Articolo comparso sul Quotidiano del Sud, giovedì 11 novembre 2021, che ringraziamo.

La Fondazione Giuseppe Di Vagno, che ha recentemente celebrato a Conversano il centenario della morte del martire socialista alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, ci aiuta a fare alcune riflessioni. Eletto il 15 maggio 1921 alla Camera, primo della lista socialista con più di 74.000 voti di preferenza, Giuseppe Di Vagno fu assassinato il 25 settembre successivo a Mola di Bari. Aveva 34 anni ed era già un simbolo della difesa dei diritti dei contadini nella lotta contro gli agrari e nella rivendicazione di quelle terre che erano state promesse ai combattenti.
Assieme a lui fu eletto anche Giuseppe Di Vittorio, un sindacalista rivoluzionario di Cerignola che aveva militato tra le file interventiste. La campagna elettorale del 1921 segnò l’acuirsi di una guerra civile. Le aggressioni fasciste, che avevano già preso corpo negli ultimi mesi del 1920 dopo la “svolta moderata” di Mussolini, con il definitivo abbandono del fascismo rivoluzionario della prima ora, dilagarono in tutto il paese impedendo in numerose realtà l’esercizio del libero diritto di voto e fecero della violenza un aspetto permanente della lotta politica. Ciò avvenne anche nel paese natale di Di Vagno, Conversano, dove nonostante la sua grande popolarità riuscirono a votare solo 22 dei suoi numerosi sostenitori. I presunti assassini (legati a Peppino Caradonna, un ricco agrario a capo del fascio di Cerignola) furono arrestati, ma beneficiarono di una amnistia senza che in sede giudiziaria fosse individuata neppure l’ombra dei mandanti.
L’enormità del fatto costituito dall’assassinio politico di un parlamentare dell’opposizione che nel Mezzogiorno rappresentava una delle guide più autorevoli del proletariato contadino, non suscitò però quella immediata reazione morale e politica dell’Italia democratica che sarebbe stata necessaria.
L’uccisione di Di Vagno per molti aspetti avrebbe anticipato il sequestro e il delitto Matteotti, con il quale il deputato pugliese aveva tre elementi importanti in comune: un’origine sociale non proletaria e gli studi universitari di legge, il pacifismo antimilitarista che gli procurò l’internamento negli anni della guerra, l’organizzazione dei braccianti che gli attirava l’avversione profonda da parte degli agrari. Nel partito socialista Di Vagno, che fu affascinato dalla rivoluzione bolscevica, aveva un atteggiamento sinceramente unitario e non fazioso e, pur non aderendo ad essa, considerava l’ala riformista (la “destra”) un elemento essenziale per l’esistenza stessa del Psi.
La morte di Di Vagno fu anche il segnale inequivocabile che ogni tentativo di “pacificazione” come quello tentato da Bonomi e De Nicola (che dopo il crollo del fascismo saranno rispettivamente capo del Governo e Presidente Provvisorio della neonata Repubblica Italiana) e di cui Di Vagno fu un attivo e convinto sostenitore, era impraticabile perché il fascismo in quel momento era rappresentato da Roberto Farinacci più che da un Mussolini incerto e apparentemente incline ad una tregua.
L’Italia democratica non capì che l’uccisione del deputato Di Vagno avrebbe costituito, se non affrontato con una decisa e larga risposta politica nazionale, il principio di una involuzione inarrestabile che avrebbe portato altri delitti e infine la soppressione di ogni libertà in tutto il paese.
Non è questa la sede per interrogarsi sui limiti e sugli errori dell’opposizione democratica né sulle responsabilità e complicità di molte forze politiche e delle istituzioni del tempo. È importante però rilevare che il delitto Di Vagno fu purtroppo “politicamente ridimensionato”: in quel tempo il rischio che correvano i difensori dei “proletari” tanto più se braccianti e contadini poveri, faceva parte del mestiere. Mancò allora quella illuminazione politica per farne un forte elemento di allarme morale diretto al paese per costruire un argine solido in difesa della libertà.
La sottovalutazione delle conseguenze politiche che il delitto Di Vagno avrebbe avuto in tutto il paese non risparmiò purtroppo gran parte del Partito Socialista (allora un partito a prevalenza operaia) che collocò questo delitto nella tragica contabilità degli assassini e delle violenze di una guerra civile strisciante nella sciagurata convinzione che l’inevitabile rivoluzione proletaria avrebbe prima o poi trionfato.
Non è facile trovare riflessioni di dirigenti socialisti nazionali sul delitto Di Vagno, neppure Giacomo Matteotti considerò il delitto un “salto di qualità”, anche se nella sua pubblicazione “Un anno di dominazione fascista”, l’uccisione di Di Vagno è posta in grande rilievo. Nel “Carteggio” con Anna Kuliscioff si trova la lettera di Filippo Turati scritta il 26 settembre 1921 ad Anna: “Hai letto di quel povero Di Vagno? Anche questo spesseggiare di attentati a deputati socialisti è letificante. Ci dovrebbero almeno aumentare l’indennità!”. Ma il giorno seguente la risposta di Anna a Filippo è di tutt’altro tono e dà il segno di una lucidità politica che spicca per la sua lungimiranza: “Mentre il Partito si balocca e si perde in discussioni astratte, la guerra civile divampa in tutta Italia, e lo spettro della dittatura militare si delinea sempre più minaccioso […] L’assassinio del Di Vagno più di migliaia di altri assassinii ora rinnovantisi con una intensità spaventevole, forse potrà essere il punto culminante da cui emergerà o un vero stato d’assedio oppure lo scatenarsi di una vera guerra civile […] I socialisti della maggioranza sono più preoccupati […] di conservare i posti che della soppressione di ogni vita politica e della vita individuale [...]”.
Il 10 ottobre del 1921 al XVIII congresso del Psi tenuto a Milano, il deputato di Caltagirone Arturo Vella, uno dei capi della maggioranza massimalista, che di Di Vagno era stato amico e compagno di lotte, non diede una risposta politica e non andò oltre ad un’appassionata commemorazione, accomunandolo a tutte le altre vittime della violenza fascista. Di Vagno era stato “vilmente assassinato dalla volontà preordinata e preconcetta della borghesia agraria del Mezzogiorno”.
Vella rivolse poi un commosso saluto “a tutti i martiri, ai prigionieri che soffrono nelle carceri italiane a dimostrazione della corresponsabilità del governo con la violenza dei bianchi”. E concluse affermando che “la violenza ci può uccidere... ma non può far piegare l’anima rivoluzionaria del Partito Socialista Italiano”.
L’oscuro Matteotti della Puglia, come lo definì Leo Valiani, apparteneva a quella piccola borghesia intellettuale del Mezzogiorno, non alinea all’opportunismo, che Di Vagno, nella logica del tempo aveva in qualche modo “tradito”. Sapeva parlare con i braccianti di cui fu formidabile organizzatore, si impegnò nelle amministrazioni locali e per il completamento dell’acquedotto pugliese, scriveva intensamente sui giornali locali. Utilizzava spesso pseudonimi come Enjolras (lo studente rivoluzionario eroe delle barricate di Parigi del 1848 nei Miserabili di Victor Hugo) o Basarow (nome di battaglia bolscevico nella lotta tra i mugik e i proprietari terrieri indissolubilmente legati al potere zarista) o Marco Polo della Luna, elegante satira politica che svolge una funzione didattica e formativa che pare riecheggi i più noti Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift.
Di Vagno fu anche vicino a Gaetano Salvemini, di cui fece propria l’analisi dei rapporti subalterni del ceto politico meridionale alle scelte protezioniste del governo centrale e a favore degli industriali del nord che impedivano lo sviluppo di una agricoltura moderna e ne condivideva il giudizio assai negativo sulla politica di Giolitti, riformista a nord ma conservatore a sud. D’altra parte la revisione del regime protezionista doganale, esponendo l’industria alla concorrenza e indebolendo la forza contrattuale degli operai, rendeva difficile una vera alleanza tra operai del nord e contadini del sud contro il blocco industriale e agrario. L’oggettiva difficoltà di costruire una strategia comune a tutto il proletariato italiano, che fu in qualche modo affrontata dal mirabile intervento di Filippo Turati in chiave di unità nazionale nel suo intervento del 26 giugno 1920 alla Camera per “Rifare l’Italia”, fu un elemento serio di debolezza nella lotta al fascismo. Da molte parti il delitto Di Vagno fu derubricato a episodio locale e i colpevoli descritti come malviventi.
Il profondo sud era molto lontano da Roma ma anche da Milano. Siamo tutti in debito con Giuseppe Di Vagno. Non si tratta oggi di riscrivere la storia ma di risarcire moralmente e politicamente quel “gigante buono” che, come sarebbe accaduto a Giacomo Matteotti, si trovò solo.
Di Vagno e Matteotti dovrebbero essere ricordati insieme come simboli dell’antifascismo democratico.

*Presidente della Fondazione Anna Kuliscioff di Milano