Nell’autunno del 1972 a Varsavia, dopo il ritorno dal primo viaggio in Italia, scrissi un saggio su Nicola Chiaromonte. Che cosa mi aveva incuriosito nel suo atteggiamento? Mi era sembrato diverso dalla maggior parte degli autori interessati alla problematica dei diritti e dei doveri dell’individuo nei confronti della collettività da me conosciuti. Intravidi nel suo modo di pensare qualcosa al contempo personale e antidogmatico. L’incontro con i suoi testi si accompagnava alla voglia della conversazione, come se parlasse proprio a me, di cose importanti e di solito sottaciute.
All’epoca non sapevo quanto avessi colto nel segno: il mio conoscere Chiaromonte, la scoperta della sua opera dura ormai da trent’anni; la conversazione con lui non è finita, siamo ancora lontani da una conclusione. Vorrei raccontare il mio conoscere Chiaromonte; cosa avevo letto allora, nel 1972, a Roma e a Varsavia, come ero capitato tra le sue parole, perché la conversazione sia durata nel tempo e come sia proseguita. Il saggio su Chiaromonte del 1972, l’anno della sua morte, presentava il profilo dell’umanista sovrano, che non si lascia ingabbiare nella definizione di “pensatore politico”, perché è interessato all’uomo nella sua pienezza; un pensatore che non si lascia racchiudere in schemi ideologici, ma per il quale i legami dell’individuo con la polis rappresentano il soggetto costante della riflessione. Chiaromonte mi interessava in quanto autore di Credere e non credere, così si intitolava in italiano il volume delle sue riflessioni sull’individuo impigliato nella tempesta della storia. Io preferisco tuttavia il titolo dell’edizione inglese The Paradox of History. In questo volume, l’unico allora pubblicato oltre a La situazione drammatica (raccolta di recensioni e articoli teatrali), l’autore non si rivela del tutto, ci parla come per interposta persona, attraverso l’analisi delle situazioni morali, politiche, esistenziali che appaiono sulle pagine di Stendhal (Fabrizio del Dongo a Waterloo), Tolstoj (Il principe Andrej e il principe Bagration ad Austerlitz), Roger Martin du Gard (Antoine e Jacques Thibault), Malraux (La condizione umana), Pasternak (Il dottor Zivago). Ma mi interessava soprattutto il personaggio Chiaromonte, le sue scelte, le sue riflessioni. Apprezzavo la distanza che metteva tra il trambusto della modernità, la disputa odierna, il linguaggio di oggi sottoposto all’atrofia ideologica e il proprio pensiero. Volevo, tuttavia, ascoltare le sue esperienze personali. Notai una visione più soggettiva di Chiaromonte nelle pagine del saggio Sul fascismo. Il testo mi sorprese per la sua perspicacia intellettuale. Scritto prima della guerra, a Parigi, parla della concreta situazione politica della metà degli anni ’30. Le sue riflessioni mi diventarono utili per la comprensione della situazione polacca negli anni ’70 e, ancora oggi, nei primi anni del XXI secolo, i ragionamenti del giovane italiano di settant’anni fa rimangono vivi e illuminanti. Vi si fa strada l’abilità di Chiaromonte, capace di afferrare la realtà sotto le maschere di attuali o anacronistici costumi. L’autore descrive la nascita della coscienza antifascista, la propria coscienza.
Al principio, confessa, si trattava di un semplice riflesso morale, reazione della coscienza, nella quale l’elemento politico si limitava alla convinzione che di fronte a certi fenomeni si può essere solo contro. A questi fenomeni appartiene l’uso ideologico della forza. Chiaromonte analizza, poi, la semantica totalitaria. Il fascismo rappresenta il tentativo di separazione delle parole dalla realtà. Sottopone il linguaggio al controllo ideologico. Le parole non significano più quello che significavano, ma ciò che richiede la linea del partito; la polizia politica impone il senso, l’ambito della comprensione tra gli uomini. Chiaromonte, nelle sue riflessioni sul fascismo, centra l’attenzione sulle ambizioni logocratiche dei sistemi totalitari. In seguito, altri si occuperanno di questo aspetto, del potere sulle parole quale condizione di assoluto dominio delle menti e dei cuori: George Orwell in 1984 illustrerà l’azione del nuovo linguaggio; Victor Klemperer dedicherà alla questione mirabili analisi in LTI, Lingua Tertii Imperi (La Lingua del Terzo Reich), annotazioni del filologo marchiato con la stella di Davide, che sopravvisse nella Germania nazista e che come unica arma di difesa aveva l’osservazione della struttura della lingua ufficiale per smascherare ...[continua]

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