Poche settimane fa, verso la metà di marzo, circolava sul web una lettera attribuita a “una ragazza italiana”, poi al testo venne aggiunto un audio, poi ancora un video, alla fine si scoprì che era stato scritto da un signore che abita a Ovada. Il messaggio aveva poi proseguito la corsa sulla rete, replicandosi a ogni contatto, proprio come un virus. Il caso non sarebbe rilevante se non fosse il segnale di un sentimento diffuso tra gli abitanti della penisola che le vicende legate al contagio del Covid-19 hanno fatto riemergere in superficie. Il testo è piuttosto lungo e chi vuole può andare a cercarselo sul web, ma vale la pena riassumerlo in poche righe, citandone qualche passaggio.
L’autore se la prende con i potenti di tutto il mondo, rivolgendosi per primi polemicamente al Sig. Macron e alla Sig.ra Merkel (poi in pagina due, verranno anche i sig. Trump e il sig. Johnson) “colpevoli di averci abbandonato nel momento del bisogno (…) per averci negato l’acquisto delle mascherine e di altri presidi medici”. Gli italiani, si assicura, le avrebbero pagate. L’autore lamenta la scarsa considerazione che gli italiani godono nel resto d’Europa e del mondo, un’Europa e un mondo che non riconoscono che le origini della loro civiltà vengono proprio dal nostro paese. Segna così una linea di continuità tra latinità e italianità, attribuendo a questa entità il merito di aver tracciato la rete viaria, inventato e diffuso l’alfabeto, creato il diritto e fondato l’organizzazione dello stato.
Si attribuisce ai popoli di cui Macron e Merkel sono gli eredi (evidentemente quelli che nei libri di scuola si chiamavano, e forse si chiamano ancora, gli invasori barbarici) la caduta nel Medioevo, caduta dalla quale gli italiani hanno saputo risollevarsi con i tesori dell’arte rinascimentale ammirati nei musei di tutto il mondo. Vengono poi elencati alla rinfusa i “grandi italiani”, delle arti e della scienza per finire con le eccellenze della cucina italiana, anch’essa apprezzata in tutto il mondo, non meno dell’arte e forse anche di più. Dopo l’esaltazione delle nostre glorie, il messaggio si chiude con: “Il vostro egoismo [di Merkel e Macron] ha dato la misura di quanto poco siate”. Insomma, il messaggio è che gli “altri” dovrebbero inginocchiarsi davanti a “noi” e prestarci (o ancora meglio, regalarci) tutti i denari di cui abbiamo bisogno per venir fuori da una situazione di crisi per la quale non abbiamo nessuna responsabilità.
Ho preso questo esempio, ma sul web se ne trovano molti altri, più o meno rozzi, più o meno raffinati. Ad esempio, ha circolato su Whatsapp anche un video di Tullio Solenghi, un attore di valore che anch’io ho ammirato e ammiro, che se la prende con “loro”, nel suo caso i “tedeschi” esprimendo un disprezzo, anzi, un vero odio viscerale contro un intero popolo al quale si attribuiscono le peggiori nefandezze della storia. Sulla rete ha suscitato cori di consenso (ma, per fortuna, anche qualche voce di dissenso). Mi spiace per Solenghi, anche perché vive e opera nella mia città di adozione. Io prenderei il suo video e lo proietterei nelle scuole, per far vedere ai ragazzi e alle ragazze come anche persone colte e raffinate possano regredire quando smettono di ragionare e si affidano agli istinti primitivi.
Questa regressione nazionalistica non è solo un sentimento diffuso in ampi strati della popolazione in modo del tutto trasversale agli schieramenti politici e alle classi e ai ceti sociali. Colpisce anche ambienti di intellettuali e studiosi seri. Gli esempi purtroppo abbondano anche sulle pagine dei giornali. Ho scelto due esempi. Il primo è di Ernesto Galli della Loggia, noto storico e opinionista che sul Corriere delle Sera del 16 marzo scorso scrive:
“La verità è che l’attuale epidemia sta rivelando in modo esplosivo ciò che ogni persona non imbevuta di fantasticherie ideologiche ha sempre saputo. E cioè che quando arrivano i tempi in cui è questione di vita o di morte (mai espressione fu più appropriata) allora conta davvero chi parla la tua stessa lingua e condivide il tuo passato, chi ha familiarità con i tuoi luoghi e ne conosce il sapore e il senso, chi canta le tue stesse canzoni e usa le tue medesime imprecazioni. Che solo da quello puoi aspettarti (e anche esigere, non chiedere, esigere!) un aiuto generoso e immediato. Non si chiama sciovinismo. Si chiama nazione, collettività nazionale, sentimento di appartenenza a essa, e insieme allo Stato che quella collettività tanto tempo fa si è data. Cose che possono restare a lungo nascoste ma che vengono poi fuori a un tratto, all’improvviso: quando è necessario trovare un posto letto con un respiratore, schierare un gruppo di soldati sulle strade, o magari mandare semplicemente un aereo a recuperare qualcuno all’altro capo del mondo e né Lufthansa né Ryanair rispondono al telefono”.
L’altro esempio è dell’onorevole Stefano Fassina, economista, laureato alla Bocconi, già viceministro nel governo Letta, esule dal Pd verso Leu e ora non so bene a quale sinistra appartenga. In un articolo per l’Huffington Post del 29 marzo scrive:
“Siamo a un bivio storico. Vengono al pettine i nodi dell’Unione europea, rimossi dal romanticismo sugli Stati Uniti d’Europa o nascosti dietro un velo di ipocrisia per preservare un efficacissimo impianto di disciplina e svalutazione del lavoro. Il popolo europeo sognato dai federalisti non esiste. Il popolo è nazione: è segnato da una Storia, da una religione, da una cultura, da una lingua. La solidarietà fiscale, ossia la redistribuzione di risorse, funzione fondativa delle democrazie moderne, si alimenta del vissuto condiviso dentro confini tracciati con il sangue. È triste. Ma è così”.
Leggendo le rassegne della stampa europea di questo ultimo mese troviamo echi simili. Di fatto siamo di fronte alla celebrazione del funerale dell’Unione europea, senza cerimonie solenni perché siamo tutti in quarantena.
A questo punto la domanda alla quale cercare di rispondere è se l’idea degli Stati Uniti d’Europa, sorta dalle macerie della II guerra mondiale, potrà rinascere quando saranno seppelliti tutti i morti provocati dall’epidemia del Covid-19.
Per rispondere a questa domanda dobbiamo però farne un’altra: perché l’idea di nazione che sembrava, almeno in Europa, destinata a un lento declino, o perlomeno essersi assopita, si è improvvisamente risvegliata ? Ne abbiamo annunciata troppo prematuramente la scomparsa? Mi ritorna scolpita nella mente una frase di Luigi Einaudi, non mi ricordo scritta quando e dove: “Gli stati nazionali sono ormai polvere senza sostanza”. Si era sbagliato. Gli stati nazionali esistono ancora e, anzi, mostrano una straordinaria resilienza e l’idea di nazione non è scomparsa proprio a causa della resilienza degli stati nazionali.
A differenza di come la pensano Galli della Loggia e Fassina (ma anche molti altri) le nazioni non pre-esistono agli stati nazionali, ma ne sono una creazione. Certo, le vicende delle popolazioni umane hanno creato una grande differenziazione di dotazioni genetiche, di lingue, di culture, di fedi religiose. Ma questa variopinta geografia di culture (che fa tra l’altro è la ricchezza e la specificità dell’Europa) sono diventate politicamente rilevanti soltanto quando è comparsa sulla scena la democrazia moderna, quando si è incominciato a pensare che solo la volontà dei popoli fosse la fonte della legittimità del potere.
Prima di allora la legittimazione del potere aveva come fondamento la credenza che chi governava lo faceva per “grazia di Dio”. Il potere aveva un fondamento religioso. Sul rapporto tra religione e potere si sono scritti scaffali di libri. Ma qui mi basta sostenere che quando, sostanzialmente dopo la Rivoluzione francese, le masse hanno incominciato a rivendicare la loro volontà di scegliere in qualche modo coloro dai quali volevano essere governate, si è resa necessaria la sostituzione della legittimazione divina con un’altra credenza, non più divina ma mondana, si è costruita una religione laica civile, vale a dire l’idea di nazione.
La nazione, ce lo hanno spiegato filosofi e scienziati sociali è, nel senso proprio della parola, una “credenza” nell’esistenza di un’entità mitica di origini oscure e remote. Credenza in una discendenza comune e quindi “con lo stesso sangue” (mentre ormai sappiamo che siamo tutti “bastardi”, cioè discendenti da un miscuglio intrecciato di popolazioni prodotto dalle migrazioni). Credenza in una lingua comune (mentre, soprattutto noi italiani, l’abbiamo per lo più imparata da quando c’è la scuola pubblica e la televisione, prima parlavamo lingue simili ma anche diverse che oggi chiamiamo “dialetti”). Credenza in una storia comune (mentre se c’è qualcosa di diverso è proprio la storia delle nostre città e regioni, la storia comune è una storia breve, non ha più di 160 anni). A parte il fatto che tutte le eccellenze di cui noi italiani dovremmo andare orgogliosi, a partire dal paesaggio, o non sono merito nostro (il paesaggio caso mai lo abbiamo depredato), oppure appartengono per lo più a un’epoca in cui l’Italia non esisteva ancora, oppure vanno associate all’umanità nel suo complesso piuttosto che a una nazione.
Affermando che la nazione è una credenza religiosa, non voglio affatto sminuirne l’importanza. Le credenze non sono invenzioni arbitrarie, hanno una realtà fattuale, sono idee nella testa della gente che hanno un’influenza enorme sui loro atteggiamenti e comportamenti. Le idee sono dei fatti e poi devono avere qualche fondamento per essere credibili e credute. E, in epoca moderna, l’idea di nazione è legata alla democrazia.
La democrazia nasce e si sviluppa con gli stati nazionali: i diritti civili, politici e sociali, dalla libertà di stampa al welfare state, sono inconcepibili senza lo stato nazionale. Certo, la democrazia rischia anche di morire se rimane limitata agli stati nazionali, ma questi per il momento costituiscono ancora il quadro istituzionale entro il quale i cittadini avvertono di appartenere a una comunità che è tenuta insieme da un vincolo solidaristico. Il vincolo si rafforzava soprattutto nelle guerre, quando si doveva fronteggiare un “nemico”, quando si dovevano difendere i “sacri confini”. L’uso dell’aggettivo è significativo per sottolineare che si tratta proprio di una “religione” ancorché “civile”, che richiede al limite un “sacrificio” (altro termine religioso), anche quello della vita.
Questo vincolo, come sentimento di appartenenza, si è andato attenuando dal dopoguerra a oggi in gran parte dell’Europa occidentale (assai meno nell’Europa orientale), prima di tutto perché non ci sono state guerre, soprattutto con i vicini; nella dialettica “noi” vs “loro”, loro non sono più “nemici”, ma sono diventati “amici”, sia pure con una infinita gamma di distinguo.
Da un mese o poco più viviamo però in una condizione in cui un nemico c’è ed è invisibile, ma fa paura lo stesso, anzi, fa più paura di un esercito nemico che minaccia un’invasione. Oltretutto, è un nemico che minaccia di incrinare i rapporti sociali, sia con coloro che ci sono vicini (i familiari, i conviventi, i vicini di casa, i colleghi, …) sia con coloro che ci sono vicini ma non conosciamo. Se si incontra qualcuno per strada o in negozio, si evita addirittura di incrociare gli sguardi, con un po’ di senso di colpa; dobbiamo amare il prossimo, e se fosse contagioso? Insomma, il distanziamento e l’isolamento, disturbano le reti dei rapporti sociali anche se intensificano la comunicazione digitale/telematica.
Quando gli esseri umani sono attraversati da ondate di paure collettive si aggrappano a quel poco o tanto di solido rappresentato dalle istituzioni comuni; cresce la fiducia perché la gente avverte il bisogno di fidarsi e siccome le istituzioni internazionali sono remote, inefficaci e fragili, non restano che gli stati nazionali che più o meno bene cercano di fronteggiare l’emergenza, emettono delle norme alle quali la maggior parte delle persone si adegua spontaneamente e le fanno rispettare, se qualcuno le viola.
Già le turbolenze della globalizzazione avevano negli ultimi tempi (cioè da vari anni) creato una grande incertezza, il senso che lo stato nazionale stesse perdendo il controllo dell’ambiente geo-socio-politico che impatta sulla vita quotidiana presente e futura della popolazione, dai cambiamenti climatici al potere del capitale finanziario. Da qui, il riaffiorare del nazionalismo, come estremo, quasi disperato tentativo di aggrapparsi a qualcosa che un tempo era ritenuto solido. Non dobbiamo demonizzare la ripresa del nazionalismo, anche se dobbiamo combatterla come soluzione illusoria, fuori dal tempo, ma dobbiamo riconoscere che risponde a un bisogno di rassicurazione in un ambiente turbolento e in una congiuntura storica in cui il processo di globalizzazione ha assunto il volto di una minaccia incombente.
Di fronte a una minaccia incombente che penetra nel tessuto minuto della vita di ogni individuo e di ogni famiglia, come appunto un’epidemia come quella del Coronavirus, le uniche istituzioni alle quali si può fare appello per ottenere rassicurazione sono quelle dello stato nazionale. Di fronte al rischio pandemico siamo disposti a dare fiducia a chi pone delle norme, anche molto rigorose, per evitare il contagio; se si vuole assistenza sanitaria, se si chiede un aiuto perché si è perso il lavoro, se si vuole un sussidio per evitare il fallimento della propria azienda, non c’è che rivolgersi allo stato nazionale. Lo stato che c’è è quello nazionale, anche se nella situazione storica attuale si tratta comunque di uno stato a sovranità limitata, sia per la sua intrinseca debolezza, sia perché fa parte di un gruppo di stati che si è impegnato nel processo di costruzione dell’Unione europea, cioè di un’entità potenzialmente sovranazionale.
Gli stati nazionali europei hanno largamente rinunciato, di fatto se non di diritto, alla sovranità militare che un tempo era uno dei cardini della sovranità dello stato, hanno rinunciato al potere di battere moneta (un altro cardine della sovranità), in parte, più limitata, alla sovranità connessa all’amministrazione della giustizia (la Corte europea di Giustizia ha prerogative tutt’altro che irrilevanti), hanno in parte rinunciato anche al potere di produrre delle norme, hanno rinunciato con non poche incongruità a presidiare i confini interni e si sono dati il compito, in solido, senza peraltro assolverlo adeguatamente,di presidiare quelli esterni, hanno rinunciato anche a tanti altri ambiti in cui si esercitava la loro sovranità. Ma non hanno rinunciato alla prerogativa che è la più importante dello stato dalle origini: il potere fiscale, il potere di prelevare una parte della ricchezza prodotta all’interno del territorio per ridistribuirla in base a criteri di natura politica. Per dirla con le parole di un Presidente del Consiglio di tempi recenti, “il potere di mettere le mani nelle tasche dei cittadini”. Non c’è dubbio che, senza la creazione di un mercato comune, i cittadini degli stati membri sarebbero oggi assai meno benestanti di quanto non siano e, soprattutto, non c’è dubbio che senza una moneta comune il mercato unico sarebbe rimasto una chimera. Ma è anche ormai chiarissimo che una moneta non sostenuta da una fiscalità europea richiede garanzie nelle politiche di bilancio dei singoli stati (le cosiddette politiche di austerità) che alla lunga impediscono, ai paesi più indebitati, di perseguire politiche di sviluppo. Gli stati membri hanno fatto la moneta, ma hanno tenuto per sé i cordoni della borsa in modo da mantenere intatto il potere di distribuire la spesa pubblica e gestire il consenso politico.
Questo pezzo di sovranità, che, lo ripeto, è l’unico che conta veramente agli occhi dei cittadini, gli stati lo hanno conservato quasi del tutto intatto. Le risorse trasferite all’Ue, per gli stati e anche nella testa dei cittadini, sono un costo, soprattutto per quegli stati che nei trasferimenti verso l’Unione hanno un saldo negativo, pagano cioè di più di quanto ricevono. Gli altri stati, quelli che hanno un saldo positivo, sono invece i beneficiari di un (peraltro modesto) sistema di redistribuzione territoriale delle risorse.
Non entro nel merito della questione in termini di finanza pubblica. Mi interessa piuttosto riflettere sugli effetti di questo sistema sulla psicologia collettiva. Per i cittadini degli stati membri, contributori netti, l’Ue è un costo, è il costo della loro benevolenza nei confronti dei paesi che stanno peggio, i cui cittadini (oltre che i governi) dovrebbero essere riconoscenti. I cittadini (e i governi) che ricevono i benefici si sentono umiliati e accusano di arroganza i governi (e i cittadini) benefattori. Questo per dire che, al di là degli aspetti contabili, il sistema che si è instaurato per una parte della cittadinanza invece che evocare sentimenti solidaristici alimenta sentimenti nazionalistici, di superiorità/inferiorità. Se invece l’Unione potesse esercitare una propria, ancorché limitata, sovranità fiscale l’economia dei sentimenti di appartenenza sarebbe completamente diversa. In fondo, ci si sente parte di una collettività, in questo caso dell’Ue, se si paga una tassa europea non come cittadino di uno stato, ma come cittadino dell’Unione.
L’ormai famoso Esm/Mes (European Stability Mechanism) costituisce un meccanismo di solidarietà tra stati; una tassazione europea che producesse gli stessi risultati sul piano finanziario, vorrebbe dire una solidarietà tra cittadini di una medesima collettività. La controversia attuale in tema di finanziamento dell’emergenza epidemica tra coloro che sostengono il ricorso al Esm e coloro che vorrebbero istituire gli Eurobond ha importanti riflessi sui sentimenti di appartenenza.
Sul piano economico-finanziario, non ha molta importanza da dove proviene il denaro; di fronte alla gravità dell’emergenza, è importante che si trovino le risorse e presto. Sul piano simbolico però farebbe una differenza sostanziale. Nei termini del dibattito attuale, l’Ue è un ente che sottrae risorse allo stato contribuente netto e al contempo un ente che sottrae sovranità e orgoglio della propria dignità ai cittadini dello stato che riceve più di quanto contribuisce. Da un lato rafforza per gli uni, dall’altro umilia per gli altri, l’orgoglio nazionale. In entrambi i casi alimenta il nazionalismo. Un bilancio europeo costituito da risorse proprie dell’Unione, costruito intorno a tasse europee rafforzerebbe il senso di appartenenza comune. Sia chiaro, introdurre una forma leggera di tassazione europea (quale che sia la forma: carbon tax, border tax, Tobin tax, digital tax) non vuol dire aumentare la pressione fiscale, misura impossibile in tempi di restrizione generalizzata. Vuol dire ridurre proporzionalmente la tassazione degli stati nazionali in modo che quello che i contribuenti risparmiano da una parte (gli stati) possa essere trasferito all’altra (l’Unione). Qualora l’Unione disponesse di una propria autonomia finanziaria, potrebbe assai più agevolmente ricorrere ai mercati finanziari emettendo “buoni del tesoro europei”; che si chiamino Eurobond, Coronabond o Recovery Bond è, da questo punto di vista, indifferente.
Finché la solidarietà rimarrà un valore che predicano coloro che sperano di riceverne i benefici, finché si porrà in termini di rivendicazione di coloro che stanno peggio (ad esempio, gli italiani) nei confronti di coloro che stanno meglio (ad esempio, i tedeschi), invece che alimentare il sentimento di comune appartenenza europea, alimenterà sentimenti nazionalistici. Agli occhi di una parte dell’opinione pubblica dei paesi creditori sarà visto come un ennesimo atto di generosità nei confronti di paesi mal governati e di popoli poco virtuosi che non solo non saranno riconoscenti, ma penseranno di essere offesi nella loro dignità; agli occhi di parte dell’opinione pubblica dei paesi debitori saranno visti come espressione dell’egoismo dei paesi/popoli ricchi che vogliono umiliare i paesi/popoli poveri. Risultato: benzina sui nazionalismi degli uni e degli altri. Già sentiamo riaffiorare in Italia latenti sentimenti anti germanici che mettono insieme gli austriaci nemici del Risorgimento e i nazisti che hanno invaso il paese dopo l’8 settembre. E in Germania latenti sentimenti anti italiani, gli italiani che ci hanno tradito due volte, nel 1915 rompendo la Triplice e nel 1943 lasciandoci soli a fronteggiare gli alleati.
D’altra parte, non si può, per dirla nei termini rozzi del dibattito stile Bild Zeitung, chiedere ai contribuenti tedeschi di pagare i debiti fatti dallo stato italiano e che lo stato italiano ha accumulato per la sua incapacità di far pagare le tasse dovute a una parte cospicua dei suoi cittadini. È vero che il Presidente del Consiglio a nome di tutti gli italiani ha assicurato che i debiti pregressi sono un capitolo a parte e che il Tesoro li onorerà regolarmente alla loro scadenza. E di fatto, finora, lo stato italiano ha sempre restituito il capitale che gli è stato prestato con gli interessi. Però, data la instabilità dei governi nella nostra storia recente, la possibilità di cambiamenti repentini di maggioranze, è legittimo che la fiducia nel mantenimento delle promesse nel medio-lungo termine sia a dir poco incrinata. E poi, in fin dei conti, al politico tedesco di qualsiasi colore importa di più quello che pensa una buona parte dei suoi elettori i quali temono, come e più della peste, la mutualizzazione del debito, o, come dicono loro, la trasformazione dell’Ue in una Transferunion. In tempi normali anche la maggioranza degli italiani ha poca fiducia nel proprio governo, non possiamo pretendere che i tedeschi ne abbiano di più. Se ce la mettiamo tutta, forse, prima o poi, riusciremo anche a modificare i pregiudizi che i tedeschi nutrono nei confronti degli italiani e, viceversa, che gli italiani nutrono verso i tedeschi.
L’immagine pubblica dell’Ue ha raggiunto attualmente, soprattutto in Italia, livelli molto bassi in ampi strati della popolazione. L’emergenza del Coronavirus ha probabilmente contribuito ulteriormente ad allontanare una quota cospicua di cittadini europei dal sentirsi parte di un’aggregazione più ampia di popoli oltre che di stati. Molti si chiedono: che cosa ha fatto l’Europa per noi? Non si chiedono: che cosa era in grado di fare? In realtà la Bce, la Commissione, il Pe hanno fatto molto, ma l’informazione non ha raggiunto coloro che erano già convinti che, come ha detto il nostro campione Salvini, “l’Europa ha prodotto tanto fumo, parole, e niente arrosto, fatti”. Però, in fondo in fondo, l’opinione becera degli euroscettici un po’ di ragione ce l’ha. Con il 2% delle risorse della spesa pubblica degli stati membri (ovvero con poco meno dell’1% del Pil), l’Ue poteva solo spostare risorse dai fondi strutturali per il contenimento dei divari regionali su un nuovo fondo per far fronte all’emergenza provocata dalla pandemia, oppure istituire -come proposto dalla van der Leyden- un nuovo fondo per sussidi alla disoccupazione dovuta all’emergenza pandemica, oppure ancora ricorrere al famigerato Esm. Per fare di più non disponeva né delle competenze né delle risorse. A titolo comparativo, nel 2018 il bilancio dell’Ue è stato di 160 miliardi di euro; il bilancio della Francia per lo stesso anno è di 1.353 miliardi di euro e della Germania di 1.530 miliardi di euro. Si tratta quindi di un valore modesto relativo ai bilanci nazionali dei maggiori contributori.
In questi giorni il tema del futuro dell’Europa è all’ordine del giorno. Le posizioni di ogni paese e all’interno di ogni paese sono le più variegate. Tra i due estremi, da un lato i federalisti integrali e dall’altro i sovranisti intransigenti, si trovano “tante sfumature di grigio”. Lo spettro delle posizioni non è molto diverso da quello che si sarebbe potuto disegnare un paio di mesi fa, la crisi pandemica però genererà inevitabilmente una forte accelerazione per cui non sarà più facile temporeggiare, il tempo delle decisioni si avvicina. Di fronte all’urgenza sarà forte la tendenza all’interno di ogni stato di coloro che dicono “per salvarsi ognuno faccia per sé quello che può e quello che vuole”.
È il fronte dei sovranisti, anch’esso tuttavia differenziato. Da un lato ci sono i sovranisti dei paesi dell’Est: non si sognano di uscire dall’Ue o dall’euro (se sono entrati), ci restano perché confidano sul fatto che ancora per non poco tempo riceveranno di più di quello che verrà loro chiesto, hanno tutto da guadagnare purché l’Unione non intervenga nelle loro questioni interne. Sono i paesi del patto di Visegrad e il loro campione è Victor Orban. All’interno di questi paesi, soprattutto della Polonia, ci sono anche forti opposizioni democratiche ed europeiste, ma le idee nazionaliste sono fortemente radicate e hanno a che fare con la storia di difesa dell’autonomia nell’epoca in cui facevano parte dell’impero sovietico.
Se dovranno scegliere si schiereranno dalla parte della Germania che negli ultimi 30 anni ha investito molto per favorire il loro sviluppo e rafforzare la sua penetrazione nelle loro economie.
I tedeschi li rispettano perché tengono i conti in ordine. Poi vengono i sovranisti dei paesi forti del Nord, capitanati dalla Germania. E poi viene appunto la Germania, dove i sovranisti doc sono messi al bando, almeno fino a ora, ma dove è forte la convinzione che, quando scoppia la crisi, “da soli forse ce la facciamo, ma se dobbiamo sostenere gli stati deboli del Mezzogiorno rischiamo di andare a fondo anche noi”. Anche in Germania ci sono voci contrastanti, però, almeno finora, hanno prevalso i sovranisti mascherati da europeisti di facciata. L’Europa così com’è, a loro va bene. Possono egemonizzarla senza doversi assumere delle responsabilità comuni. Poi ci sono i sovranisti mediterranei di casa nostra con Matteo Salvini in testa ma anche con frange cospicue tra la sinistra, questi sperano di ottenere dei vantaggi pestando i pugni sul tavolo. Possono produrre guasti, alimentando i pregiudizi dei paesi nordici nei nostri confronti. Rischieremmo l’isolamento e, se i paesi mediterranei rimarranno soli, sprofonderanno nel loro (ovvero “nostrum”) mare.
In ogni paese, al fronte più o meno esplicitamente sovranista, si oppongono altre forze che però non riescono a fare massa critica. Anche il fronte pro-Unione è composito, come quello sovranista. È fatto di frammenti diversi e trasversali agli schieramenti politico-ideologici tradizionali, e però non si rassegna ad accompagnare l’Europa sul viale del tramonto, intravvede degli squarci di futuri possibili. Finora è stato perdente, perché non è stato in grado di intaccare, come abbiamo visto prima, l’unico vero solido pezzo di sovranità in mano agli stati nazionali, vale a dire, la sovranità fiscale.
Però nei momenti di crisi profonda e drammatica, come quella che vedremo in tutta Europa nei prossimi mesi, tutto può diventare possibile: il naufrago che rischia di annegare, se è fortunato di intravvedere un salvagente, tira fuori le sue ultime forze per aggrapparsi. Per chi, come chi scrive, non è un determinista, le crisi offrono alle collettività umane (e alle loro classi dirigenti) delle occasioni che poco prima apparivano impensabili. Credo che ci avviciniamo, a causa del Coronavirus, a ua fase di questo tipo. Potrebbe arrivare un momento in cui ci si rende conto che nessuno, nessuno stato, può salvarsi da solo. In quel momento è possibile il “grande balzo in avanti”, perché allora non si tratterà solo di salvare la pelle, ma si riuscirà a salvare la pelle se la volontà sarà accompagnata da una visione del futuro possibile. È qui che si gioca la vera partita: gli stati nazionali, per quanto grandi possano essere stati i loro meriti storici (così come grandi sono state le catastrofi che hanno provocato) non possono più sviluppare una visione del futuro, non hanno una promessa, possono solo ripiegarsi nostalgicamente su un passato irrevocabile.
I giornali hanno incominciato a pubblicare delle mappe del pianeta, tratte per lo più dal Johns Hopkins Center for Health Security di Baltimore, che illustrano la diffusione del Coronavirus negli stati di tutti i continenti. Confrontando la mappa aggiornata giorno per giorno nell’arco dell’ultimo mese (oggi è il 12 aprile) ci si rende drammaticamente conto che cosa vuol dire un’epidemia nell’epoca della globalizzazione. In un mondo di quasi otto miliardi di esseri umani dove la densità delle interazioni si è accresciuta in modo impressionante; non solo le informazioni, ma i capitali, le merci, gli uomini si spostano con una frequenza e una rapidità inaudita, creando così le condizioni favorevoli anche per la diffusione dei virus. A differenza delle epidemie del passato, la pandemia del coronavirus è la prima, e probabilmente non sarà l’ultima, che colpisce tutto il mondo quasi contemporaneamente. Ci sono ancora zone dell’Africa, dell’America meridionale e dell’Asia settentrionale dove ci sono per ora solo sporadici focolai. Ma l’Oms teme il peggio anche per queste zone.
Non sono tra coloro che imputano la globalizzazione al male assoluto della marcia trionfale del neo-liberismo. Il neo-liberismo ha certamente contribuito a produrre una serie di effetti indesiderati e indesiderabili del processo di globalizzazione che in sé può essere rallentato o accelerato, ma che è in larga misura e a lungo termine irreversibile. Può darsi che si stia entrando in una fase di de-globalizzazione che potrà durare qualche anno e forse anche di più, ma nell’era della comunicazione globale non è destinata a durare più a lungo. Il grande problema di fronte al quale si pongono oggi in tutto il mondo le persone responsabili non è quello di tornare indietro, ma di governare il processo, cercando di esaltarne le potenzialità positive e di ridurre gli effetti negativi. Spesso potenzialità positive e effetti negativi si presentano tra loro connessi; non si tratta di esaltare le prime e demonizzare i secondi.
Vorrei fare sinteticamente un ragionamento apparentemente molto semplice (in realtà assai complesso). Il mondo ha visto nell’ultimo secolo un aumento esponenziale della popolazione, un aumento dovuto essenzialmente alla penetrazione globale e capillare di alcune procedure igienico-sanitarie occidentali che hanno drasticamente ridotto la mortalità e in particolare la mortalità infantile. A seguito della riduzione della mortalità, anche la natalità è diminuita, sia pure molto più lentamente, prima in Europa, poi, a tassi diversi, nel resto del mondo. Ciò però ha garantito, nel medio periodo e nella parte Nord del mondo, la possibilità di riprodurre la popolazione senza impegnare gran parte della vita della parte femminile della popolazione in compiti riproduttivi. Quella che noi chiamiamo emancipazione femminile, o parità di genere, non sarebbe stata possibile senza la generalizzazione, sempre più su scala planetaria, dei portati della scienza medico-igienico-sanitaria della civiltà occidentale. La riduzione rapidissima della mortalità e la riduzione più lenta della natalità ha generato l’esplosione demografica e quindi il rischio che in molte parti del mondo si generasse uno squilibrio tra popolazione e risorse, prima di tutto, alimentari. In effetti la povertà a livello globale è dapprima aumentata, poi negli ultimi decenni si è nuovamente ridimensionata per la diffusione di forme più produttive di tecnologie agrarie.
Tutti questi processi non sono avvenuti in modo lineare, sono stati accompagnati da carestie, migrazioni di popoli, distruzione di ambienti naturali, epidemie, perdita di culture e di colture tradizionali e tanti altri fenomeni che eufemisticamente chiameremo “sgradevoli”. Oggi siamo di fronte a un pianeta inquinato, ai cambiamenti climatici, con rischi immensi per la salute di intere popolazioni, con l’esplosione delle disuguaglianze tra continenti, tra paesi e all’interno di ogni paese, con un terzo dell’umanità che gode di benessere e altri due terzi che riescono a mala pena a soddisfare i bisogni primari, per non parlare della competizione tra le grandi potenze, dello strapotere delle società multinazionali, dell’abnorme sviluppo della speculazione puramente finanziaria, del rischio permanente di scoppio di guerre locali e regionali e altro ancora.
Di fronte all’immensità dei benefici e dei rischi posti dalla globalizzazione, crediamo ancora che abbia senso pensare come prioritarie la tutela degli interessi nazionali e l’integrità delle culture nazionali? E pensiamo di poter affrontare da soli, come italiani-francesi-tedeschi e via di seguito, queste sfide poste dalla globalizzazione? Queste sono domande retoriche. Le sfide globali richiedono risposte globali. Anche l’Europa da sola, se fosse unita, non sarebbe in grado di farlo. Disunita resterebbe vittima del gioco delle grandi potenze, in particolare della Cina, della Russia e degli Stati Uniti, oppure i singoli stati finirebbero per diventare le pedine o i vassalli di uno di questi giocatori, riproducendo le loro antiche ostilità. Cosa che, peraltro, in questa fase in cui l’Europa stenta a trovare una risposta unitaria alla crisi virale, sta già in parte avvenendo.
Sfide globali richiederebbero, a rigor di logica, risposte globali. Ma quale è il soggetto che potrebbe assumersi questo compito? L’Onu certo, con tutta la buona volontà e nonostante alcuni suoi grandi meriti storici, non è certamente in grado di farlo. Non è il governo del mondo, è uno strumento nelle mani dei grandi ed ex-grandi del mondo, per regolare i loro rapporti, cercando di evitare troppo aperti conflitti. L’Onu serve per cercare di fare in modo che i conflitti non diventino delle guerre; serve per evitare il peggio, ma nel migliore dei casi può fare solo delle raccomandazioni. Un’Europa, che non fosse soltanto espressione di interessi nazionali ma si desse quel minimo di unità per potersi sedere al tavolo delle grandi potenze, avrebbe alcune carte da giocare per influire sulle decisioni di politica mondiale e co-determinare l’assetto futuro del mondo globalizzato. Per farlo però dovrebbe prima di tutto esistere e cioè trasformarsi da quello che è oggi, una debole confederazione di stati sovrani, in un’unione federale, una struttura “leggera”, ma autonoma dai singoli stati membri. Per intenderci un’Unione europea dove il Consiglio europeo non debba più decidere all’unanimità, una Commissione, come organo esecutivo, abbia capacità di iniziativa e anche di spesa e dove il Parlamento europeo sia sempre meno un’assemblea che esprime pareri e sempre più un’istituzione che vota leggi e assegna fiducia o sfiducia al governo costituito dalla Commissione.
La crisi scatenata dalla pandemia offre una “terribile occasione”. Certi passi si fanno solo quando è in gioco la sopravvivenza di una civiltà. Molto della civiltà europea è emigrato nel resto del mondo, nel bene e nel male. Anche lo stato nazionale e l’idea di nazione sono una invenzione europea esportata nel resto del mondo. La civiltà europea può avere ancora oggi una missione universale: può dimostrare a sestessa e al resto del mondo che è possibile superare l’istituzione stato-nazione creando istituzioni sovranazionali che garantiscano la diversità e specificità di ogni cultura e nello stesso tempo costruiscano un ordine cosmopolitico. E infatti è solo superando la dimensione stato-nazione che è possibile affrontare le grandi sfide di un mondo globalizzato.
Siamo tutti preoccupati dello scioglimento dei ghiacci polari e dell’innalzamento del livello dei mari, dell’abbattimento della foresta amazzonica, dei banchi di plastica che riempiono gli oceani, della riduzione della bio-diversità, dell’inquinamento prodotto dalla combustione dei fossili, della proliferazione delle armi nucleari, dello smaltimento dei rifiuti e ora anche delle epidemie che arrivano ovunque in tempi brevissimi. Sarebbe follia pensare di poter affrontare problemi di queste dimensioni ognuno per proprio conto con gli strumenti dello stato-nazione. Cresce la consapevolezza che i grandi benefici e le grandi miserie che la modernità capitalistica ha portato all’umanità si stanno avvicinando o hanno già ormai raggiunto un limite oltre il quale è necessario mettere in moto un grande processo di cambiamento.
In quali direzioni dovrà svilupparsi questo cambiamento è l’interrogativo al quale dovremo cercare di rispondere tutti insieme. Ormai conosciamo i guasti prodotti alle società umane dalle grandi ideologie del passato che promettevano la felicità attraverso la libertà dei mercati o la realizzazione del piano calato dall’alto. Dovremo cercare e sperimentare altri percorsi, senza lasciarci abbagliare da chi promette il paradiso in terra. Sostenibilità e riduzione delle disuguaglianze su scala planetaria sono e dovranno essere le parole d’ordine di chi guarda al futuro. Pensiamo veramente di poterlo affrontare se ci chiudiamo nelle nostre piccole patrie? Questo è il senso dell’Europa oggi in epoca di coronavirus: dire chiaro che si può andare oltre lo stato-nazione senza tradire o abbandonare le proprie patrie.
(12 aprile 2020)
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