo progetto, una parte importante era rappresentata dalla “vacanza” che per oltre quindici anni abbiamo offerto ai bambini di Tuzla e a cui lei teneva particolarmente, specialmente nei primi anni, per bambini provenienti da ambienti rurali e che talvolta non erano mai stati in città. Era un appuntamento imperdibile e che molti di loro ricordano come il più bel periodo della loro vita.
Molte altre iniziative sono nate grazie a lei: il “Progetto capra”, che forniva delle capre alle famiglie; i capretti poi restavano in parte alla famiglia e in parte venivano consegnati a nuclei vicini per incentivare i rapporti sociali. Il progetto “Piccola agricoltura”: la consegna di sementi, piantine e attrezzi alle famiglie che avevano un piccolo appezzamento dove fare l’orto. Un corso per la prevenzione dei matrimoni precoci. In quasi tutte le famiglie i rapporti tradizionali erano saltati. Quando si andava a far visita ai bambini adottati, ci si accorgeva che era venuta a mancare una generazione, quella dei padri, e quindi le ragazzine, quando arrivavano a 14-15 anni, facevano la “fuitina”, salvo tornare a casa poco dopo magari con un  bimbo. Infine, l’istituzione di una borsa di studio per aiutare i ragazzi bisognosi, ma meritevoli, a terminare gli studi. Questi sono solo alcuni dei progetti fatti con la nostra associazione; altri sono stati realizzati con altre associazioni italiane e straniere, come la Casa pappagallo, che si trova dietro Tuzlanska Amica e che ospita i ragazzi che al compimento dei 18 anni escono dall’orfanotrofio; la casa di Brcko; la collaborazione con Cosmohelp di Bologna, che porta in Italia i ragazzini affetti da malattie gravi affinché ricevano le cure necessarie. Senza contare gli interventi in conferenze in Italia e in altri Paesi europei per far conoscere la realtà della guerra e poi della situazione in Bosnia.
Nonostante i tanti impegni che riempivano le sue giornate, chi andava a Tuzla veniva accolto personalmente e trattato come un ospite di riguardo. Come facesse a ricordarsi di tutti e di tutti conoscesse anche la situazione personale è un mistero che non siamo mai riusciti a svelare.

Il ricordo di Cristina Bughetti
La mia prima volta a Tuzla è stata a Pasqua del 2002. Dal nostro primo incontro bastava scambiassimo poche frasi sintetiche in lingua inglese per capirci al volo. Durante i dieci anni della mia “adozione” di Edin sono andata a Tuzla più di venti volte. Le ponevo i miei dubbi, le mie incertezze, le mie preoccupazioni e lei con poche parole mi faceva capire, mi tranquillizzava, mi indicava la giusta direzione da prendere. Nonostante la mole di lavoro quotidiano, riusciva comunque a ritagliare uno spazio tutto per me, anche per sorridere guardando le nuove foto dei bambini e dei ragazzi che ogni volta le mostravo.
Lo scorso dicembre sono finalmente tornata a Tuzla con Elvira. Erano dodici anni che non ci tornavo. Rivedendo Irfanka ho subito sentito che il filo che ci univa non si era mai spezzato. Riusciva a toccare il nocciolo di ogni problema con grande sensibilità e sapeva offrire una soluzione chiara e definitiva ad ogni problema, piccolo o grande che fosse. Mi ritengo davvero fortunata ad averla conosciuta e ad averla potuta salutare l’ultima volta.

Il ricordo di Viviana Gardi
È stato come incontrare lo stesso sguardo sul mondo, ma il mondo che aveva visto Irfanka fino a qualche anno prima non era lo stesso che avevamo visto noi a Bologna. Nel 2001, quando l'ho incontrata per la prima volta, avrei voluto fare tutto quello che serviva all'associazione che aveva saputo costruire quella donna a prima vista schiva, ma talmente piena di empatia, intelligenza, capacità di comprendere e soprattutto di ascoltare. Così, assieme ad Elvira, l'amica che me l'aveva fatta conoscere, ci siamo messe in ascolto: di Irfanka, delle persone del territorio che ci ha fatto conoscere, delle donne di Srebrenica, di Enam e Asim, gli autisti che anche per dieci ore al giorno ci portavano in territori sperduti e devastati dalla guerra a trovare bambine e bambini che avevano perso tutto. Abbiamo ascoltato i racconti di chi viveva in orfanotrofio, ragazzi fantasma; abbiamo ascoltato le storie di ragazze stuprate nel post guerra e che Irfanka aveva accolto nell'associazione che pur nata in supporto alle donne si era poi allargata alle bambine e ai bambini. Lei aveva presto capito che la priorità era ricostruire un pezzetto di futuro, anche affettivo, per i più piccoli. Irfanka era instancabile e, sedute sulle poltroncine della sede di Tuzlanska Amica, ci accoglieva con la moka italiana e litri di caffè per costruire progetti attorno alle priorità di quel territorio dimenticato ma tanto bisognoso di ricostruzione. Eravamo questo per lei: delle amiche che si ponevano in ascolto per dare una mano. Lei era per noi un'amica coraggiosa, leale, capace di mettere sempre i bisogni delle altre e degli altri davanti ai suoi, fino alla fine. Non era formale, non dava peso all'apparenza, non cercava riconoscimenti, era semplice ma forte come gli abbracci che ci riservava al nostro arrivo.
In una Bosnia corrotta e martoriata dalla guerra, stare dalla parte dei giusti era complesso e riuscire a fare qualcosa per i più fragili sembrava un'impresa quasi impossibile. Irfanka è riuscita a fare questo, ogni giorno, quasi in sordina, ma catalizzando la forza e l'affetto di centinaia di persone da tutta Italia. Non riusciamo oggi a non pensare, in un panorama mondiale così chiuso e ottuso, con tanti popoli in guerra, quanto sia più debole e povero il nostro sguardo sul mondo senza i suoi occhi assieme ai nostri. Grazie di tutto Irfanka.

Il ricordo di Naida Bosnjakovic, Elvisa Jankova, Nihad Alic

Ho gettato una manciata di terra, per augurarti buon viaggio Irfanka. Che la terra ti sia leggera.
A noi resta il ripartire di nuovo da qui, da questa giornata di sole a Tuzlanska Amica dove da sempre si mescolavano il fumo, la conversazioni, il caffè.
Per te non c'è mai stata differenza tra il lavoro e la vita, ci hai sempre ricordato che in questo mondo siamo solo persone e che l'unico nostro scopo è quello di cercare di renderlo migliore.
Speriamo di riuscirci.
Nihad


Alla cara zia Irfanka.
È molto difficile per il mio cuore accettare il fatto che lei non è più tra di noi. Avrei voluto anche un solo giorno in più, per poterle dire quanto ero fiera di lei, come la vedevano i miei occhi, quanto fosse speciale per me.
Lei è sempre stata forte, ottimista, non ha mai smesso di difendere e lottare per i bambini. Riusciva a conciliare l'inconciliabile, dal nulla creava gioia. Restituiva il sorriso sulle labbra a ogni persona che la conosceva.
Mi ha aiutato in tantissimi momenti della mia vita, innanzitutto a non comportarmi mai come una cattiva persona, a non vergognarmi del fatto di essere orfana, ma a rivendicarlo con orgoglio.
Lei non era una di quelle persone venivano al Dom, l'orfanotrofio, per consegnarci i pacchi solo perché c'erano le telecamere a filmare l'evento. Noi su un foglio di carta esprimevamo i nostri desideri e lei, come per magia, li faceva realizzare tutti, tanto era il bene che ci voleva.
Sulla porta di Amica lasciavamo le nostre tristezze, le paure, il senso di inferiorità. Con lei non ci siamo mai sentiti inferiori a nessuno. Non ci ha mai chiesto di giustificarci per gli errori che avevamo commesso, ma sempre ci invitava a essere persone migliori. Questo lo insegnava a noi, i bambini del Dom, ma anche a tanti altri bambini di cui nessuno si preoccupava.
La sua missione più grande era quella di farci ricordare sempre quale fosse lo scopo di Tuzlanska Amica, cioè di cosa sono un sentimento e una condivisione veri, una accoglienza e ospitalità sincere.
Tanti bei ricordi, tanti progetti eccezionali e le amicizie indissolubili con le persone dell'Italia rimarranno il miglior frutto del suo lavoro.
Dopo la sua dipartita, il mio pensiero è che siamo tutti solo passeggeri occasionali che attraversano questo mondo. Penso che un giorno il Signore ci farà ricongiungere.
Lei rimarrà per sempre nei nostri cuori. La interreremo nei nostri cuori come un'orchidea, fiore che lei amava tanto e che sempre le strappava un sorriso.
Naida

Alla mia cara Irfanka.
È difficile comprendere e capacitarsi del fatto che lei non è più tra di noi. Ogni giorno mi chiedo se potevo fare di più. Come tutti sanno, lei non ha mai chiesto né voluto aiuto per se stessa, e così ci ha anche lasciati, senza chiedere nulla. Ci ha lasciato nello stesso modo in cui è vissuta.
Tanti pensieri mi circolano nella testa, ogni giorno mi ricordo di lei, delle nostre conversazioni, delle lacrime versate, il suo continuo ammonirci, a noi bambini del Dom, di essere orgogliosi di noi stessi, e... potrei continuare questo elenco all'infinito..
Nei giorni peggiori della mia vita, nei momenti terribili, lei mi è stata così vicina, cercando in tutti i modi ad aiutarmi. Proprio in quel periodo mi ha proposto di stare con lei in Amica, di fare la traduzione delle lettere dei bambini, di andare sul territorio e vedere come vivono le altre famiglie, così da scoprire che la mia situazione non era la peggiore che ci potesse essere.
Ricorderò per sempre la nostra ultima conversazione: mi ha ringraziato per l'aiuto che ho dato, sia a lei e che ad Amica e mi ha detto di essere orgogliosa di me.
Posso dire solo che ci ha lasciati una grande anima, una di quelle che nascono raramente. Lei ci ha amati tanto, sostenuti in tutto. Lei non ti giudicava, ti diceva il suo parere, ti indirizzava...
Sono contenta di avere avuto l'opportunità di conoscerla, di aver avuto la possibilità di fare parte del team di Amica, di dare il mio piccolo contributo.
Una persona così conosciuta e rispettata nella società, eppure così semplice e accogliente. Chiunque l'avesse conosciuta sapeva che poteva contare su di lei nel momento del bisogno, sapeva che sarebbe stata ascoltata e che avrebbe ricevuto un conforto e una parola sincera.
Mi mancano le parole per descriverla. Desidero ringraziarla per tutto. Di lei mi ricorderò sempre e con tanto orgoglio.
Elvisa

(traduzioni dal bosniaco a cura di Liliana Zufic)