Cari “concittadini”, avete pubblicato sul vostro giornale anche troppe cose relative all’attività dei maestri di strada napoletani. Vorrei ugualmente aggiungerne un’altra, collaterale ma significativa perché evoca -si parva licet- problemi più vasti. Si tratta di un fenomeno curioso, che si presenta ricorrentemente nei personaggi istituzionali (politici e scolastici) che stanno attorno al progetto Chance, negli osservatori esterni, ma a volte anche all’interno. E’ una critica, a vari gradi di astiosità e invidiosità, al fatto che i nostri ragazzi vengano “viziati” e “coccolati”. Come simbolo di questo vizio sono per lo più citate le brioches, che diamo ai ragazzi a colazione e in altri momenti della giornata.
Sembra che, come al tempo di Maria Antonietta, chi non ha pane non debba avere brioches.
Chance non è l’unico progetto che si occupa di ragazzi svantaggiati, ma sicuramente attua un tipo particolare di relazione umana, che viene percepito anche dagli osservatori meno attenti.
Perché ciò provoca tanto fastidio? Una prima ragione, strettamente personale, è dettata da una gelosia primitiva in persone che sentono di non avere ricevuto sufficiente nutrimento nelle lontananze della propria vita.
Una ragione più complessa è invece di natura sociale. Un dirigente scolastico, a commento di un bel documentario girato nelle aule di Chance (“Pesci combattenti”), osserva: “questi sono ragazzi impuniti”. Quale sentimento è mai questo, nei confronti di ragazzi che la vita ha punito nei modi più fantasiosi? E’ la reazione epidermica a comportamenti sicuramente non irreprensibili, oppure c’è qualcosa di più profondo?
Mi pare che lo sdegno virtuoso a proposito di coccole e brioches e l’aggressività nascosta sotto la virtuosa esigenza di punizione facciano tutt’uno, e rimandino ad una costellazione psichica complicata, che ci riguarda tutti. Intendo tutti noi che siamo nati in palazzi, o palazzine, o almeno in condomini, rispetto a coloro che hanno avuto in sorte di nascere nelle mangiatoie.
Un primo sentimento è di colpa, analogo a quello che, con molta maggiore virulenza, accompagna la vita di coloro che sono scampati ad uno sterminio o ad un massacro con la domanda, tanto angosciosa quanto priva di risposte: “perché io no?”.
Irrazionale e irrefrenabile come tutti i sentimenti di colpa, anche questo mette in moto un ampio ventaglio di reazioni: distruttive, capziose, ipocrite, oppure positive. La più primitiva è quella che prende la colpa e la scarica sull’altro: è povero perché è difettoso, e ben gli sta. Come è noto, il razzismo è il sentimento dei contigui, ed è dettato dalla paura: chi è riuscito a passare dalle mangiatoie ai condomini ha il terrore di essere ributtato indietro e odia e teme coloro nei quali continua a specchiarsi, cosicchè il razzismo tende all’eliminazione.
Chi si preclude questa strada può scegliere tra le svariate opportunità offerte dall’ideologia nei suoi scomparti di sinistra: idealizzazione dei poveri (nelle loro varie accezioni), in maniera che possano essere investiti di missione salvifica, mentre vengono privati anche dell’ultimo diritto, quello di essere come veramente sono; proiezione della colpa, di tutte le colpe, su un nemico esterno, preferibilmente l’Impero Americano, che pare fatto apposta per la bisogna. Questi espedienti, per lo più inconsci (mi riferisco naturalmente a dinamiche psichiche, non alle spiegazioni razionali, o sedicenti tali) sono i più diffusi, ma non funzionano appieno: non assicurano del tutto contro la delusione, perché i poveri non sono mai come li abbiamo voluti; né liberano del tutto da un sentore di ipocrisia, per il fatto che non solo il detestato Impero è stato eretto in buona parte a spese dei poveri, ma anche il condominio, o la palazzina, che ci siamo costruiti alla sua ombra; e poi perché non è corretto ridurre i poveri al ruolo di vittime, e identificarsi con le vittime, sentendosi buoni e giusti ed esentandosi dal peso della rabbia e dell’odio che allo status di vittime si accompagna (oppure caricandole di un odio e di una rabbia che sono nostre e non loro). Infine, perché non è onesto non riconoscere in noi stessi una parte nascosta, tanto più in profondità quanto più siamo progressisti, che scalpita contro i poveri perché esistono, ed esistendo ci tolgono la tranquillità e la possibilità di godere senza impicci il poco o molto benessere che abbiamo. Che è in fondo una cosa comprensibilmente umana. L’uomo è un animale -su questo ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!