Nella diaspora degli ebrei, le preghiere per la pasqua ebraica e per lo Yom Kippur si concludono con l’invocazione: "L’anno prossimo a Gerusalemme”. È perlomeno dal quindicesimo secolo che queste parole esprimono l’utopistico auspicio di fare ritorno non semplicemente a una madrepatria, ma a un luogo di redenzione. Il carattere sacro di questo desiderio è stato offuscato dall’ipocrisia. Ma sappiamo che questo ormai fa parte del gioco: il Presidente Trump deve imbrattare tutto ciò che tocca. La sua decisione del 6 dicembre 2017 di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme ha ulteriormente aggravato il conflitto e minato la posizione degli Stati Uniti nel contesto globale. La frustrazione è così esplosa in rabbia. L’inquietante silenzio che circonda i già zoppicanti negoziati ha lasciato spazio a manifestazioni di protesta, minacce di nuova intifada e aggressioni militari israeliane che hanno già fatto quattro morti e trecento feriti. La dichiarazione di Trump non contemplava alcuna contropartita che potesse compensare i palestinesi. L’attenzione mediatica negli Stati Uniti, comunque, è durata solo per un paio di giorni, prima che Msnbc e Cnn tornassero a occuparsi di affari interni. Non è solo una questione di audience: non si può certo dire che gli abituali critici di Trump fossero troppo indignati dell’iniziativa. Ex diplomatici ed "esperti” di affari mediorientali hanno messo in discussione solo la "scelta dei tempi”, l’impatto sulle trattative, la mancanza di concessioni israeliane, aggiungedo che Trump non avrebbe dovuto rendere pubblica la sua decisione.
I negoziati sono a un punto morto; la posizione americana su questo argomento non è mai stata imparziale, e Israele non ha alcun impellente bisogno di concedere alcunché. I critici di Trump non hanno perso tempo a dimostrare il proprio buon senso. Il Segretario di Stato Rex Tillerson ha preso l’iniziativa: si è dapprima opposto alla dichiarazione di Trump, ma ha subito fatto notare che sarebbero problemi "logistici” a impedire ogni trasferimento entro il 2020, e che, peraltro, il Presidente stava semplicemente riconoscendo una situazione di fatto, che cioè la maggior parte degli uffici americani si trova già a Gerusalemme.
Tutto questo è, naturalmente, del tutto ipocrita. La politica simbolica è pur sempre politica. E Trump è riuscito a segnare un punto. Apparentemente, Il "Muro Occidentale” di Gerusalemme, che si erge al di fuori dei confini pre-1967, ed è attiguo a svariati luoghi sacri islamici, ora appartiene a Israele. Più di qualche sionista liberal avrà annuito soddisfatto e, di fatto, il leader della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer (Democratico dello Stato di New York) si è vantato di aver suggerito a Trump l’iniziativa su Gerusalemme. A differenza degli evangelisti cristiani, gli estremisti sionisti, e la maggioranza della comunità ebraica ortodossa, anche se magari non si sbilanciano troppo, certo non si fanno troppi problemi circa l’idea di una Gerusalemme unificata sotto il controllo israeliano.
La maggior parte degli americani è stufa di quello che appare come un’infinito conflitto israelo-palestinese, e in particolare dei palestinesi. La cinica decisione di Trump circa Gerusalemme fa appello proprio a questa realtà. Trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme dà al Presidente una momentanea tregua dalle minacciose indagini del Congresso che affliggono la sua amministrazione, dalle accuse di molestie sessuali e dalla controversia che circonda la sua -ampiamente impopolare- riforma fiscale. Gli fornisce altresì un "risultato”, una compensazione ottimale, dato il probabile fallimento del piano per la "definitiva” pace israelo-palestinese che sta formulando Jared Kushner.
I dettagli provengono solo dalle fughe di notizie, ma l’approccio dello staff guidato dal genero del Presidente si ridurrebbe a "prendere o lasciare”. A quanto pare, i palestinesi dovrebbero ricevere uno stato senza confini contigui, senza il controllo sullo spazio aereo né sui mari, senza il riconoscimento del diritto al ritorno, né alcun piano sul ritiro dei coloni israeliani che vivono in Cisgiordania. Hamas resterà esclusa, e Fatah diventerà l’unico rappresentante di Gaza, sulla quale però non ha alcun controllo. In parole povere: il pacchetto della pace di Kushner offrirà poco più della cornice degna di uno stato fallito, anche se, secondo quanto ha scritto il "New York Times” il 12 agosto del 2017, l’Arabia Saudita ...[continua]

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