Cari amici,
benvenuti, giorni cupi.
È strano pensarlo, ma persino nella Sarajevo assediata, durante la guerra in Bosnia (1992-1995) c’era ancora spazio per il teatro, la musica, l’arte. Proprio a Sarajevo, nel 1993, Susan Sontag mise in scena una rappresentazione di “Aspettando Godot”. Fu una produzione importante, che aiutò a portare il dolore della città all’attenzione del mondo. Si trattò di un coraggioso atto di immaginazione. Sempre durante l’assedio, Vedran Smailovic, noto come “il violoncellista di Sarajevo”, suonò tra le rovine del suo Paese. Ricordo anche un graffito scarabocchiato sotto un davanzale, una scritta al contrario fatta dagli abitanti della casa mentre cercavano di evitare di essere colpiti dai cecchini. Diceva, semplicemente: “Edith Piaf”.
Le arti contano anche nei luoghi e dei momenti peggiori.
Le poetesse nell’Afghanistan dei talebani, che non potevano incontrarsi per leggere le proprie poesie, le recitavano l’un l’altra al telefono, scambiandosi così l’incoraggiante miracolo della parola.Per noialtri, durante il nostro lockdown, le arti sono state letteralmente un’ancora di salvezza. Online c’è stato un traboccare d’arte; nonostante le restrizioni si poteva comunque assistere a una produzione del National Theatre, o ascoltare Patrick Stewart (il mio capitano dell’Enterprise di Star Trek preferito), leggere un sonetto di Shakespeare, o ammirare un balletto su Zoom.
Tutto ciò è stato di conforto, gioia, nutrimento, e -letteralmente- ha permesso alle persone di restare sane di mente.
In questo paese soltanto, prima della pandemia l’industria dell’arte valeva qualcosa come 117 miliardi di sterline l’anno, circa 13 milioni all’ora. La pesca, che sembra stare così a cuore al governo, vale 1,4 miliardi l’anno. Chi non vorrebbe sostenere un settore così vibrante, che tanto arricchisce chi ne fruisce? Sicuramente le arti hanno subito un gravissimo impatto, durante la pandemia. Non posso dirvi quanto mi ferisca vedere i teatri chiusi, i festival rimandati, i locali dove si fa musica che abbassano la saracinesca. Le arti sono l’anima, e mi verrebbe da dire anche la coscienza, di un paese, ma proprio mentre vi scrivo hanno cominciato a uscire nuovi annunci promozionali del governo. In uno compare Fatima, ballerina, intenta ad allacciarsi con grazia le scarpette da ballo, completa di tutù e fascia per i capelli. Un’immagine di gran gusto, in bianco e nero. Ci si aspetterebbe che sia l’annuncio di un imminente spettacolo, magari online; ma poi si legge il testo che l’accompagna: “Re-impara, ri-formati, riparti”. Si scopre così che si tratta del suggerimento, a Fatima, di dedicarsi a perseguire una carriera nella cyber-security. Una cosa da gelare il sangue, che è stata accolta da una tale ondata di indignazione che persino il ministro della cultura Oliver Dowden ha definito “volgare” l’utilizzo dell’immagine della ballerina in questi manifesti.
La reazione negativa è stata tale che, appena tre ore dopo il lancio dell’immagine, queste pubblicità sono state rimosse. Si trattava di annunci del governo per tentare di spingere le persone a ri-qualificarsi, ma il tema è particolarmente delicato per un settore che lotta per la sopravvivenza. Appena pochi giorni prima, il cancelliere dello scacchiere [ministro delle finanze] Rishi Sunak, aveva proposto che gli artisti, e intendo la parola nel senso più ampio del termine, avrebbero fatto bene ad aggiornarsi per essere pronti a svolgere altri lavori. Questo dimostra quanto poco egli si curi di questo settore che è meraviglioso, ricco e dinamico, veramente ai primi posti nel mondo. Quanti sono gli scrittori che insegnano? Quanti gli attori che tengono a galla il settore dell’ospitalità? Quanti operatori dell’arte visiva lavorano nell'assistenza alle persone? Se si vuole vivere la vita dell’artista, spesso bisogna sostenere un doppio, a volte triplo, carico di lavoro.
Non ho mai conosciuto altre tipologie di lavoratori che si diano tanto da fare per così poco. Gli operatori dell’arte sono stati particolarmente colpiti, proprio perché molti di loro sono lavoratori autonomi e freelance e svolgono ruoli marginali in questa economia precaria. Ma non c'è solo questo: per loro, quel lavoro è la vita stessa, e qualunque sia la loro arte non possono semplicemente accantonarla perché sarebbe un po' come smettere di respirare.
Ovviamente c'è gratitudine per i sussidi varati dal governo a sostegno di teatri, musei, ecc. Ma il fatto che non si riconosca il valore culturale ed emotivo delle arti ricade in una linea di faglia che ha sempre attraversato l’Inghilterra e, forse, è il pericoloso segnale della direzione che la nostra cultura politica sta facendo prendere al nostro paese.
Le arti riflettono lo stato dell’anima di un paese. Lo scrittore francese André Murois ha affermato che “l’Arte è lo sforzo di creare, al fianco del mondo reale, un mondo più umano”. Le arti impegnate ad interrogare, esaminare, esplorare al fine di esprimere le nostre verità più intime sono indubbiamente considerate una cattiva compagnia da questa nostra cultura politica sempre più semplicistica, nazionalista e populista. E perché mai il governo dovrebbe capire? Perché dovrebbe volerlo? Ma cosa succede se non ce ne importa nulla, se spazziamo via le nostre arti e i nostri artisti? Guardate l’Ungheria...
Sono giorni cupi. Non so descrivere quanto le persone qui siano depresse. Persone qualunque, arrabbiate e confuse. La gente va nei supermercati a comprare tacchini surgelati per un Natale che nemmeno sanno se potranno celebrare. I più anziani sono terrorizzati all’idea di dover tornare a rinchiudersi da soli in casa. La salute mentale di tutti noi ne patisce. Gli insegnanti vivono con sempre più stress, ora che i casi vanno aumentando proprio nelle scuole. Siamo in caduta libera, e ancora non abbiamo visto gli esiti della Brexit. Il fatto è che manca la fiducia. A questo ci hanno portato Boris Johnson e Dominic Cummings.
Sono giorni cupi, ma, almeno per ora, al di là dell’ansia generalizzata, della mancanza di denaro, di lavoro, della paura del virus, accadono momenti che costituiscono una merce preziosa, piccoli atti di umanità cui assistiamo ogni giorno. All'inizio di questa settimana, mentre passeggiavo in campagna, mi sono imbattuta in un pascolo di pecore che, tutte contente, brucavano l’erba autunnale. Un vecchietto passeggiava su e giù suonando la cornamusa per loro. A quanto pare va lì tre-quattro volte la settimana per esercitarsi. Ecco, poter ascoltare Scotland the Brave risuonare in quei campi è stato un vero dono. Ho sentito un'amica che è riuscita a vegliare fino alla fine la nonna ricoverata in una casa di cura. Oma aveva 102 anni, aveva vissuto due guerre mondiali e un secolo di veloci cambiamenti. Il fatto che la mia amica abbia potuto trascorrere con lei quell'ultima notte è stato un altro dono. E poi ascolto il poeta Linton Kwesi Johnson, giunto alle arti dopo essere stato attivista politico, che ha ricevuto il premio International Pen/Pinter. La nostra percezione del tempo sta cambiando. Non guardiamo più al lungo periodo, nemmeno riusciamo a immaginare il prossimo Natale. Viviamo giorno per giorno, perché questo è diventato il nostro orizzonte.
(traduzione a cura di Stefano Ignone)
Giorni cupi
lettere da...

Una Città n° 269 / 2020 ottobre
Articolo di Belona Greenwood
Tradotto da Stefano Ignone
Giorni cupi
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Dove sono finiti tutti quanti?
Una Città n° 279 / 2021 novembre
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La gentilezza è invincibile
Una Città n° 282 / 2022 marzo
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Una Città n° 280 / 2021 dicembre 2021-gennaio 2022
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Il giubileo
Una Città n° 283 / 2022 aprile
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a un certo punto dei tardi anni Ottanta ho incontrato un signore anziano che frequentava il mio stesso pub a South London. Avrà avuto circa ottant’anni, e per la maggior parte della vita aveva servito nell’esercito. Non ave...
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