Donna vita libertà
internazionalismo
Una Città n° 289 / 2022 dicembre-gennaio
Articolo di Janet Afary, Kevin Anderson
Tradotto da Maurizio Acerbo
DONNA VITA LIBERTA'
Le massicce proteste in Iran, alimentate dall’audacia di giovani donne e bambini, affondano le radici in oltre un secolo di lotte; la questione del genere, dalla proibizioni del velo ma anche dell’omosessualità da parte dello Scià all’obbligo del velo, ai matrimoni precoci, al divorzio facile per i maschi, introdotti dalla rivoluzione islamica; le feroci guardie della rivoluzione che hanno in mano l’economia. Dal sito di “Dissent”, un saggio di Janet Afary e Kevin Anderson.
Janet Afary e Kevin B. Anderson sono docenti presso l’Università della California, Santa Barbara.
Nel marzo 1979, donne e ragazze iraniane delle città e i loro sostenitori maschi presero parte a una settimana di manifestazioni a Teheran, a partire dalla Giornata internazionale della donna, per protestare contro l’editto del nuovo regime islamista che obbligava le donne a indossare l’hijab. Le manifestanti espressero un profondo senso di tradimento per la direzione presa dalla rivoluzione iraniana, che allora aveva poche settimane. “All’alba della libertà, non abbiamo libertà”, gridavano. I loro ranghi crescevano di giorno in giorno, fino a raggiungere almeno 50.000 dimostranti. Il movimento attirò la solidarietà internazionale, anche della femminista statunitense Kate Millet, che compì un ben documentato viaggio per unirsi a loro, e di Simone de Beauvoir. In patria, le femministe iraniane ottennero il sostegno dei Fedayn del Popolo iraniano, un gruppo marxista-leninista che si era impegnato nella resistenza armata contro la monarchia appoggiata dagli americani prima che fosse rovesciata dalla rivoluzione. Per qualche giorno, i Fedayn si impegnarono nel fornire un cordone protettivo, separando i manifestanti dalla folla di islamisti che cercavano di attaccarli fisicamente, ma col tempo, influenzati da una visita di Yasser Arafat e altri, i Fedayn ritirarono il loro sostegno per paura di indebolire la rivoluzione in un momento in cui -questa era la convinzione diffusa- il governo degli Stati Uniti era pronto ad attaccare il paese per restaurare lo scià. Negli anni successivi, il movimento femminista iraniano sembrò essere scomparso, o almeno divenne clandestino.
Più di quarant’anni dopo Mahsa (Jina) Amini, una donna curda di ventidue anni, si è recata a Teheran con la sua famiglia in vacanza. Poco dopo il suo arrivo in città, il 13 settembre 2022, gli agenti della famigerata polizia morale del paese l’hanno arrestata con l’accusa di indossare l’hijab in modo improprio. Nonostante le sue vigorose proteste, l’hanno presa in custodia, dopodiché, secondo testimoni oculari, è stata duramente picchiata. Tre giorni dopo è morta per lesioni cerebrali. La morte di Amini ha colpito un nervo scoperto in tutta la nazione. Il rifiuto dello stato di indagare sulle cause della sua morte, o di offrire scuse, ha ulteriormente alimentato la rabbia delle manifestanti, che nei cortei hanno presto iniziato a gridare: “Non aver paura, non aver paura, siamo tutti insieme”.
Le manifestazioni hanno avuto luogo in più di ottanta città e centri abitati in tutto il paese. Con il diffondersi delle proteste, le giovani donne, anche studentesse delle scuole superiori e medie, si sono strappate il velo e hanno gridato: “Morte al dittatore!” La rivolta è radicata nella rabbia rovente contro l’apartheid di genere, e non solo tra le donne. Come ha detto a “Le Monde” la famosa attrice Golshifteh Farahani, ciò che distingue queste proteste da quelle del passato è che ora “anche gli uomini sono disposti a morire per la libertà delle donne”.
Dal punto di vista demografico l’Iran, con una popolazione di 85 milioni di abitanti, è un paese molto diverso da quello che era nel 1979. Il 75% del paese è ora completamente urbanizzato, tra le persone sotto i venticinque anni l’alfabetizzazione è quasi del 100% e ci sono quattro milioni di studenti universitari, la maggior parte dei quali sono donne. Nel frattempo, il tasso di fecondità è sceso a 2,1 nati per donna, dai 6,5 del 1979.
Oltre ai diritti delle donne, molte altre questioni sono legate alle proteste: autoritarismo, stagnazione economica e grave disoccupazione, disastro climatico e varie imposizioni religioso-fondamentaliste. L’attuale rivolta rappresenta anche la risposta dell’opinione pubblica al colossale clientelismo e alla corruzione del regime, alla sua politica estera conflittuale e all’espansionismo regionale che hanno isolato l’Iran e contribuito a un’inflazione estremamente elevata nel paese. Queste lamentele hanno alimentato altre proteste negli ultimi anni, ma la rivolta del 2022 si distingue anche per una dimensione etnica: Mahsa Amini proveniva dal Kurdistan iraniano, un’area povera ed emarginata con una lunga storia di resistenza rivoluzionaria. Quando è nata, la sua famiglia voleva darle un nome curdo, Jina, ma le politiche della Repubblica islamica limitano la scelta a nomi persiani e arabi. In Kurdistan, la rivolta del 2022 ha coinvolto intere città e il regime non ha esitato a usare munizioni vere contro i manifestanti. Molti credono anche che Mahsa Amini sia stata individuata dalla polizia morale di Teheran perché vestita alla curda.
Decenni di oppressione etnica hanno alimentato le proteste anche nel Sistan e Baluchistan, una regione sud-orientale al confine con il Pakistan. Dopo che i manifestanti sono scesi in piazza a Zahedan per protestare contro lo stupro di una ragazza locale da parte di un funzionario di polizia, il 30 settembre 2022 il regime ha risposto a colpi di arma da fuoco. La polizia ha scacciato i manifestanti dalle strade, sparando proiettili contro una moschea sunnita durante una funzione religiosa. Le violenze hanno provocato almeno novantatré morti; questo del 30 settembre è divenuto noto come il massacro di Zahedan. Ciò ha portato a proteste diffuse e ripetute nella regione, sostenute dal religioso di più alto rango della provincia, l’imam sunnita Mowlavi Abdulhamid, noto sostenitore dell’ala riformista del regime. Questi eventi, che mostrano una connessione tra movimenti contro l’oppressione di genere e movimenti contro l’oppressione etnico-nazionale, sottolineano il carattere profondamente composito della rivolta del 2022. Vari gruppi professionali e artistici hanno espresso solidarietà alle proteste; tra questi attori, avvocati, medici, infermieri, insegnanti, professori e persino alcuni componenti passati e presenti della squadra nazionale di calcio.
La rivolta è proseguita con particolare forza nel Kurdistan iraniano, ed è stata la città di Sanandaj a svolgere un ruolo centrale (anche i leader curdi in Iraq e Siria hanno condannato l’uccisione di Amini).
A ottobre, le forze del regime controllavano le città armi. in pugno, usando indiscriminatamente i mitragliatori contro i manifestanti, facendo irruzione nelle case della gente e persino uccidendo un uomo che aveva semplicemente suonato il clacson in segno di solidarietà con i manifestanti.
Il Kurdistan, in particolare Sanandaj, Mahabad e la città natale di Amini, Saghez, sono tornati al centro delle proteste a fine ottobre, quando vaste folle provenienti da tutto il paese si sono riunite per celebrare il quarantesimo giorno dalla morte di Amini, un’usanza secolare seguita da tutte le comunità musulmane in Iran. Lo stato ha cercato di intimidire e dissuadere le persone dal radunarsi affermando che una sparatoria al santuario religioso di Shah Cheraq a Shiraz (il secondo santuario più sacro in Iran) era stata “un attacco dell’Isis”. Ma nessuno ha creduto alla versione del governo, e i manifestanti hanno risposto con slogan come “Siete voi il nostro Isis”. La polizia ha cercato di bloccare l’arrivo delle persone, ma senza successo. A un certo punto le forze del regime hanno persino aperto il fuoco, uccidendo alcune persone. Per quel giorno è stato indetto uno sciopero generale nazionale, che però non ha avuto successo dappertutto.
Nella prigione di Evin a Teheran, dove sono detenuti migliaia di manifestanti, a fine ottobre è scoppiato un grande incendio, visibile in tutta la città. Non è chiaro cosa l’abbia provocato; potrebbe essere stato appiccato dalle guardie stesse nel tentativo di mettere a tacere i prigionieri che intonavano slogan in solidarietà con i manifestanti reclusi.
A novembre, i bazar hanno cominciato a chiudere mentre le proteste continuavano senza sosta; i più grandi scioperi sono stati registrati a Teheran e nel Kurdistan. La casa natale del fondatore del regime degli Ayatollah, Ruhollah Khomeini, è stata data alle fiamme.
La rivolta è stata alimentata dall’audacia di giovani donne e bambini, che hanno sperimentato sulla propria pelle la reazione brutale del regime. Un comandante delle Guardie rivoluzionarie ha rivelato a settembre che l’età media dei manifestanti detenuti era di soli quindici anni. Tra questi la sedicenne Nika Shahkarami, arrestata dopo essersi tolta l’hijab e avergli dato fuoco durante una protesta a Teheran a settembre e morta poco dopo mentre era detenuta dalla polizia; Sarina Esmailzadeh, anche lei sedicenne, picchiata duramente dalla polizia durante una protesta di settembre a Karaj, un sobborgo industriale di Teheran, e successivamente morta in una stazione di polizia; Asra Panahi, un’altra sedicenne, picchiata a morte dalla polizia in ottobre dopo aver interrotto una cerimonia pro-regime nella sua scuola ad Ardabil, nell’Azerbaigian iraniano; un bambino di nove anni di nome Kian Pirfalak, che sarebbe stato ucciso a novembre dalle forze di sicurezza nella provincia meridionale del Khuzestan.
Quest’ultima morte ha ulteriormente galvanizzato i manifestanti, che ne hanno fatto una nuova icona del movimento, un simbolo delle centinaia di bambini arrestati o assassinati. L’opinione pubblica è diventata quasi inconsolabile quando si è saputo che il bambino, un progressista, aveva scritto in un progetto scolastico un’invocazione laica, “al Dio dell’arcobaleno”, cosa che è stata considerata deviazione dall’ortodossia religiosa.
Una caratteristica delle proteste sono queste giovani donne che, in prima fila, davanti alla folla, si scoprivano la testa per poi tagliarsi una ciocca di capelli come gesto di sfida e come recupero di una pratica culturale antica che prevedeva il taglio dei capelli delle donne in lutto, usanza rintracciabile nel testo fondante della letteratura persiana, risalente all’Undicesimo secolo, lo Shahnameh. Il movimento ha anche sviluppato un proprio inno, “Baraye” (“Per”). Scritto dal cantante Shervin Hajipour, viene suonato e cantato di continuo in tutto l’Iran e nelle comunità della diaspora. I testi dicono:
Per la paura di ballare nei vicoli
Per la paura al momento del bacio
Per mia sorella, tua sorella, per
le nostre sorelle
Per chi vuole cambiare le menti
arrugginite,
per la vergogna della povertà
Per la voglia di vivere una vita normale
Per i bambini che abitano nei cassonetti
e i loro sogni
Per questa economia dittatoriale
Per quest’aria inquinata
Per i platani logori di via Vali ‘Asr
Per il ghepardo e la sua possibile
estinzione
Per gli innocenti cani randagi messi
al bando
Per le lacrime inarrestabili
Perché questo momento si ripeta
Per i volti sorridenti
Per gli studenti e il loro futuro
Per questo paradiso obbligatorio
Per gli studenti delle scuole migliori,
imprigionati
Per i bambini afgani
Per tutti questi “per” irripetibili
Per tutti questi slogan senza senso
Per tutti gli edifici crollati
e di pessima fattura
Per il senso di pace
Per il sole dopo una lunga notte
Per i sonniferi e l’insonnia
Per l’uomo, la patria, la prosperità
Per la ragazza che desiderava essere
un ragazzo
Per la donna, la vita, la libertà
Per la libertà, per la libertà, per la libertà
Sebbene finora la rivolta sia stata senza leader, non le è mancato uno scopo né è stata incoerente. I suoi slogan indicano le aspirazioni generali del movimento. Il più importante, “Donna, vita, libertà”, non solo pone al centro l’emancipazione delle donne, ma evoca anche un cambiamento trasformativo: ha avuto origine nella regione del Rojava in Siria, dove le forze curde, alcune comandate da donne, hanno cacciato lo Stato islamico alla fine del 2017. È incredibilmente commovente sentire i manifestanti a Teheran, che appartengono in gran parte alla comunità persiana dominante, gridare uno slogan che ha avuto origine nel Kurdistan. Di solito lo gridano in persiano, ma a volte, in un ulteriore atto di solidarietà, usano il curdo.
“Morte al dittatore”, l’altro slogan principale del movimento, ha iniziato a emergere nel 2019. Segna una chiara rottura con il tenore del massiccio “movimento verde” del 2009-10, che aveva una leadership netta che ha incanalato il movimento in richieste per la democratizzazione della Repubblica islamica, e non per il suo rovesciamento.
Facendo eco allo slogan più importante della rivoluzione del 1979, “Morte allo scià”, la versione del 2022 si riferisce invece al leader religioso supremo Ali Khamenei (una variante popolare di questo slogan -“Morte all’oppressore, sia Shah che Rahbar [leader religioso supremo]”- suggerisce l’opposizione agli sforzi di alcuni conservatori della diaspora volti a ripristinare la monarchia nella persona di Reza Pahlavi, il figlio del defunto scià).
Lo slogan è particolarmente rischioso perché Khamenei è, nei termini legali della teocrazia iraniana, il rappresentante di Dio sulla Terra; anche gli attacchi verbali contro di lui potrebbero essere soggetti a una legge che rende la “ribellione contro Dio” un reato capitale. Un altro slogan sottolinea la profondità della rabbia popolare: “Questo è l’anno del sangue. Seyyed Ali [Khamenei] sarà rovesciato”.
Contesto dell’attuale rivolta
Gli attuali disordini sono scoppiati sulla scia di diverse rivolte minori degli ultimi anni. Nel 2017, le giovani donne hanno iniziato una serie di proteste contro l’hijab in cui pubblicavano selfie sui social media che le mostravano mentre si svelavano in pubblico.
Nel settembre 2019, una giovane donna, Sahar Khodayari, è morta dopo essersi data fuoco per protestare contro il divieto alle donne di assistere alle partite di calcio. Successivamente, nel 2019 e nel 2020, le manifestazioni sui prezzi della benzina si sono trasformate in proteste antigovernative a livello nazionale, se pur concentrate nelle città più piccole e nelle aree rurali. Tuttavia, questi due tipi di proteste, uno provocato dall’apartheid di genere e l’altro derivante da rimostranze economiche, sono rimasti in gran parte separati.
Mentre le proteste si attenuavano un po’ durante la pandemia di Covid-19, il regime ha organizzato l’elezione del presidente Ebrahim Raisi nel 2021, una figura di estrema destra che è stata direttamente coinvolta nell’esecuzione di migliaia di prigionieri politici iraniani nel 1988 e che in precedenza era stato capo della Corte suprema. Subito dopo è iniziata una repressione. Nell’estate del 2022, il governo ha demolito le case di un villaggio abitato da più di un secolo da membri della minoranza religiosa bahá’í. Negli stessi mesi, la polizia morale ha intensificato gli attacchi contro le giovani donne per “hijab improprio”, accusandole di non coprire sufficientemente i capelli o altre parti del corpo. È stato in questa fase di repressione che venne uccisa Mahsa Amini.
Alcuni credono che il regime potrebbe allentare i regolamenti sull’hijab ed evolversi verso una dittatura militare più “normale” sotto l’egida del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche. La subordinazione di genere è intessuta nella fibra di questo regime sin dal 1979. Il leader supremo Khamenei, che ricopre la carica dal 1989, è in condizioni di salute precarie, cosa che rappresenta un pericolo anche per il regime. Se i funzionari che orchestrano l’attuale repressione sono riluttanti a perseguire una completa repressione, come ha rivelato una recente operazione di hacker sulla comunicazione statale, è perché non vogliono essere beccati con le mani nel sacco quando la nuova leadership salirà al potere, nel caso in cui a quella leadership faccia comodo additare dei funzionari particolarmente odiosi come capri espiatori per dimostrare, per quanto fraudolentemente, che sono disposti ad aprire una nuova era in cui si darà più retta al popolo.
Oltre a irritarsi per le restrizioni religiose, gli iraniani della classe media e operaia hanno visto il loro tenore di vita abbassarsi drasticamente negli ultimi dieci anni. Il paese ha subìto un aumento del costo della vita e del prezzo delle case e un tasso di disoccupazione sempre maggiore. All’inizio di ottobre i sindacati, compresi alcuni del settore petrolifero strategico, avevano iniziato ad assumere un ruolo di primo piano nelle proteste. All’inizio del Ventunesimo secolo, gli alti prezzi del petrolio permisero brevemente al governo di spendere di più per i programmi sociali interni. Negli ultimi anni, tuttavia, il crescente consumo interno, l’invecchiamento degli impianti di produzione e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti hanno limitato la capacità dell’Iran di esportare petrolio. Inoltre, le spese statali finanziate dal petrolio hanno contribuito poco allo sviluppo economico, per non parlare della creazione di posti di lavoro.
Le sanzioni statunitensi, reintrodotte durante la presidenza di Donald Trump, hanno notevolmente aumentato le sofferenze del popolo iraniano. Tuttavia, molti economisti iraniani vedono la corruzione e la cattiva gestione come fattori più importanti nella crisi economica dell’Iran. Molti credono che la sofferenza del popolo iraniano derivi in gran parte dalla politica estera aggressiva del “complesso militare-industriale-teocratico” guidato dalle Guardie Rivoluzionarie e da Khamenei. In cambio del sostegno politico, lo Stato ha assegnato grossi contratti alle Guardie Rivoluzionarie e alle milizie paramilitari Basij che queste sovrintendono. Le Guardie e le loro milizie sono peraltro direttamente coinvolte nel sostegno ad alleati sgradevoli, incluso il regime omicida di Assad in Siria, e nella costruzione di droni e missili balistici che vengono inviati per assistere Putin nell’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2020, circa l’80% dell’economia iraniana (comprese le industrie del petrolio e del gas) era sotto il controllo delle Guardie Rivoluzionarie, che sono così diventate il principale datore di lavoro del paese. Alcuni sostengono che siano le Guardie a detenere il vero potere in Iran, anche se sotto la guida nominale di Khamenei.
C’è un’accesa discussione in corso nei circoli della diaspora iraniana su come descrivere l’attuale rivolta. Alcuni l’hanno definita una rivoluzione femminista; altri hanno sostenuto che lo stesso termine “rivoluzione” sia inappropriato. Eppure la situazione è in continua evoluzione. Alla fine di ottobre, il Parlamento ha votato per concedere alle forze di sicurezza un aumento salariale del 20%, apparentemente per mantenerle motivate. La preoccupazione è che i soldati siano riluttanti ad aprire il fuoco su giovani studenti, alcuni dei quali sarebbero figli di membri delle Guardie Rivoluzionarie stesse e dei veterani della guerra Iran-Iraq. Ci sono anche voci secondo cui i militari avrebbero chiesto a Khamenei un compromesso affinché riportasse al potere i riformisti di cui si era sbarazzato in precedenza, tra cui il presidente Mohammad Khatami (1997-2005) e Mir-Hossein Mousavi, il vero vincitore delle elezioni presidenziali del 2009. Mousavi, insieme alla moglie, la femminista musulmana Zahra Rahnavard, e l’altro candidato alla presidenza riformista del 2009, il religioso Mehdi Karroubi, sono agli arresti domiciliari da quasi tredici anni.
Resta da vedere se i manifestanti accetterebbero un governo islamista un po’ più tollerante. A ogni decennio trascorso dal 1979, la società iraniana si è avvicinata sempre di più a un punto di rottura. Dopo la rivoluzione, l’Iran ha visto drastici cambiamenti negli atteggiamenti sociali nei confronti del sesso, del matrimonio e della procreazione, cambiamenti che minacciano il tessuto ideologico di un regime che ha costruito la sua legittimità sulla segregazione di genere e afferma di valorizzare la famiglia, la devozione e vecchie nozioni di giustizia e moralità. Ma la lotta contro l’apartheid di genere in Iran risale a oltre un secolo fa, a molto prima della Repubblica islamica.
Opposizione alla segregazione di genere: il “fil rouge” dei moderni movimenti sociali iraniani
Il primo grande movimento sociale nell’Iran moderno, il movimento messianico Babi, ebbe inizio a metà del XIX secolo. Tra gli obiettivi del movimento c’era la fine di molti rituali sciiti che erano alla base delle gerarchie sociali e di genere nella società iraniana, tra cui il velo obbligatorio e la segregazione di genere. Questi temi sono stati al centro dei moderni movimenti sociali iraniani fin dal principio.
L’Islam, specialmente nella sua forma sciita iraniana, è una religione “attenta all’impurità”, in questo molto simile allo zoroastrismo, al giudaismo e all’induismo. In queste religioni, gli orifizi da cui fuoriescono sangue, seme e urina sono custoditi con particolare cura perché sono punti di ingresso attraverso i quali le impurità potrebbero entrare nel corpo. Le donne sono viste come la porta di ingresso della comunità, e il loro accesso agli spazi pubblici e l’esercizio da parte loro del controllo del proprio corpo sono visti come minacce per l’intera società, poiché la loro esposizione potrebbe consentire alle impurità (fisiche e morali) di infiltrarsi nella famiglia. Nell’Iran sciita del XIX secolo (come nelle comunità ebraiche ortodosse e zoroastriane), le funzioni sessuali e riproduttive di una donna trasformavano il suo corpo in un luogo conteso, di potenziale e reale contaminazione rituale. Non sorprende quindi che il leader più importante del movimento babi fosse una donna di nome Qurrat al-Ayn, che con un atto radicale si è pubblicamente svelata. In parte a causa del suo gesto provocatorio, ebbe inizio una repressione contro il movimento e le sue richieste. La corte reale e gli alti chierici ordinarono il massacro dei babis, a cominciare dai suoi capi, tra cui Qurraat al-Ayn, che morì nel 1852.
La posizione delle donne iraniane non sarebbe migliorata all’inizio del XX secolo. Le donne iraniane erano molto indietro rispetto alle sciite azere del Caucaso meridionale (che vivevano sotto il colonialismo russo) e alle musulmane sunnite dell’Impero ottomano. Nel Caucaso meridionale, le donne musulmane della classe media e alta ricevevano un’istruzione e i filantropi musulmani erano impegnati a costruire sontuose scuole per ragazze. In Turchia le cose andavano anche meglio: la prima scuola di medicina per ostetriche era stata aperta nel 1842, la prima scuola secondaria per ragazze fu istituita nel 1861 e la prima scuola di formazione per insegnanti per donne fu fondata nel 1870. In Iran, invece, non c’era nessuna scuola per ragazze musulmane, principalmente a causa dell’irremovibile opposizione del clero sciita.
Questa situazione è cambiata radicalmente con la rivoluzione costituzionale iraniana del 1906, che ha portato il paese a una democrazia parlamentare di stile europeo, con una costituzione modellata su quella belga del 1831 e una carta dei diritti progressista. Tra i rivoluzionari c’erano socialisti -prevalentemente socialdemocratici di origine iraniana provenienti da Tiflis (ora conosciuta come Tbilisi, la capitale della Georgia) e Baku (ora capitale dell’Azerbaigian)- che incoraggiarono la formazione di organizzazioni di base conosciute come anjomans, costruite sulla falsariga dei soviet della rivoluzione russa del 1905 e promossero idee progressiste come favorire l’accesso delle donne all’istruzione e alla sfera pubblica. Le donne di alto rango formavano anjomans femminili così come scuole, cliniche, orfanotrofi e teatri.
I religiosi di alto livello erano indignati da questi sviluppi. Etichettarono i costituzionalisti progressisti come “atei” e avvertirono che presto le donne musulmane avrebbero indossato pantaloni e avrebbero sposato uomini non musulmani. Ma una generazione di uomini delle più svariate professioni, giornalisti, deputati parlamentari e poeti sostenne le attività delle donne, e per un po’ i costituzionalisti furono capaci di tenere a bada l’opposizione del clero conservatore. La rivoluzione giunse a una fine tragica e brusca nel 1911, quando la Russia occupò il paese insieme alla Gran Bretagna.
L’ascesa della dinastia Pahlavi, nel 1925, coincise con una nuova era di politiche di genere e dei diritti sessuali, insieme all’emergere di una classe media più istruita. Gli obiettivi principali dei costituzionalisti erano stati la democrazia e la modernità. Sotto lo scià Reza Pahlavi, che regnò dal 1925 al 1941, non riuscirono a raggiungere la prima, ma contribuirono offrendo il loro sostegno per ottenere la seconda, e così lo scià riuscì ad attuare una serie di riforme volte alla modernizzazione. Il suo sostegno alle scienze tolse credibilità ai chierici quando divenne chiaro che molti rituali religiosi, come il ghusl (immersione rituale nei bagni pubblici), diffondevano malattie. Le sue riforme educative e legali posero fine alla segregazione formale e alla discriminazione contro minoranze religiose come zoroastriani, bahá’í, ebrei, cristiani e musulmani sunniti. Allo stesso tempo, portarono a una nuova forma di nazionalismo imposto dallo stato, in contrasto con il nazionalismo democratico di base della Rivoluzione costituzionale. Il persiano fu dichiarato lingua ufficiale, anche se era prima lingua nel paese solo per una risicata maggioranza della popolazione. Lo scià Reza inoltre tentò di limitare il dissenso trasferendo con la forza alcune minoranze etniche per impedire che unendosi potessero evolvere in una resistenza politica organizzata. Le popolazioni di lingua sciita e persiana venivano spesso inviate nelle aree di lingua sunnita e turca per contrastare la minaccia dei movimenti etnici separatisti.
La più controversa delle riforme dello scià Reza fu il divieto del velo per le donne, istituito nel 1936. La reazione del pubblico fu mista. Molti membri della nuova classe media (come insegnanti e farmacisti) accettarono il cambiamento e iniziarono ad apparire in pubblico con mogli e figlie senza velo. Ma i membri della classe media più tradizionale, come chierici e mercanti, si irrigidirono, impedendo alle mogli di uscire di casa. Nonostante questa opposizione, in pubblico si cominciarono a vedere molte donne senza velo, donne che si recavano a scuola, nelle organizzazioni femminili e nei vari posti di lavoro.
L’altra importante riforma di genere del regime di Pahlavi fu la fine della pratica del concubinato maschile (una tradizione che risale all’era preislamica) e l’ostracismo di tutte le forme di omosessualità.
Nel 1941 gli Alleati occuparono l’Iran. Lo scià Reza, che tendeva alla neutralità a causa del grande volume di scambi commerciali dell’Iran con la Germania nazista, accettò di abdicare in cambio della salita al trono del figlio di ventidue anni, Muhammad Reza Pahlavi. A causa dell’imposizione della legge marziale e della presenza continua delle forze alleate in Iran per tutta la durata della Seconda guerra mondiale, lo stato autoritario né uscì indebolito, dando il via a un periodo caotico ma anche a una nuova era di libertà politica e richieste di responsabilità. Per la prima volta dalla Rivoluzione costituzionale, emersero una stampa relativamente libera, sindacati e vari partiti politici. I nazionalisti liberali fecero rivivere l’eredità dell’era costituzionale e si batterono per le riforme politiche e per la democrazia. Sostenuto dall’Unione Sovietica, il partito comunista Tudeh ottenne un ampio ed entusiastico sostegno tra i giovani, sia studenti che lavoratori. Questo nonostante il fatto che la prima generazione di comunisti iraniani, guidati da Avetis Sultanzade, fosse stata sterminata dal regime di Stalin nel 1938.
Insieme ai socialdemocratici, i Tudeh contribuirono a promuovere un senso di fratellanza senza precedenti tra diversi gruppi sociali ed etnici. Le organizzazioni di sinistra erano più tolleranti nei confronti delle minoranze etniche e religiose e contribuirono ad abbattere molte vecchie gerarchie di status e genere. Una nuova generazione di giovani donne di città, molte delle quali studentesse delle scuole superiori provenienti da una varietà di contesti religiosi, aderirono a vari partiti politici e parteciparono a campagne per il suffragio attivo e passivo delle donne, per il diritto al lavoro e per l’assistenza all’infanzia. Nelle comunità tradizionaliste della classe media urbana tornò il velo con un’accezione meno rigorosa, ma la stragrande maggioranza delle donne della classe media più moderna rimase senza velo. La sostanziale rottura della segregazione sia religiosa sia di genere a Teheran e in altre grandi città fece solo infuriare ulteriormente gli iraniani religiosi più tradizionalisti.
Nel 1951, il parlamento iraniano votò per nazionalizzare l’industria petrolifera britannica del paese, rendendo l’Iran la prima nazione del Medio Oriente a farlo. Due anni dopo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna rovesciarono congiuntamente il primo ministro democraticamente eletto, il nazionalista Mohammad Mosaddeq (1951-1953) e riportarono in vita il docile giovane monarca Mohammad Reza Pahlavi, che era fuggito dal paese. Le potenze imperialiste estromisero Mosaddeq sfruttando anche alcuni punti di divisione all’interno della sua stessa coalizione su questioni sociali e culturali. Negli anni cruciali del 1951 e del 1952, il suffragio femminile divise il movimento nazionalista. La questione fu un fattore che contribuì allo scioglimento della coalizione nazionalista all’inizio del 1953, cosa che facilitò il colpo di stato orchestrato dalla Cia e dall’intelligence britannica.
L’Iran intraprese nuovamente un’agenda di modernizzazione autoritaria, comprese le riforme di genere, che il governo utilizzò per segnalare il suo impegno nei confronti delle norme occidentali. Sebbene i progetti di riforma dello scià Mohammad Reza Pahlavi ebbero una diffusione limitata -furono poche le persone che effettivamente adottarono uno stile di vita “moderno”-, il loro impatto simbolico fu considerevole: immagini tipiche della modernizzazione permearono i nuovi spazi pubblici, inclusi giornali, televisione, cinema, cartelloni pubblicitari, settore della moda e riviste popolari. Alla fine degli anni Sessanta molte case cittadine avevano un televisore, e andare al cinema era una forma popolare di intrattenimento. Immagini di donne in abiti succinti e in pose provocatorie riempirono i media. L’industria pubblicitaria diffondeva le immagini di ideali e stili di vita di bellezza occidentali e le riviste pubblicavano fumetti che raffiguravano donne seminude. Non furono solo i religiosi tradizionalisti a disapprovare questi sviluppi, ma anche la maggior parte della sinistra e dei nazionalisti laici, soprattutto da quando il regime prese a pubblicizzare questi cambiamenti nei ruoli di genere come indicazioni della crescente vicinanza dell’Iran all’Occidente. Di conseguenza, l’ostilità verso le nuove norme di genere divenne un fattore chiave nel cementare un’alleanza politica che sarebbe stata impensabile durante la prima metà del XX secolo: una tenue coalizione “rosso-nera” anti-scià che univa sinistra antimperialista, nazionalisti e islamisti conservatori.
Fin dalla Rivoluzione costituzionale del 1906, i sostenitori della modernità avevano spinto per i diritti delle donne promettendo implicitamente che dare alle donne nuovi diritti e opportunità non avrebbe interferito con il loro adempimento dei ruoli previsti dalle aspettative tradizionali. Sarebbero rimaste figlie rispettose, mogli fedeli e madri altruiste anche se avessero assunto un ruolo più pubblico nella società. Da questo punto di vista, l’educazione delle donne sarebbe andata a beneficio dell’intera nazione. Negli anni Sessanta, tuttavia, una nuova generazione di donne determinate che lavoravano all’interno del parlamento, della burocrazia governativa, del sistema legale e delle università iniziò a minare questa idea. Sotto l’impatto del femminismo occidentale della seconda ondata, le moderne donne iraniane urbane rivendicarono nuovi diritti legali, economici e individuali, compresi maggiori diritti nel matrimonio. Infransero anche vecchi tabù sessuali: le poesie di Forough Farrokhzad, una brillante poetessa e regista femminista che aveva lasciato il marito per un altro uomo e perso la custodia dell’unico figlio, divennero gli inni di questa nuova generazione. Il suo lavoro scioccò i lettori con i suoi messaggi emotivamente e sessualmente provocatori. La poesia “Peccato”, ad esempio, inizia così:
Ho peccato, peccato, quanto piacere
nell’abbraccio caldo e ardente ho peccato
fra due braccia ho peccato
accese e forti di caldo rancore, ho peccato.
La pubblicazione di “Peccato” creò scandalo nei seminari religiosi e nella città di Qom, dove i religiosi e i loro sostenitori chiesero il divieto delle opere di Farrokhzad. Ancora più oltraggiosa fu un’altra poesia, “Prigioniera”, in cui la narratrice ammette di avere una relazione mentre è sposata e ha un figlio. Si paragona a un uccello in gabbia:
Penso, ma so che mai
Avrò la forza di lasciare questa gabbia;
Seppure il mio carceriere non si opponesse,
Non vi sarebbe più animo di partire.
Da dietro le sbarre, ogni radioso mattino,
Gli occhi di un bambino mi sorridono;
Quando intono una canzone gaia,
Le sue labbra per un bacio cercano me.
Le violazioni del pudore femminile, come le immagini di giovani donne iraniane nelle riviste femminili popolari e la poesia di Farrokhzad, ruppero il contratto sociale sul genere e galvanizzarono una reazione contro i costumi sessuali occidentali, il femminismo occidentale e, presto, anche il moderno movimento per i diritti dei gay.
Non molto tempo dopo la rivoluzione del 1979, la Repubblica islamica istituì un radicale capovolgimento dei diritti delle donne. Lo stato riesumò le convenzioni sociali premoderne, come il velo obbligatorio, il divorzio facile per gli uomini, i matrimoni precoci e la poligamia, ma le fece rispettare attraverso forme moderne di sorveglianza e controllo. Le donne accusate di “velo improprio” venivano frustate e quelle accusate di sesso prematrimoniale o extraconiugale venivano imprigionate o, in alcuni casi, lapidate a morte. Gli uomini coinvolti in relazioni gay venivano severamente puniti e persino giustiziati.
Accanto a programmi sociali ed economici populisti che inizialmente avvantaggiavano i poveri urbani e rurali, comprese le donne, coesistevano leggi aspramente misogine.
Negli anni Novanta, tuttavia, le politiche di privatizzazione hanno finito per ampliare il divario di ricchezza. Dopo aver inizialmente incoraggiato le politiche per la fertilità nei primi anni Ottanta, il regime ha invertito la rotta e ha istituito un programma di pianificazione familiare. Questo periodo, durato dalla fine degli anni Ottanta all’inizio degli anni Duemila, divenne noto come “era dei Pragmatici” (sostenitori della liberalizzazione economica), che fu seguito da quella dei “riformisti” (sostenitori della liberalizzazione culturale). Poiché questi programmi di pianificazione familiare erano stati redatti in nome dell’Islam, molte famiglie delle più fedeli hanno ceduto e li hanno abbracciati. I risultati, insieme a una campagna di alfabetizzazione che ha preso di mira le donne delle campagne, hanno portato a una drastica transizione demografica. Il tasso di fertilità complessivo è sceso da 6,4 nascite per donna nel 1984 a 1,8 nel 2010, per poi stabilizzarsi a 2,1 nel 2022. La Divisione per la popolazione delle Nazioni Unite ha rilevato che nei periodi che vanno dal 1975 al 1980 e dal 2005 al 2010, l’Iran ha registrato le variazioni percentuali al ribasso più marcate nel tassi di fertilità di qualsiasi paese del mondo. Collegato a questo declino è stato un aumento sostanziale dell’età del primo matrimonio sia per le donne che per gli uomini. Il numero dei matrimoni formali è diminuito, mentre sono aumentati i matrimoni temporanei sanciti religiosamente (un’antica forma di concubinato, in cui il sesso è solitamente scambiato con denaro) e, gradualmente, una forma più moderna di convivenza nota come “matrimonio bianco”.
Come risultato dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, delle vaccinazioni, di una migliore igiene e dell’adozione di tecnologie contraccettive, l’istituzione del matrimonio ha subito un profondo cambiamento in Iran, proprio come in Occidente. Il matrimonio è diventato meno incentrato sulla procreazione e sono aumentate le donne che volevano soddisfare i propri bisogni di intimità emotiva e sessuale. Con la diffusa accettazione dell’importanza di amore romantico e del soddisfacimento sessuale nel matrimonio, sono state stabilite nuove forme di regolamentazione dell’eterosessualità. Anche il sesso al di fuori del matrimonio è diventato più accettabile. Man mano che le donne diventavano più determinate sessualmente, erano anche meno tolleranti nei confronti delle relazioni extraconiugali degli uomini, sia etero che omosessuali, e nei confronti dell’intrusione dello stato nelle loro vite personali. Anche i tassi di divorzio sono aumentati.
Le relazioni di genere hanno continuato a cambiare nonostante tutti i tentativi dello Stato islamista di tornare indietro nel tempo. I giovani uomini e donne delle campagne, reclutati nelle forze del regime, hanno iniziato presto a contrarre matrimoni “di compagnia” benedetti dal regime, quando non direttamente organizzati dalle loro famiglie. Nel secondo decennio del XXI secolo, i matrimoni combinati e i matrimoni contratti all’interno di legami di parentela non erano più la norma, nemmeno nelle comunità tribali e rurali. Le donne si aspettavano intimità, spontaneità e un maggior grado di vicinanza emotiva e sessuale. Inoltre, con l’aumentare dell’età media del matrimonio per le ragazze, gli “appuntamenti” erano diventati un dato di fatto della vita.
Oggi l’Iran rimane una terra di profonde contraddizioni non solo in politica ma anche in amore, sesso e matrimonio. Sebbene la partecipazione delle donne all’economia formale sia molto bassa, esse sono fortemente coinvolte nell’economia informale. Molte hanno diversi lavori part-time e sostengono finanziariamente le loro famiglie. Un numero significativo di donne delle città ha anche scelto di rimanere single o, se divorziate o vedove, di non risposarsi. Eppure i libri di testo rimangono profondamente conservatori, ritraendo le donne principalmente come mogli e madri. I giovani si frequentano online e molte donne di città praticano il sesso prematrimoniale. Ma quando una relazione non finisce con il matrimonio, le donne spesso si sottopongono all’imenoplastica prima di sposarsi con un partner maschio disponibile, magari tradizionalista, che si aspetta che sua moglie sia vergine. Le coppie scelgono sempre più di convivere in “matrimoni bianchi” invece di contrarre un matrimonio legale. Allo stesso tempo, leggi anacronistiche continuano a vietare l’intimità tra uomini e donne non imparentati.
Tutti questi fattori hanno spianato la strada alle grandi e persistenti proteste a cui stiamo assistendo oggi in Iran. Le donne iraniane hanno fatto parte di tutte le principali proteste sociali dal secondo decennio della Repubblica islamica e, negli ultimi anni, sono state spesso in prima linea in queste manifestazioni. Le donne hanno combattuto a fianco degli uomini, a volte anche davanti a loro per gli obiettivi comuni, come l’istruzione, il lavoro e i diritti umani, ma anche specificamente per i loro diritti di genere. Hanno assunto ruoli chiave nelle proteste nazionali di massa e hanno fatto confluire piattaforme femministe entro istanze sociali ed economiche più ampie. Queste proteste sociali hanno coinvolto la classe operaia iraniana, donne e uomini, per lo più giovani, insieme a membri di varie minoranze nazionali emarginate
-arabi, curdi, beluci, lur e azeri- e minoranze religiose perseguitate, come bahá’í e sufi.
Le donne hanno partecipato in modo significativo all’immenso Movimento Verde del 2009, una rivolta spontanea contro le elezioni presidenziali truccate nel giugno di quell’anno. Le proteste sono scoppiate quando il presidente Mahmoud Ahmadinejad, che, secondo i sondaggi, avrebbe dovuto perdere le elezioni, è stato dichiarato vincitore con un incredibile 62% dei voti espressi. Milioni di persone sono scese in piazza, chiedendo: “Dov’è il mio voto?”. Il giornalista del “New York Times” Roger Cohen, che all’epoca si trovava a Teheran, scrisse: “Le donne iraniane sono all’avanguardia. Da giorni le vedo incitare gli uomini meno coraggiosi. Le ho viste tornare nella mischia dopo essere state picchiate”.
Le donne sono state anche le principali partecipanti alle proteste di massa dal dicembre 2017 al gennaio 2018. I manifestanti hanno protestato contro l’elevata inflazione e la corruzione del governo e hanno chiesto la fine della Repubblica islamica e del suo interventismo internazionale. I manifestanti hanno persino gridato: “Morte a Khamenei”. Migliaia di persone, tra cui molte donne, arabi iraniani e curdi, sono state arrestate dalle forze di sicurezza.
Una seconda ondata di proteste di massa è scoppiata nel novembre 2019, quando più di 200.000 persone sono scese in piazza dopo che il prezzo della benzina è aumentato del 50% e il paese ha subìto una drastica penuria d’acqua causata dal cambiamento climatico e da politiche predatorie del capitalismo di stato. Ancora una volta, una protesta apparentemente economica si è trasformata in politica, colmando il divario tra i poveri urbani e quelli che il sociologo Asef Bayat ha definito i “poveri della classe media”, cioè i giovani altamente istruiti che non possono raggiungere i livelli base di una vita borghese. Queste proteste sono state violentemente represse. Secondo Amnesty International oltre 1.500 persone sono state assassinate dalle Guardie Rivoluzionarie nella provincia meridionale del Khuzestan, ricca di petrolio. Come ha scritto Houshyar Dehghani sul quotidiano online Radio Zamaneh, le donne erano alla guida di queste proteste:
Le donne sono in prima linea nelle proteste. Sono loro che si oppongono alle Guardie [rivoluzionarie] e si rifiutano di fuggire, incoraggiano il popolo a resistere, discutono con le forze dell’oppressione; si mettono davanti alle armi degli uomini in borghese e scandiscono slogan, raccolgono la folla intorno a loro. Sono le donne che scattano foto e video, e quando le [guardie] cercano di arrestare qualcuno, sono le donne che le affrontano e cercano di salvare la persona arrestata. I media statali le hanno definite “sospette”, agenti di potenze straniere […]. Le forze in borghese hanno usato la violenza sessuale per spaventare le donne e per respingerle nelle loro case. Ma l’influenza dei tabù e delle pratiche culturali che sono alla radice della Repubblica islamica, sta svanendo. Quando qualcuno, dopo aver assistito al massacro di 1.500 persone, ha il coraggio di opporsi alle forze dell’ordine, la molestia sessuale è un’arma debole.
Le donne sono state anche organizzatrici e leader di movimenti sociali come la campagna per il rilascio dei prigionieri politici, la campagna per sradicare la lapidazione e le esecuzioni, la campagna per la riforma ambientale, la campagna delle madri per la pace e la campagna per protestare contro lo stupro e la tortura dei prigionieri politici. Più recentemente, le femministe iraniane hanno avviato una campagna #MeToo, parlando di molestie sessuali, abusi, aggressioni e stupri, citando nelle loro accuse uomini influenti, inclusi potenti comandanti della Guardia rivoluzionaria, religiosi e intellettuali.
Hanno anche lanciato un movimento per porre fine al velo obbligatorio. Nel 2014, Masih Alinejad, un giornalista che vive in esilio, ha lanciato un gruppo su Facebook chiamato “My Stealthy Freedom”, [“La mia libertà furtiva”]. Ha invitato le donne iraniane a pubblicare foto di se stesse senza hijab. Centinaia di donne hanno pubblicato immagini e la pagina ha rapidamente attirato l’attenzione internazionale. Le donne hanno partecipato persino dall’interno dell’Iran, nonostante l’enorme pericolo personale per se stesse e le loro famiglie. Il 27 dicembre 2017, una giovane donna di nome Vida Movahed è stata arrestata quando ha legato il suo hijab a un bastone, si è messa in cima a una centralina nell’affollata Revolution Avenue a Teheran e l’ha agitato davanti alla folla, diventando un’icona per il proteste. A dozzine si sono impegnate in simili atti di sfida, e sono state spesso arrestate.
2022: un cambiamento irrevocabile nelle relazioni di genere?
I sondaggi hanno dimostrato che la maggior parte degli iraniani crede che indossare l’hijab dovrebbe essere una scelta. Ma il regime ha, piuttosto, rafforzato le sue politiche. Nel tentativo di spingere le donne a una vita fatta solo di matrimonio e maternità multiple, nell’autunno del 2021 sono state adottate norme draconiane sull’aborto e sul controllo delle nascite, norme inaudite per la società iraniana. In tutto l’Iran non è più possibile fare ricorso al controllo delle nascite senza prescrizione medica e le donne incinte sono continuamente monitorate dallo stato per assicurarsi che portino a termine la gravidanza.
Nel luglio 2022, il presidente Raisi ha deciso di far rispettare le leggi sull’hijab, che fino a quel momento erano andate via via allentandosi. Queste recrudescenze normative, chiaramente fuori scala persino secondo gli stessi standard del governo, potrebbero ora causarne la fine.
Le preoccupazioni per la purezza avevano, fino a tempi relativamente recenti, impedito alle donne di partecipare pienamente ai movimenti sociali per paura di essere definite “disonorevoli” o “immorali”. Ma in un mondo in cui il sesso prematrimoniale sta diventando molto più comune, tali etichette non hanno più il potere che avevano una volta. Oggi le donne iraniane combattono la polizia sia con il cervello sia con il corpo. Gli uomini sono ormai abituati a vedere le donne come leader delle campagne sociali, donne che fanno anche ricorso alle arti marziali per fronteggiare la polizia nelle strade. Le proteste di oggi sono il culmine di quasi due secoli di lotta per i diritti civili delle donne iraniane e delle minoranze etniche e religiose.
Il regime iraniano conosce perfettamente il crescente potere del secolare movimento delle donne, in particolare ora che si è unito alle proteste scaturite da motivi economici-etnici. Il governo ha già fatto ricorso a una miriade di strategie per soffocarlo: le attiviste vengono picchiate, accecate con colpi di pistola a pallini sparati negli occhi; viene loro impedito di curarsi in ospedale, vengono arrestate e gettate in prigione, dove, secondo un recente rapporto della Cnn, tutti, sia giovani donne sia uomini, vengono torturati e violentati. Dall’ultima ondata di proteste iniziata a settembre, il regime ha ucciso circa cinquecento persone e ne ha arrestate più di 18.000, molte delle quali bambini. I giornalisti vengono arrestati per aver dato notizie, e alle principali testate giornalistiche viene vietato di raccontare le manifestazioni, o vengono chiuse del tutto. Le organizzazioni che forniscono spazi agli attivisti ricevono minacciosi avvertimenti e i siti web associati al movimento vengono regolarmente chiusi.
Non possiamo sapere cosa accadrà a seguito di questa repressione, ma possiamo affermare con assoluta certezza che le donne iraniane non si fermeranno. Come un possente fiume bloccato da giganteschi massi, il movimento trova continuamente un nuovo percorso, a volte in modi del tutto imprevisti.
Nel secolo scorso, le donne iraniane hanno realizzato cambiamenti epocali. Hanno conquistato il diritto all’istruzione e all’accesso agli spazi pubblici; hanno costantemente combattuto le normative imposte dallo stato su ciò che potevano o non potevano indossare; hanno ottenuto il diritto di lavorare fuori casa, di votare e di ricoprire cariche; hanno preteso di potersi sposare liberamente, e di avere il diritto di lasciare mariti violenti. Hanno risposto positivamente alle misure di controllo delle nascite istituite alla fine degli anni Ottanta. Hanno conquistato il controllo del proprio corpo, riducendo il numero di gravidanze o scegliendo di non avere figli. Le donne sono diventate scienziate, ingegnere, accademiche, giornaliste, avvocate, atlete, registe, attrici e scrittrici di alto livello che hanno lottato instancabilmente per i loro diritti. Hanno dato il via a un nuovo genere di letteratura femminista e sono diventate alcune dei più importanti caporedattori, registi e artisti degli ultimi decenni. Le femministe di lingua persiana continuano a stringere legami di solidarietà con le loro compatriote curde, azere, beluce e arabe e con le appartenenti alle minoranze religiose sunnite e bahá’í, e sono state in prima linea nel movimento di solidarietà con le donne afghane.
In questo processo storico, le sostenitrici iraniane dei diritti delle donne hanno infranto secolari tabù e rituali sessuali e di genere, guadagnandosi un enorme rispetto da un’ampia fascia della società. Femministe iraniane come Shirin Ebadi, Nasrin Sotoudeh e Narges Mohammadi sono state riconosciute dalla comunità internazionale come coraggiose pioniere e apripista di una società più democratica in Iran.
Indipendentemente da come andrà a finire, la rivolta del 2022 costituisce già una straordinaria vittoria: l’Iran è già cambiato irrevocabilmente. L’attuale confluenza dei movimenti per i diritti delle donne, dei diritti civili e dei diritti delle minoranze, unita al sostegno ricevuto da tutta la popolazione iraniana, sia della classe media sia di quella operaia, ha portato l’Iran sul punto di emanare una condanna a morte per il regime teocratico che lo ha governato per più di quattro decenni.
(Ringraziamo Maurizio Acerbo che ha tradotto il saggio e “Comune-info.net” e “Dissent”
per la concessione a pubblicare)
Fonti:
La sezione storica di questo saggio si basa sulle seguenti precedenti pubblicazioni degli autori:
Janet Afary. 1996. The Iranian Constitutional Revolution of 1906-11: Grassroots Democracy, Social Democracy, and the Origins of Feminism. New York: Columbia University Press.
Janet Afary. 2003. “Shi’ite Narratives of Karbala, Christian Rites of Penitence: Michel Foucault and the Culture of the Iranian Revolution, 1978-79”,Radical History Review, no. 86 (Spring): 7-36.
Janet Afary. 2009. Sexual Politics in Modern Iran. Cambridge University Press.
Janet Afary and Jesilyn Faust, eds. 2021. Iranian Romance in the Digital Age: From Arranged Marriage to White Marriage. London: Bloomsbury Press.
Janet Afary. 2022. “From Bedrooms to Streets: The Rise of a New Generation of Independent Iranian Women”, Freedom of Thought Journal 11 (Spring): 1-28. DOI: https://doi.org/10.53895/ RG ZG7213
Janet Afary and Kevin B. Anderson. 2005. Foucault and the Iranian Revolution: Gender and the Seductions of Islamism. Chicago: University of Chicago Press.
Roger Friedland, Janet Afary, Paolo Gardinali, and C. Naslund. 2016. Love in the Middle East: The Contradictions of Romance in the Facebook World, Critical Research on Religion 4:3, 229-258.
Nel marzo 1979, donne e ragazze iraniane delle città e i loro sostenitori maschi presero parte a una settimana di manifestazioni a Teheran, a partire dalla Giornata internazionale della donna, per protestare contro l’editto del nuovo regime islamista che obbligava le donne a indossare l’hijab. Le manifestanti espressero un profondo senso di tradimento per la direzione presa dalla rivoluzione iraniana, che allora aveva poche settimane. “All’alba della libertà, non abbiamo libertà”, gridavano. I loro ranghi crescevano di giorno in giorno, fino a raggiungere almeno 50.000 dimostranti. Il movimento attirò la solidarietà internazionale, anche della femminista statunitense Kate Millet, che compì un ben documentato viaggio per unirsi a loro, e di Simone de Beauvoir. In patria, le femministe iraniane ottennero il sostegno dei Fedayn del Popolo iraniano, un gruppo marxista-leninista che si era impegnato nella resistenza armata contro la monarchia appoggiata dagli americani prima che fosse rovesciata dalla rivoluzione. Per qualche giorno, i Fedayn si impegnarono nel fornire un cordone protettivo, separando i manifestanti dalla folla di islamisti che cercavano di attaccarli fisicamente, ma col tempo, influenzati da una visita di Yasser Arafat e altri, i Fedayn ritirarono il loro sostegno per paura di indebolire la rivoluzione in un momento in cui -questa era la convinzione diffusa- il governo degli Stati Uniti era pronto ad attaccare il paese per restaurare lo scià. Negli anni successivi, il movimento femminista iraniano sembrò essere scomparso, o almeno divenne clandestino.
Più di quarant’anni dopo Mahsa (Jina) Amini, una donna curda di ventidue anni, si è recata a Teheran con la sua famiglia in vacanza. Poco dopo il suo arrivo in città, il 13 settembre 2022, gli agenti della famigerata polizia morale del paese l’hanno arrestata con l’accusa di indossare l’hijab in modo improprio. Nonostante le sue vigorose proteste, l’hanno presa in custodia, dopodiché, secondo testimoni oculari, è stata duramente picchiata. Tre giorni dopo è morta per lesioni cerebrali. La morte di Amini ha colpito un nervo scoperto in tutta la nazione. Il rifiuto dello stato di indagare sulle cause della sua morte, o di offrire scuse, ha ulteriormente alimentato la rabbia delle manifestanti, che nei cortei hanno presto iniziato a gridare: “Non aver paura, non aver paura, siamo tutti insieme”.
Le manifestazioni hanno avuto luogo in più di ottanta città e centri abitati in tutto il paese. Con il diffondersi delle proteste, le giovani donne, anche studentesse delle scuole superiori e medie, si sono strappate il velo e hanno gridato: “Morte al dittatore!” La rivolta è radicata nella rabbia rovente contro l’apartheid di genere, e non solo tra le donne. Come ha detto a “Le Monde” la famosa attrice Golshifteh Farahani, ciò che distingue queste proteste da quelle del passato è che ora “anche gli uomini sono disposti a morire per la libertà delle donne”.
Dal punto di vista demografico l’Iran, con una popolazione di 85 milioni di abitanti, è un paese molto diverso da quello che era nel 1979. Il 75% del paese è ora completamente urbanizzato, tra le persone sotto i venticinque anni l’alfabetizzazione è quasi del 100% e ci sono quattro milioni di studenti universitari, la maggior parte dei quali sono donne. Nel frattempo, il tasso di fecondità è sceso a 2,1 nati per donna, dai 6,5 del 1979.
Oltre ai diritti delle donne, molte altre questioni sono legate alle proteste: autoritarismo, stagnazione economica e grave disoccupazione, disastro climatico e varie imposizioni religioso-fondamentaliste. L’attuale rivolta rappresenta anche la risposta dell’opinione pubblica al colossale clientelismo e alla corruzione del regime, alla sua politica estera conflittuale e all’espansionismo regionale che hanno isolato l’Iran e contribuito a un’inflazione estremamente elevata nel paese. Queste lamentele hanno alimentato altre proteste negli ultimi anni, ma la rivolta del 2022 si distingue anche per una dimensione etnica: Mahsa Amini proveniva dal Kurdistan iraniano, un’area povera ed emarginata con una lunga storia di resistenza rivoluzionaria. Quando è nata, la sua famiglia voleva darle un nome curdo, Jina, ma le politiche della Repubblica islamica limitano la scelta a nomi persiani e arabi. In Kurdistan, la rivolta del 2022 ha coinvolto intere città e il regime non ha esitato a usare munizioni vere contro i manifestanti. Molti credono anche che Mahsa Amini sia stata individuata dalla polizia morale di Teheran perché vestita alla curda.
Decenni di oppressione etnica hanno alimentato le proteste anche nel Sistan e Baluchistan, una regione sud-orientale al confine con il Pakistan. Dopo che i manifestanti sono scesi in piazza a Zahedan per protestare contro lo stupro di una ragazza locale da parte di un funzionario di polizia, il 30 settembre 2022 il regime ha risposto a colpi di arma da fuoco. La polizia ha scacciato i manifestanti dalle strade, sparando proiettili contro una moschea sunnita durante una funzione religiosa. Le violenze hanno provocato almeno novantatré morti; questo del 30 settembre è divenuto noto come il massacro di Zahedan. Ciò ha portato a proteste diffuse e ripetute nella regione, sostenute dal religioso di più alto rango della provincia, l’imam sunnita Mowlavi Abdulhamid, noto sostenitore dell’ala riformista del regime. Questi eventi, che mostrano una connessione tra movimenti contro l’oppressione di genere e movimenti contro l’oppressione etnico-nazionale, sottolineano il carattere profondamente composito della rivolta del 2022. Vari gruppi professionali e artistici hanno espresso solidarietà alle proteste; tra questi attori, avvocati, medici, infermieri, insegnanti, professori e persino alcuni componenti passati e presenti della squadra nazionale di calcio.
La rivolta è proseguita con particolare forza nel Kurdistan iraniano, ed è stata la città di Sanandaj a svolgere un ruolo centrale (anche i leader curdi in Iraq e Siria hanno condannato l’uccisione di Amini).
A ottobre, le forze del regime controllavano le città armi. in pugno, usando indiscriminatamente i mitragliatori contro i manifestanti, facendo irruzione nelle case della gente e persino uccidendo un uomo che aveva semplicemente suonato il clacson in segno di solidarietà con i manifestanti.
Il Kurdistan, in particolare Sanandaj, Mahabad e la città natale di Amini, Saghez, sono tornati al centro delle proteste a fine ottobre, quando vaste folle provenienti da tutto il paese si sono riunite per celebrare il quarantesimo giorno dalla morte di Amini, un’usanza secolare seguita da tutte le comunità musulmane in Iran. Lo stato ha cercato di intimidire e dissuadere le persone dal radunarsi affermando che una sparatoria al santuario religioso di Shah Cheraq a Shiraz (il secondo santuario più sacro in Iran) era stata “un attacco dell’Isis”. Ma nessuno ha creduto alla versione del governo, e i manifestanti hanno risposto con slogan come “Siete voi il nostro Isis”. La polizia ha cercato di bloccare l’arrivo delle persone, ma senza successo. A un certo punto le forze del regime hanno persino aperto il fuoco, uccidendo alcune persone. Per quel giorno è stato indetto uno sciopero generale nazionale, che però non ha avuto successo dappertutto.
Nella prigione di Evin a Teheran, dove sono detenuti migliaia di manifestanti, a fine ottobre è scoppiato un grande incendio, visibile in tutta la città. Non è chiaro cosa l’abbia provocato; potrebbe essere stato appiccato dalle guardie stesse nel tentativo di mettere a tacere i prigionieri che intonavano slogan in solidarietà con i manifestanti reclusi.
A novembre, i bazar hanno cominciato a chiudere mentre le proteste continuavano senza sosta; i più grandi scioperi sono stati registrati a Teheran e nel Kurdistan. La casa natale del fondatore del regime degli Ayatollah, Ruhollah Khomeini, è stata data alle fiamme.
La rivolta è stata alimentata dall’audacia di giovani donne e bambini, che hanno sperimentato sulla propria pelle la reazione brutale del regime. Un comandante delle Guardie rivoluzionarie ha rivelato a settembre che l’età media dei manifestanti detenuti era di soli quindici anni. Tra questi la sedicenne Nika Shahkarami, arrestata dopo essersi tolta l’hijab e avergli dato fuoco durante una protesta a Teheran a settembre e morta poco dopo mentre era detenuta dalla polizia; Sarina Esmailzadeh, anche lei sedicenne, picchiata duramente dalla polizia durante una protesta di settembre a Karaj, un sobborgo industriale di Teheran, e successivamente morta in una stazione di polizia; Asra Panahi, un’altra sedicenne, picchiata a morte dalla polizia in ottobre dopo aver interrotto una cerimonia pro-regime nella sua scuola ad Ardabil, nell’Azerbaigian iraniano; un bambino di nove anni di nome Kian Pirfalak, che sarebbe stato ucciso a novembre dalle forze di sicurezza nella provincia meridionale del Khuzestan.
Quest’ultima morte ha ulteriormente galvanizzato i manifestanti, che ne hanno fatto una nuova icona del movimento, un simbolo delle centinaia di bambini arrestati o assassinati. L’opinione pubblica è diventata quasi inconsolabile quando si è saputo che il bambino, un progressista, aveva scritto in un progetto scolastico un’invocazione laica, “al Dio dell’arcobaleno”, cosa che è stata considerata deviazione dall’ortodossia religiosa.
Una caratteristica delle proteste sono queste giovani donne che, in prima fila, davanti alla folla, si scoprivano la testa per poi tagliarsi una ciocca di capelli come gesto di sfida e come recupero di una pratica culturale antica che prevedeva il taglio dei capelli delle donne in lutto, usanza rintracciabile nel testo fondante della letteratura persiana, risalente all’Undicesimo secolo, lo Shahnameh. Il movimento ha anche sviluppato un proprio inno, “Baraye” (“Per”). Scritto dal cantante Shervin Hajipour, viene suonato e cantato di continuo in tutto l’Iran e nelle comunità della diaspora. I testi dicono:
Per la paura di ballare nei vicoli
Per la paura al momento del bacio
Per mia sorella, tua sorella, per
le nostre sorelle
Per chi vuole cambiare le menti
arrugginite,
per la vergogna della povertà
Per la voglia di vivere una vita normale
Per i bambini che abitano nei cassonetti
e i loro sogni
Per questa economia dittatoriale
Per quest’aria inquinata
Per i platani logori di via Vali ‘Asr
Per il ghepardo e la sua possibile
estinzione
Per gli innocenti cani randagi messi
al bando
Per le lacrime inarrestabili
Perché questo momento si ripeta
Per i volti sorridenti
Per gli studenti e il loro futuro
Per questo paradiso obbligatorio
Per gli studenti delle scuole migliori,
imprigionati
Per i bambini afgani
Per tutti questi “per” irripetibili
Per tutti questi slogan senza senso
Per tutti gli edifici crollati
e di pessima fattura
Per il senso di pace
Per il sole dopo una lunga notte
Per i sonniferi e l’insonnia
Per l’uomo, la patria, la prosperità
Per la ragazza che desiderava essere
un ragazzo
Per la donna, la vita, la libertà
Per la libertà, per la libertà, per la libertà
Sebbene finora la rivolta sia stata senza leader, non le è mancato uno scopo né è stata incoerente. I suoi slogan indicano le aspirazioni generali del movimento. Il più importante, “Donna, vita, libertà”, non solo pone al centro l’emancipazione delle donne, ma evoca anche un cambiamento trasformativo: ha avuto origine nella regione del Rojava in Siria, dove le forze curde, alcune comandate da donne, hanno cacciato lo Stato islamico alla fine del 2017. È incredibilmente commovente sentire i manifestanti a Teheran, che appartengono in gran parte alla comunità persiana dominante, gridare uno slogan che ha avuto origine nel Kurdistan. Di solito lo gridano in persiano, ma a volte, in un ulteriore atto di solidarietà, usano il curdo.
“Morte al dittatore”, l’altro slogan principale del movimento, ha iniziato a emergere nel 2019. Segna una chiara rottura con il tenore del massiccio “movimento verde” del 2009-10, che aveva una leadership netta che ha incanalato il movimento in richieste per la democratizzazione della Repubblica islamica, e non per il suo rovesciamento.
Facendo eco allo slogan più importante della rivoluzione del 1979, “Morte allo scià”, la versione del 2022 si riferisce invece al leader religioso supremo Ali Khamenei (una variante popolare di questo slogan -“Morte all’oppressore, sia Shah che Rahbar [leader religioso supremo]”- suggerisce l’opposizione agli sforzi di alcuni conservatori della diaspora volti a ripristinare la monarchia nella persona di Reza Pahlavi, il figlio del defunto scià).
Lo slogan è particolarmente rischioso perché Khamenei è, nei termini legali della teocrazia iraniana, il rappresentante di Dio sulla Terra; anche gli attacchi verbali contro di lui potrebbero essere soggetti a una legge che rende la “ribellione contro Dio” un reato capitale. Un altro slogan sottolinea la profondità della rabbia popolare: “Questo è l’anno del sangue. Seyyed Ali [Khamenei] sarà rovesciato”.
Contesto dell’attuale rivolta
Gli attuali disordini sono scoppiati sulla scia di diverse rivolte minori degli ultimi anni. Nel 2017, le giovani donne hanno iniziato una serie di proteste contro l’hijab in cui pubblicavano selfie sui social media che le mostravano mentre si svelavano in pubblico.
Nel settembre 2019, una giovane donna, Sahar Khodayari, è morta dopo essersi data fuoco per protestare contro il divieto alle donne di assistere alle partite di calcio. Successivamente, nel 2019 e nel 2020, le manifestazioni sui prezzi della benzina si sono trasformate in proteste antigovernative a livello nazionale, se pur concentrate nelle città più piccole e nelle aree rurali. Tuttavia, questi due tipi di proteste, uno provocato dall’apartheid di genere e l’altro derivante da rimostranze economiche, sono rimasti in gran parte separati.
Mentre le proteste si attenuavano un po’ durante la pandemia di Covid-19, il regime ha organizzato l’elezione del presidente Ebrahim Raisi nel 2021, una figura di estrema destra che è stata direttamente coinvolta nell’esecuzione di migliaia di prigionieri politici iraniani nel 1988 e che in precedenza era stato capo della Corte suprema. Subito dopo è iniziata una repressione. Nell’estate del 2022, il governo ha demolito le case di un villaggio abitato da più di un secolo da membri della minoranza religiosa bahá’í. Negli stessi mesi, la polizia morale ha intensificato gli attacchi contro le giovani donne per “hijab improprio”, accusandole di non coprire sufficientemente i capelli o altre parti del corpo. È stato in questa fase di repressione che venne uccisa Mahsa Amini.
Alcuni credono che il regime potrebbe allentare i regolamenti sull’hijab ed evolversi verso una dittatura militare più “normale” sotto l’egida del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche. La subordinazione di genere è intessuta nella fibra di questo regime sin dal 1979. Il leader supremo Khamenei, che ricopre la carica dal 1989, è in condizioni di salute precarie, cosa che rappresenta un pericolo anche per il regime. Se i funzionari che orchestrano l’attuale repressione sono riluttanti a perseguire una completa repressione, come ha rivelato una recente operazione di hacker sulla comunicazione statale, è perché non vogliono essere beccati con le mani nel sacco quando la nuova leadership salirà al potere, nel caso in cui a quella leadership faccia comodo additare dei funzionari particolarmente odiosi come capri espiatori per dimostrare, per quanto fraudolentemente, che sono disposti ad aprire una nuova era in cui si darà più retta al popolo.
Oltre a irritarsi per le restrizioni religiose, gli iraniani della classe media e operaia hanno visto il loro tenore di vita abbassarsi drasticamente negli ultimi dieci anni. Il paese ha subìto un aumento del costo della vita e del prezzo delle case e un tasso di disoccupazione sempre maggiore. All’inizio di ottobre i sindacati, compresi alcuni del settore petrolifero strategico, avevano iniziato ad assumere un ruolo di primo piano nelle proteste. All’inizio del Ventunesimo secolo, gli alti prezzi del petrolio permisero brevemente al governo di spendere di più per i programmi sociali interni. Negli ultimi anni, tuttavia, il crescente consumo interno, l’invecchiamento degli impianti di produzione e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti hanno limitato la capacità dell’Iran di esportare petrolio. Inoltre, le spese statali finanziate dal petrolio hanno contribuito poco allo sviluppo economico, per non parlare della creazione di posti di lavoro.
Le sanzioni statunitensi, reintrodotte durante la presidenza di Donald Trump, hanno notevolmente aumentato le sofferenze del popolo iraniano. Tuttavia, molti economisti iraniani vedono la corruzione e la cattiva gestione come fattori più importanti nella crisi economica dell’Iran. Molti credono che la sofferenza del popolo iraniano derivi in gran parte dalla politica estera aggressiva del “complesso militare-industriale-teocratico” guidato dalle Guardie Rivoluzionarie e da Khamenei. In cambio del sostegno politico, lo Stato ha assegnato grossi contratti alle Guardie Rivoluzionarie e alle milizie paramilitari Basij che queste sovrintendono. Le Guardie e le loro milizie sono peraltro direttamente coinvolte nel sostegno ad alleati sgradevoli, incluso il regime omicida di Assad in Siria, e nella costruzione di droni e missili balistici che vengono inviati per assistere Putin nell’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2020, circa l’80% dell’economia iraniana (comprese le industrie del petrolio e del gas) era sotto il controllo delle Guardie Rivoluzionarie, che sono così diventate il principale datore di lavoro del paese. Alcuni sostengono che siano le Guardie a detenere il vero potere in Iran, anche se sotto la guida nominale di Khamenei.
C’è un’accesa discussione in corso nei circoli della diaspora iraniana su come descrivere l’attuale rivolta. Alcuni l’hanno definita una rivoluzione femminista; altri hanno sostenuto che lo stesso termine “rivoluzione” sia inappropriato. Eppure la situazione è in continua evoluzione. Alla fine di ottobre, il Parlamento ha votato per concedere alle forze di sicurezza un aumento salariale del 20%, apparentemente per mantenerle motivate. La preoccupazione è che i soldati siano riluttanti ad aprire il fuoco su giovani studenti, alcuni dei quali sarebbero figli di membri delle Guardie Rivoluzionarie stesse e dei veterani della guerra Iran-Iraq. Ci sono anche voci secondo cui i militari avrebbero chiesto a Khamenei un compromesso affinché riportasse al potere i riformisti di cui si era sbarazzato in precedenza, tra cui il presidente Mohammad Khatami (1997-2005) e Mir-Hossein Mousavi, il vero vincitore delle elezioni presidenziali del 2009. Mousavi, insieme alla moglie, la femminista musulmana Zahra Rahnavard, e l’altro candidato alla presidenza riformista del 2009, il religioso Mehdi Karroubi, sono agli arresti domiciliari da quasi tredici anni.
Resta da vedere se i manifestanti accetterebbero un governo islamista un po’ più tollerante. A ogni decennio trascorso dal 1979, la società iraniana si è avvicinata sempre di più a un punto di rottura. Dopo la rivoluzione, l’Iran ha visto drastici cambiamenti negli atteggiamenti sociali nei confronti del sesso, del matrimonio e della procreazione, cambiamenti che minacciano il tessuto ideologico di un regime che ha costruito la sua legittimità sulla segregazione di genere e afferma di valorizzare la famiglia, la devozione e vecchie nozioni di giustizia e moralità. Ma la lotta contro l’apartheid di genere in Iran risale a oltre un secolo fa, a molto prima della Repubblica islamica.
Opposizione alla segregazione di genere: il “fil rouge” dei moderni movimenti sociali iraniani
Il primo grande movimento sociale nell’Iran moderno, il movimento messianico Babi, ebbe inizio a metà del XIX secolo. Tra gli obiettivi del movimento c’era la fine di molti rituali sciiti che erano alla base delle gerarchie sociali e di genere nella società iraniana, tra cui il velo obbligatorio e la segregazione di genere. Questi temi sono stati al centro dei moderni movimenti sociali iraniani fin dal principio.
L’Islam, specialmente nella sua forma sciita iraniana, è una religione “attenta all’impurità”, in questo molto simile allo zoroastrismo, al giudaismo e all’induismo. In queste religioni, gli orifizi da cui fuoriescono sangue, seme e urina sono custoditi con particolare cura perché sono punti di ingresso attraverso i quali le impurità potrebbero entrare nel corpo. Le donne sono viste come la porta di ingresso della comunità, e il loro accesso agli spazi pubblici e l’esercizio da parte loro del controllo del proprio corpo sono visti come minacce per l’intera società, poiché la loro esposizione potrebbe consentire alle impurità (fisiche e morali) di infiltrarsi nella famiglia. Nell’Iran sciita del XIX secolo (come nelle comunità ebraiche ortodosse e zoroastriane), le funzioni sessuali e riproduttive di una donna trasformavano il suo corpo in un luogo conteso, di potenziale e reale contaminazione rituale. Non sorprende quindi che il leader più importante del movimento babi fosse una donna di nome Qurrat al-Ayn, che con un atto radicale si è pubblicamente svelata. In parte a causa del suo gesto provocatorio, ebbe inizio una repressione contro il movimento e le sue richieste. La corte reale e gli alti chierici ordinarono il massacro dei babis, a cominciare dai suoi capi, tra cui Qurraat al-Ayn, che morì nel 1852.
La posizione delle donne iraniane non sarebbe migliorata all’inizio del XX secolo. Le donne iraniane erano molto indietro rispetto alle sciite azere del Caucaso meridionale (che vivevano sotto il colonialismo russo) e alle musulmane sunnite dell’Impero ottomano. Nel Caucaso meridionale, le donne musulmane della classe media e alta ricevevano un’istruzione e i filantropi musulmani erano impegnati a costruire sontuose scuole per ragazze. In Turchia le cose andavano anche meglio: la prima scuola di medicina per ostetriche era stata aperta nel 1842, la prima scuola secondaria per ragazze fu istituita nel 1861 e la prima scuola di formazione per insegnanti per donne fu fondata nel 1870. In Iran, invece, non c’era nessuna scuola per ragazze musulmane, principalmente a causa dell’irremovibile opposizione del clero sciita.
Questa situazione è cambiata radicalmente con la rivoluzione costituzionale iraniana del 1906, che ha portato il paese a una democrazia parlamentare di stile europeo, con una costituzione modellata su quella belga del 1831 e una carta dei diritti progressista. Tra i rivoluzionari c’erano socialisti -prevalentemente socialdemocratici di origine iraniana provenienti da Tiflis (ora conosciuta come Tbilisi, la capitale della Georgia) e Baku (ora capitale dell’Azerbaigian)- che incoraggiarono la formazione di organizzazioni di base conosciute come anjomans, costruite sulla falsariga dei soviet della rivoluzione russa del 1905 e promossero idee progressiste come favorire l’accesso delle donne all’istruzione e alla sfera pubblica. Le donne di alto rango formavano anjomans femminili così come scuole, cliniche, orfanotrofi e teatri.
I religiosi di alto livello erano indignati da questi sviluppi. Etichettarono i costituzionalisti progressisti come “atei” e avvertirono che presto le donne musulmane avrebbero indossato pantaloni e avrebbero sposato uomini non musulmani. Ma una generazione di uomini delle più svariate professioni, giornalisti, deputati parlamentari e poeti sostenne le attività delle donne, e per un po’ i costituzionalisti furono capaci di tenere a bada l’opposizione del clero conservatore. La rivoluzione giunse a una fine tragica e brusca nel 1911, quando la Russia occupò il paese insieme alla Gran Bretagna.
L’ascesa della dinastia Pahlavi, nel 1925, coincise con una nuova era di politiche di genere e dei diritti sessuali, insieme all’emergere di una classe media più istruita. Gli obiettivi principali dei costituzionalisti erano stati la democrazia e la modernità. Sotto lo scià Reza Pahlavi, che regnò dal 1925 al 1941, non riuscirono a raggiungere la prima, ma contribuirono offrendo il loro sostegno per ottenere la seconda, e così lo scià riuscì ad attuare una serie di riforme volte alla modernizzazione. Il suo sostegno alle scienze tolse credibilità ai chierici quando divenne chiaro che molti rituali religiosi, come il ghusl (immersione rituale nei bagni pubblici), diffondevano malattie. Le sue riforme educative e legali posero fine alla segregazione formale e alla discriminazione contro minoranze religiose come zoroastriani, bahá’í, ebrei, cristiani e musulmani sunniti. Allo stesso tempo, portarono a una nuova forma di nazionalismo imposto dallo stato, in contrasto con il nazionalismo democratico di base della Rivoluzione costituzionale. Il persiano fu dichiarato lingua ufficiale, anche se era prima lingua nel paese solo per una risicata maggioranza della popolazione. Lo scià Reza inoltre tentò di limitare il dissenso trasferendo con la forza alcune minoranze etniche per impedire che unendosi potessero evolvere in una resistenza politica organizzata. Le popolazioni di lingua sciita e persiana venivano spesso inviate nelle aree di lingua sunnita e turca per contrastare la minaccia dei movimenti etnici separatisti.
La più controversa delle riforme dello scià Reza fu il divieto del velo per le donne, istituito nel 1936. La reazione del pubblico fu mista. Molti membri della nuova classe media (come insegnanti e farmacisti) accettarono il cambiamento e iniziarono ad apparire in pubblico con mogli e figlie senza velo. Ma i membri della classe media più tradizionale, come chierici e mercanti, si irrigidirono, impedendo alle mogli di uscire di casa. Nonostante questa opposizione, in pubblico si cominciarono a vedere molte donne senza velo, donne che si recavano a scuola, nelle organizzazioni femminili e nei vari posti di lavoro.
L’altra importante riforma di genere del regime di Pahlavi fu la fine della pratica del concubinato maschile (una tradizione che risale all’era preislamica) e l’ostracismo di tutte le forme di omosessualità.
Nel 1941 gli Alleati occuparono l’Iran. Lo scià Reza, che tendeva alla neutralità a causa del grande volume di scambi commerciali dell’Iran con la Germania nazista, accettò di abdicare in cambio della salita al trono del figlio di ventidue anni, Muhammad Reza Pahlavi. A causa dell’imposizione della legge marziale e della presenza continua delle forze alleate in Iran per tutta la durata della Seconda guerra mondiale, lo stato autoritario né uscì indebolito, dando il via a un periodo caotico ma anche a una nuova era di libertà politica e richieste di responsabilità. Per la prima volta dalla Rivoluzione costituzionale, emersero una stampa relativamente libera, sindacati e vari partiti politici. I nazionalisti liberali fecero rivivere l’eredità dell’era costituzionale e si batterono per le riforme politiche e per la democrazia. Sostenuto dall’Unione Sovietica, il partito comunista Tudeh ottenne un ampio ed entusiastico sostegno tra i giovani, sia studenti che lavoratori. Questo nonostante il fatto che la prima generazione di comunisti iraniani, guidati da Avetis Sultanzade, fosse stata sterminata dal regime di Stalin nel 1938.
Insieme ai socialdemocratici, i Tudeh contribuirono a promuovere un senso di fratellanza senza precedenti tra diversi gruppi sociali ed etnici. Le organizzazioni di sinistra erano più tolleranti nei confronti delle minoranze etniche e religiose e contribuirono ad abbattere molte vecchie gerarchie di status e genere. Una nuova generazione di giovani donne di città, molte delle quali studentesse delle scuole superiori provenienti da una varietà di contesti religiosi, aderirono a vari partiti politici e parteciparono a campagne per il suffragio attivo e passivo delle donne, per il diritto al lavoro e per l’assistenza all’infanzia. Nelle comunità tradizionaliste della classe media urbana tornò il velo con un’accezione meno rigorosa, ma la stragrande maggioranza delle donne della classe media più moderna rimase senza velo. La sostanziale rottura della segregazione sia religiosa sia di genere a Teheran e in altre grandi città fece solo infuriare ulteriormente gli iraniani religiosi più tradizionalisti.
Nel 1951, il parlamento iraniano votò per nazionalizzare l’industria petrolifera britannica del paese, rendendo l’Iran la prima nazione del Medio Oriente a farlo. Due anni dopo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna rovesciarono congiuntamente il primo ministro democraticamente eletto, il nazionalista Mohammad Mosaddeq (1951-1953) e riportarono in vita il docile giovane monarca Mohammad Reza Pahlavi, che era fuggito dal paese. Le potenze imperialiste estromisero Mosaddeq sfruttando anche alcuni punti di divisione all’interno della sua stessa coalizione su questioni sociali e culturali. Negli anni cruciali del 1951 e del 1952, il suffragio femminile divise il movimento nazionalista. La questione fu un fattore che contribuì allo scioglimento della coalizione nazionalista all’inizio del 1953, cosa che facilitò il colpo di stato orchestrato dalla Cia e dall’intelligence britannica.
L’Iran intraprese nuovamente un’agenda di modernizzazione autoritaria, comprese le riforme di genere, che il governo utilizzò per segnalare il suo impegno nei confronti delle norme occidentali. Sebbene i progetti di riforma dello scià Mohammad Reza Pahlavi ebbero una diffusione limitata -furono poche le persone che effettivamente adottarono uno stile di vita “moderno”-, il loro impatto simbolico fu considerevole: immagini tipiche della modernizzazione permearono i nuovi spazi pubblici, inclusi giornali, televisione, cinema, cartelloni pubblicitari, settore della moda e riviste popolari. Alla fine degli anni Sessanta molte case cittadine avevano un televisore, e andare al cinema era una forma popolare di intrattenimento. Immagini di donne in abiti succinti e in pose provocatorie riempirono i media. L’industria pubblicitaria diffondeva le immagini di ideali e stili di vita di bellezza occidentali e le riviste pubblicavano fumetti che raffiguravano donne seminude. Non furono solo i religiosi tradizionalisti a disapprovare questi sviluppi, ma anche la maggior parte della sinistra e dei nazionalisti laici, soprattutto da quando il regime prese a pubblicizzare questi cambiamenti nei ruoli di genere come indicazioni della crescente vicinanza dell’Iran all’Occidente. Di conseguenza, l’ostilità verso le nuove norme di genere divenne un fattore chiave nel cementare un’alleanza politica che sarebbe stata impensabile durante la prima metà del XX secolo: una tenue coalizione “rosso-nera” anti-scià che univa sinistra antimperialista, nazionalisti e islamisti conservatori.
Fin dalla Rivoluzione costituzionale del 1906, i sostenitori della modernità avevano spinto per i diritti delle donne promettendo implicitamente che dare alle donne nuovi diritti e opportunità non avrebbe interferito con il loro adempimento dei ruoli previsti dalle aspettative tradizionali. Sarebbero rimaste figlie rispettose, mogli fedeli e madri altruiste anche se avessero assunto un ruolo più pubblico nella società. Da questo punto di vista, l’educazione delle donne sarebbe andata a beneficio dell’intera nazione. Negli anni Sessanta, tuttavia, una nuova generazione di donne determinate che lavoravano all’interno del parlamento, della burocrazia governativa, del sistema legale e delle università iniziò a minare questa idea. Sotto l’impatto del femminismo occidentale della seconda ondata, le moderne donne iraniane urbane rivendicarono nuovi diritti legali, economici e individuali, compresi maggiori diritti nel matrimonio. Infransero anche vecchi tabù sessuali: le poesie di Forough Farrokhzad, una brillante poetessa e regista femminista che aveva lasciato il marito per un altro uomo e perso la custodia dell’unico figlio, divennero gli inni di questa nuova generazione. Il suo lavoro scioccò i lettori con i suoi messaggi emotivamente e sessualmente provocatori. La poesia “Peccato”, ad esempio, inizia così:
Ho peccato, peccato, quanto piacere
nell’abbraccio caldo e ardente ho peccato
fra due braccia ho peccato
accese e forti di caldo rancore, ho peccato.
La pubblicazione di “Peccato” creò scandalo nei seminari religiosi e nella città di Qom, dove i religiosi e i loro sostenitori chiesero il divieto delle opere di Farrokhzad. Ancora più oltraggiosa fu un’altra poesia, “Prigioniera”, in cui la narratrice ammette di avere una relazione mentre è sposata e ha un figlio. Si paragona a un uccello in gabbia:
Penso, ma so che mai
Avrò la forza di lasciare questa gabbia;
Seppure il mio carceriere non si opponesse,
Non vi sarebbe più animo di partire.
Da dietro le sbarre, ogni radioso mattino,
Gli occhi di un bambino mi sorridono;
Quando intono una canzone gaia,
Le sue labbra per un bacio cercano me.
Le violazioni del pudore femminile, come le immagini di giovani donne iraniane nelle riviste femminili popolari e la poesia di Farrokhzad, ruppero il contratto sociale sul genere e galvanizzarono una reazione contro i costumi sessuali occidentali, il femminismo occidentale e, presto, anche il moderno movimento per i diritti dei gay.
Non molto tempo dopo la rivoluzione del 1979, la Repubblica islamica istituì un radicale capovolgimento dei diritti delle donne. Lo stato riesumò le convenzioni sociali premoderne, come il velo obbligatorio, il divorzio facile per gli uomini, i matrimoni precoci e la poligamia, ma le fece rispettare attraverso forme moderne di sorveglianza e controllo. Le donne accusate di “velo improprio” venivano frustate e quelle accusate di sesso prematrimoniale o extraconiugale venivano imprigionate o, in alcuni casi, lapidate a morte. Gli uomini coinvolti in relazioni gay venivano severamente puniti e persino giustiziati.
Accanto a programmi sociali ed economici populisti che inizialmente avvantaggiavano i poveri urbani e rurali, comprese le donne, coesistevano leggi aspramente misogine.
Negli anni Novanta, tuttavia, le politiche di privatizzazione hanno finito per ampliare il divario di ricchezza. Dopo aver inizialmente incoraggiato le politiche per la fertilità nei primi anni Ottanta, il regime ha invertito la rotta e ha istituito un programma di pianificazione familiare. Questo periodo, durato dalla fine degli anni Ottanta all’inizio degli anni Duemila, divenne noto come “era dei Pragmatici” (sostenitori della liberalizzazione economica), che fu seguito da quella dei “riformisti” (sostenitori della liberalizzazione culturale). Poiché questi programmi di pianificazione familiare erano stati redatti in nome dell’Islam, molte famiglie delle più fedeli hanno ceduto e li hanno abbracciati. I risultati, insieme a una campagna di alfabetizzazione che ha preso di mira le donne delle campagne, hanno portato a una drastica transizione demografica. Il tasso di fertilità complessivo è sceso da 6,4 nascite per donna nel 1984 a 1,8 nel 2010, per poi stabilizzarsi a 2,1 nel 2022. La Divisione per la popolazione delle Nazioni Unite ha rilevato che nei periodi che vanno dal 1975 al 1980 e dal 2005 al 2010, l’Iran ha registrato le variazioni percentuali al ribasso più marcate nel tassi di fertilità di qualsiasi paese del mondo. Collegato a questo declino è stato un aumento sostanziale dell’età del primo matrimonio sia per le donne che per gli uomini. Il numero dei matrimoni formali è diminuito, mentre sono aumentati i matrimoni temporanei sanciti religiosamente (un’antica forma di concubinato, in cui il sesso è solitamente scambiato con denaro) e, gradualmente, una forma più moderna di convivenza nota come “matrimonio bianco”.
Come risultato dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, delle vaccinazioni, di una migliore igiene e dell’adozione di tecnologie contraccettive, l’istituzione del matrimonio ha subito un profondo cambiamento in Iran, proprio come in Occidente. Il matrimonio è diventato meno incentrato sulla procreazione e sono aumentate le donne che volevano soddisfare i propri bisogni di intimità emotiva e sessuale. Con la diffusa accettazione dell’importanza di amore romantico e del soddisfacimento sessuale nel matrimonio, sono state stabilite nuove forme di regolamentazione dell’eterosessualità. Anche il sesso al di fuori del matrimonio è diventato più accettabile. Man mano che le donne diventavano più determinate sessualmente, erano anche meno tolleranti nei confronti delle relazioni extraconiugali degli uomini, sia etero che omosessuali, e nei confronti dell’intrusione dello stato nelle loro vite personali. Anche i tassi di divorzio sono aumentati.
Le relazioni di genere hanno continuato a cambiare nonostante tutti i tentativi dello Stato islamista di tornare indietro nel tempo. I giovani uomini e donne delle campagne, reclutati nelle forze del regime, hanno iniziato presto a contrarre matrimoni “di compagnia” benedetti dal regime, quando non direttamente organizzati dalle loro famiglie. Nel secondo decennio del XXI secolo, i matrimoni combinati e i matrimoni contratti all’interno di legami di parentela non erano più la norma, nemmeno nelle comunità tribali e rurali. Le donne si aspettavano intimità, spontaneità e un maggior grado di vicinanza emotiva e sessuale. Inoltre, con l’aumentare dell’età media del matrimonio per le ragazze, gli “appuntamenti” erano diventati un dato di fatto della vita.
Oggi l’Iran rimane una terra di profonde contraddizioni non solo in politica ma anche in amore, sesso e matrimonio. Sebbene la partecipazione delle donne all’economia formale sia molto bassa, esse sono fortemente coinvolte nell’economia informale. Molte hanno diversi lavori part-time e sostengono finanziariamente le loro famiglie. Un numero significativo di donne delle città ha anche scelto di rimanere single o, se divorziate o vedove, di non risposarsi. Eppure i libri di testo rimangono profondamente conservatori, ritraendo le donne principalmente come mogli e madri. I giovani si frequentano online e molte donne di città praticano il sesso prematrimoniale. Ma quando una relazione non finisce con il matrimonio, le donne spesso si sottopongono all’imenoplastica prima di sposarsi con un partner maschio disponibile, magari tradizionalista, che si aspetta che sua moglie sia vergine. Le coppie scelgono sempre più di convivere in “matrimoni bianchi” invece di contrarre un matrimonio legale. Allo stesso tempo, leggi anacronistiche continuano a vietare l’intimità tra uomini e donne non imparentati.
Tutti questi fattori hanno spianato la strada alle grandi e persistenti proteste a cui stiamo assistendo oggi in Iran. Le donne iraniane hanno fatto parte di tutte le principali proteste sociali dal secondo decennio della Repubblica islamica e, negli ultimi anni, sono state spesso in prima linea in queste manifestazioni. Le donne hanno combattuto a fianco degli uomini, a volte anche davanti a loro per gli obiettivi comuni, come l’istruzione, il lavoro e i diritti umani, ma anche specificamente per i loro diritti di genere. Hanno assunto ruoli chiave nelle proteste nazionali di massa e hanno fatto confluire piattaforme femministe entro istanze sociali ed economiche più ampie. Queste proteste sociali hanno coinvolto la classe operaia iraniana, donne e uomini, per lo più giovani, insieme a membri di varie minoranze nazionali emarginate
-arabi, curdi, beluci, lur e azeri- e minoranze religiose perseguitate, come bahá’í e sufi.
Le donne hanno partecipato in modo significativo all’immenso Movimento Verde del 2009, una rivolta spontanea contro le elezioni presidenziali truccate nel giugno di quell’anno. Le proteste sono scoppiate quando il presidente Mahmoud Ahmadinejad, che, secondo i sondaggi, avrebbe dovuto perdere le elezioni, è stato dichiarato vincitore con un incredibile 62% dei voti espressi. Milioni di persone sono scese in piazza, chiedendo: “Dov’è il mio voto?”. Il giornalista del “New York Times” Roger Cohen, che all’epoca si trovava a Teheran, scrisse: “Le donne iraniane sono all’avanguardia. Da giorni le vedo incitare gli uomini meno coraggiosi. Le ho viste tornare nella mischia dopo essere state picchiate”.
Le donne sono state anche le principali partecipanti alle proteste di massa dal dicembre 2017 al gennaio 2018. I manifestanti hanno protestato contro l’elevata inflazione e la corruzione del governo e hanno chiesto la fine della Repubblica islamica e del suo interventismo internazionale. I manifestanti hanno persino gridato: “Morte a Khamenei”. Migliaia di persone, tra cui molte donne, arabi iraniani e curdi, sono state arrestate dalle forze di sicurezza.
Una seconda ondata di proteste di massa è scoppiata nel novembre 2019, quando più di 200.000 persone sono scese in piazza dopo che il prezzo della benzina è aumentato del 50% e il paese ha subìto una drastica penuria d’acqua causata dal cambiamento climatico e da politiche predatorie del capitalismo di stato. Ancora una volta, una protesta apparentemente economica si è trasformata in politica, colmando il divario tra i poveri urbani e quelli che il sociologo Asef Bayat ha definito i “poveri della classe media”, cioè i giovani altamente istruiti che non possono raggiungere i livelli base di una vita borghese. Queste proteste sono state violentemente represse. Secondo Amnesty International oltre 1.500 persone sono state assassinate dalle Guardie Rivoluzionarie nella provincia meridionale del Khuzestan, ricca di petrolio. Come ha scritto Houshyar Dehghani sul quotidiano online Radio Zamaneh, le donne erano alla guida di queste proteste:
Le donne sono in prima linea nelle proteste. Sono loro che si oppongono alle Guardie [rivoluzionarie] e si rifiutano di fuggire, incoraggiano il popolo a resistere, discutono con le forze dell’oppressione; si mettono davanti alle armi degli uomini in borghese e scandiscono slogan, raccolgono la folla intorno a loro. Sono le donne che scattano foto e video, e quando le [guardie] cercano di arrestare qualcuno, sono le donne che le affrontano e cercano di salvare la persona arrestata. I media statali le hanno definite “sospette”, agenti di potenze straniere […]. Le forze in borghese hanno usato la violenza sessuale per spaventare le donne e per respingerle nelle loro case. Ma l’influenza dei tabù e delle pratiche culturali che sono alla radice della Repubblica islamica, sta svanendo. Quando qualcuno, dopo aver assistito al massacro di 1.500 persone, ha il coraggio di opporsi alle forze dell’ordine, la molestia sessuale è un’arma debole.
Le donne sono state anche organizzatrici e leader di movimenti sociali come la campagna per il rilascio dei prigionieri politici, la campagna per sradicare la lapidazione e le esecuzioni, la campagna per la riforma ambientale, la campagna delle madri per la pace e la campagna per protestare contro lo stupro e la tortura dei prigionieri politici. Più recentemente, le femministe iraniane hanno avviato una campagna #MeToo, parlando di molestie sessuali, abusi, aggressioni e stupri, citando nelle loro accuse uomini influenti, inclusi potenti comandanti della Guardia rivoluzionaria, religiosi e intellettuali.
Hanno anche lanciato un movimento per porre fine al velo obbligatorio. Nel 2014, Masih Alinejad, un giornalista che vive in esilio, ha lanciato un gruppo su Facebook chiamato “My Stealthy Freedom”, [“La mia libertà furtiva”]. Ha invitato le donne iraniane a pubblicare foto di se stesse senza hijab. Centinaia di donne hanno pubblicato immagini e la pagina ha rapidamente attirato l’attenzione internazionale. Le donne hanno partecipato persino dall’interno dell’Iran, nonostante l’enorme pericolo personale per se stesse e le loro famiglie. Il 27 dicembre 2017, una giovane donna di nome Vida Movahed è stata arrestata quando ha legato il suo hijab a un bastone, si è messa in cima a una centralina nell’affollata Revolution Avenue a Teheran e l’ha agitato davanti alla folla, diventando un’icona per il proteste. A dozzine si sono impegnate in simili atti di sfida, e sono state spesso arrestate.
2022: un cambiamento irrevocabile nelle relazioni di genere?
I sondaggi hanno dimostrato che la maggior parte degli iraniani crede che indossare l’hijab dovrebbe essere una scelta. Ma il regime ha, piuttosto, rafforzato le sue politiche. Nel tentativo di spingere le donne a una vita fatta solo di matrimonio e maternità multiple, nell’autunno del 2021 sono state adottate norme draconiane sull’aborto e sul controllo delle nascite, norme inaudite per la società iraniana. In tutto l’Iran non è più possibile fare ricorso al controllo delle nascite senza prescrizione medica e le donne incinte sono continuamente monitorate dallo stato per assicurarsi che portino a termine la gravidanza.
Nel luglio 2022, il presidente Raisi ha deciso di far rispettare le leggi sull’hijab, che fino a quel momento erano andate via via allentandosi. Queste recrudescenze normative, chiaramente fuori scala persino secondo gli stessi standard del governo, potrebbero ora causarne la fine.
Le preoccupazioni per la purezza avevano, fino a tempi relativamente recenti, impedito alle donne di partecipare pienamente ai movimenti sociali per paura di essere definite “disonorevoli” o “immorali”. Ma in un mondo in cui il sesso prematrimoniale sta diventando molto più comune, tali etichette non hanno più il potere che avevano una volta. Oggi le donne iraniane combattono la polizia sia con il cervello sia con il corpo. Gli uomini sono ormai abituati a vedere le donne come leader delle campagne sociali, donne che fanno anche ricorso alle arti marziali per fronteggiare la polizia nelle strade. Le proteste di oggi sono il culmine di quasi due secoli di lotta per i diritti civili delle donne iraniane e delle minoranze etniche e religiose.
Il regime iraniano conosce perfettamente il crescente potere del secolare movimento delle donne, in particolare ora che si è unito alle proteste scaturite da motivi economici-etnici. Il governo ha già fatto ricorso a una miriade di strategie per soffocarlo: le attiviste vengono picchiate, accecate con colpi di pistola a pallini sparati negli occhi; viene loro impedito di curarsi in ospedale, vengono arrestate e gettate in prigione, dove, secondo un recente rapporto della Cnn, tutti, sia giovani donne sia uomini, vengono torturati e violentati. Dall’ultima ondata di proteste iniziata a settembre, il regime ha ucciso circa cinquecento persone e ne ha arrestate più di 18.000, molte delle quali bambini. I giornalisti vengono arrestati per aver dato notizie, e alle principali testate giornalistiche viene vietato di raccontare le manifestazioni, o vengono chiuse del tutto. Le organizzazioni che forniscono spazi agli attivisti ricevono minacciosi avvertimenti e i siti web associati al movimento vengono regolarmente chiusi.
Non possiamo sapere cosa accadrà a seguito di questa repressione, ma possiamo affermare con assoluta certezza che le donne iraniane non si fermeranno. Come un possente fiume bloccato da giganteschi massi, il movimento trova continuamente un nuovo percorso, a volte in modi del tutto imprevisti.
Nel secolo scorso, le donne iraniane hanno realizzato cambiamenti epocali. Hanno conquistato il diritto all’istruzione e all’accesso agli spazi pubblici; hanno costantemente combattuto le normative imposte dallo stato su ciò che potevano o non potevano indossare; hanno ottenuto il diritto di lavorare fuori casa, di votare e di ricoprire cariche; hanno preteso di potersi sposare liberamente, e di avere il diritto di lasciare mariti violenti. Hanno risposto positivamente alle misure di controllo delle nascite istituite alla fine degli anni Ottanta. Hanno conquistato il controllo del proprio corpo, riducendo il numero di gravidanze o scegliendo di non avere figli. Le donne sono diventate scienziate, ingegnere, accademiche, giornaliste, avvocate, atlete, registe, attrici e scrittrici di alto livello che hanno lottato instancabilmente per i loro diritti. Hanno dato il via a un nuovo genere di letteratura femminista e sono diventate alcune dei più importanti caporedattori, registi e artisti degli ultimi decenni. Le femministe di lingua persiana continuano a stringere legami di solidarietà con le loro compatriote curde, azere, beluce e arabe e con le appartenenti alle minoranze religiose sunnite e bahá’í, e sono state in prima linea nel movimento di solidarietà con le donne afghane.
In questo processo storico, le sostenitrici iraniane dei diritti delle donne hanno infranto secolari tabù e rituali sessuali e di genere, guadagnandosi un enorme rispetto da un’ampia fascia della società. Femministe iraniane come Shirin Ebadi, Nasrin Sotoudeh e Narges Mohammadi sono state riconosciute dalla comunità internazionale come coraggiose pioniere e apripista di una società più democratica in Iran.
Indipendentemente da come andrà a finire, la rivolta del 2022 costituisce già una straordinaria vittoria: l’Iran è già cambiato irrevocabilmente. L’attuale confluenza dei movimenti per i diritti delle donne, dei diritti civili e dei diritti delle minoranze, unita al sostegno ricevuto da tutta la popolazione iraniana, sia della classe media sia di quella operaia, ha portato l’Iran sul punto di emanare una condanna a morte per il regime teocratico che lo ha governato per più di quattro decenni.
(Ringraziamo Maurizio Acerbo che ha tradotto il saggio e “Comune-info.net” e “Dissent”
per la concessione a pubblicare)
Fonti:
La sezione storica di questo saggio si basa sulle seguenti precedenti pubblicazioni degli autori:
Janet Afary. 1996. The Iranian Constitutional Revolution of 1906-11: Grassroots Democracy, Social Democracy, and the Origins of Feminism. New York: Columbia University Press.
Janet Afary. 2003. “Shi’ite Narratives of Karbala, Christian Rites of Penitence: Michel Foucault and the Culture of the Iranian Revolution, 1978-79”,Radical History Review, no. 86 (Spring): 7-36.
Janet Afary. 2009. Sexual Politics in Modern Iran. Cambridge University Press.
Janet Afary and Jesilyn Faust, eds. 2021. Iranian Romance in the Digital Age: From Arranged Marriage to White Marriage. London: Bloomsbury Press.
Janet Afary. 2022. “From Bedrooms to Streets: The Rise of a New Generation of Independent Iranian Women”, Freedom of Thought Journal 11 (Spring): 1-28. DOI: https://doi.org/10.53895/ RG ZG7213
Janet Afary and Kevin B. Anderson. 2005. Foucault and the Iranian Revolution: Gender and the Seductions of Islamism. Chicago: University of Chicago Press.
Roger Friedland, Janet Afary, Paolo Gardinali, and C. Naslund. 2016. Love in the Middle East: The Contradictions of Romance in the Facebook World, Critical Research on Religion 4:3, 229-258.
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