Problemi gravi non affrontati
I problemi locali e mondiali, ecologici, sanitari, economici, si moltiplicano, si aggravano generano allarme. La politica e i commentatori politici maggiori non li affrontano però come problemi politici, che riguardano in misura diversa classi sociali e aree geografiche diverse, che dipendono da responsabilità diverse e hanno soluzioni possibili diverse, più o meno penalizzanti o vantaggiose per l’ambiente e per i vari gruppi di cittadini e perciò richiedono di scegliere. Li affrontano come se fossero fenomeni naturali, che non dipendono dalle scelte dei governi e dai comportamenti delle grandi aziende e di noi tutti.
Il riscaldamento globale
È forse il problema più grave che abbiamo. Lo trattiamo, di fatto se non a parole, come un fenomeno naturale, forse catastrofico, ma lento e fuori dalla nostra portata: una sventura che speriamo non ci tocchi direttamente. In realtà è un effetto dell’uso umano delle energie fossili e perciò può essere tendenzialmente ridotto riducendo i consumi. Dipende certo dai comportamenti di miliardi di persone, raggiungibili solo attraverso il dibattito pubblico e i mass media, per chi ne ha i mezzi, ma non è “oltre la difension d’i senni umani”. Infatti sono i comportamenti dei governi e dei Grandi Gruppi industriali e finanziari che hanno effetti rilevanti su cosa, come e quanto si produce, su come si trasportano le merci e gli uomini, e quindi sul consumo di energia e sul riscaldamento globale.
Non credo ci siano ricette facili. In generale è chiaro che l’uso di mezzi che consumano energia e inquinano per spostamenti non necessari sono da evitare, che andare a piedi consuma meno energia e tiene in buona salute, ma non andremo lontano invitando a fare meno giri in macchina e più jogging. Programmare la produzione anche dal punta di visto logistico, usando come criterio non solo il minimo costo per il capitalista, come certo si fa, ma anche il minimo consumo energetico globale, inclusi gli spostamenti dei lavoratori, potrebbe avere effetti misurabili. Anche se solo si formulasse il problema in termini realistici, anche solo per alcune produzioni, vorrebbe dire che cominciamo a prendere sul serio il riscaldamento del pianeta. Se non riusciamo neppure a ipotizzare chi dovrebbe fare o smettere di fare che cosa per consumare meno energia senza ridurre il benessere sociale e individuale delle persone interessate non stiamo affrontando sul serio il problema. Le condizioni dell’ambiente e le condizioni di salute prevalenti sono in rapporto diretto con la diffusione delle malattie, insieme ai comportamenti individuali. Dovremmo discuterne sempre mettendole in connessione, come sono nella realtà.
I sani e i malati, i vivi e i morti
È il campo che genera oggi un allarme mondiale per la scoperta e la diffusione del Coronavirus. È il campo in cui gli studiosi e medici italiani, in particolare torinesi, possono partire dai risultati culturali e pratici di chi li ha preceduti. Non si tratta solo della base istituzionale, tecnica, organizzativa, finanziaria, del Sistema sanitario nazionale, ma anche della eredità degli studi e degli interventi sui luoghi di lavoro, in collaborazione con i lavoratori.
Penso al lavoro, a Torino, negli anni Sessanta, di Ivar Oddone, partigiano, medico, studioso; di Giulio Maccacaro e Benedetto Terracini, medici ed epidemiologi, nelle fabbriche, insieme agli operai, e nelle università. Mi riferisco alla fondazione di Medicina Democratica, della rivista “Sapere”, di “Epidemiologia e prevenzione”.
Di Ivar Oddone sono stato amico e, senza competenze mediche, collaboratore, quando lavoravo all’Ires Cgil, ma, per descrivere il lavoro suo e dei suoi collaboratori durevoli, preferisco citare un brano di un’intervista ad “Ha Keillah” di Benedetto Terracini, che ho già nominato:
“La svolta decisiva avvenne intorno agli anni ’68: la lettura del libro di Don Milani, Lettera a una professoressa, inattesa e inaspettata, i soggiorni a Cogne nella casa di mio suocero Arturo Debenedetti e i contatti con la popolazione locale, allora arretrata di un secolo rispetto a quella che era la nostra realtà di rampolli rampanti della buona società, mi fecero entrare in una realtà sociale che fino a quel momento avevo ignorato. L’amicizia con medici attivi nella Camera del Lavoro come Sergio Abeatici e Ivar Oddone mi permisero di venire a conoscenza delle lotte dei lavoratori nell’ambito della salute. Nasceva in quegli anni in Fiat una strategia operaia della salute in fabbrica che riguardava il microclima, i ritmi di lavoro e l’ambiente chimico. Gli operai lottavano per diventare soggetti attivi nelle scelte che riguardavano la tutela della loro salute e si affermava il principio della “non delega”. Cominciarono in quegli anni le denunce di casi eclatanti di incidenza di malattie tumorali tra i lavoratori di alcune fabbriche. Il primo fu quello del l’Ipca (Industria Piemontese dei Colori di Anilina) di Cirié. Per intentare dei processi occorreva corredarli di perizie e fu così che diventai amico di due lavoratori dell’Ipca che per primi avevano sollevato il caso, Benito (Gino) Franza e Albino Stella: non avevano certo studiato a Harvard ma erano stati capaci di dimostrare l’esistenza di una epidemia di cancro. Conoscevo molto bene le sostanze che venivano usate nella fabbrica e la loro pericolosità, totalmente ignorata dalla direzione della fabbrica. Il processo si concluse nel 1977 con la condanna dei dirigenti e la vittoria delle vedove che avevano rifiutato di patteggiare. Gli avvocati di parte civile e io decidemmo di accettare quanto l’Ipca era stata condannata a pagarci, ma di utilizzarlo per creare una borsa di studio sui tumori professionali in Piemonte. A quel processo ne seguirono altri, come quello contro l’Acnadi Cengio e il più famoso che ha portato alla condanna il 13 febbraio 2012 dei vertici della Eternit per aver causato le malattie e le morti degli operai impiegati nello stabilimento di Casale Monferrato e di diversi abitanti della cittadina. Ero consulente della regione Piemonte che si è costituita parte civile.”
Anche per affrontare l’epidemia da coronavirus dovremmo usare il metodo e le risorse di allora, con le debite differenze. Qui l’epidemia è manifesta, ma il compito difficile è quello di informare tutti i cittadini, in particolare quelli che vivono nelle zone a rischio e i contagiati, dei rischi che corrono e di come evitarli. Sono state chiuse le scuole, per una settimana, ma, ovviamente, non le fabbriche. Le Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) hanno tra i loro compiti “sorvegliare la sicurezza e la salute dei lavoratori.”
Le misure prese per evitare contatti pericolosi, la chiusura delle scuole e dell’università per esempio, sono indispensabili, ma sono altrettanto importanti i comportamenti individuali, cosa fanno, dove vanno, chi frequentano i ragazzi che non sono a scuola: sono comportamenti che il Governo non può imporre e controllare. Sono importanti la collaborazione e la comunicazione tra gli operatori sanitari tecnicamente competenti e i cittadini, sani e malati. Ognuno deve sapere cosa fare per proteggere se stesso e gli altri ed essere convinto della possibilità e della necessità di farlo.
Malati, in atto e potenziali, e medici, anch’essi a rischio, devono essere pronti a collaborare e in grado di farlo, devono conoscere le condizioni di lavoro, le malattie che possono derivarne, la storia personale. Il sistema sanitario dovrebbe essere un luogo di collaborazione, come è stato per alcune situazioni di fabbrica mezzo secolo fa, e non uno sportello a cui si ricorre in caso di urgenza. La prevenzione è più efficace e dovrebbe essere più importante della cura. Nessuno può prevenire l’invecchiamento, il passare degli anni, ma la collaborazione tra medici e pazienti, insieme al sistema dell’informazione, ai sindacati e ai partiti politici, potrebbe diminuirne gli effetti negativi, potrebbe, sul piano sociale, diminuire l’inquinamento, controllare la qualità dei cibi, formare a comportamenti alimentari corretti, e su quello individuale conoscere tutte le patologie in formazione del paziente, prima che una, particolarmente grave, lo costringa a chiamare il medico.
Curare le bronchiti, le polmoniti, il cancro all’apparato respiratorio, senza intervenire sull’ambiente, è come curare un denutrito, che mangia poco e male, per i sintomi che ha, senza pensare a dargli da mangiare cibi sani e sufficienti. Non in tutti i sistemi sociali è facile, doveroso, curare i malati e seppellire i morti, ma bisogna cercare di farlo fino al limite, anche cambiando il sistema sociale, se necessario e dove è possibile. Non corriamo il rischio di pretendere troppo.
Fonti
http://checchi.economia.unimi.it/corsi/gennaro14.pdf
https://www.italianieuropei.it/it/italianieuropei-1-2020/item/4283-come-cambiano-le-preferenze-politiche-dei-lavoratori.html
https://skepticalscience.com/translation.php?a=18&l=17
http://www.hakeillah.com/3_14_13.htm
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