Alexander Langer, impegnato da sempre per la convivenza interetnica e l’autonomismo democratico nel Sud-Tirolo, è stato promotore, con altri, del movimento verde italiano. E' stato europarlamentare per più legislature. Molti suoi scritti sono raccolti nel volume Il viaggiatore leggero, Sellerio.

Il ritorno a "radici" vere o presunte sembra essere il tratto distintivo di questi ultimi anni. E’ una reazione a una mondializzazione ormai indiscutibile?
A mio parere tra i due poli estremi, tra l’internazionalismo cosmopolita, fatto di inglese, bancomat, jet-set e computer e la celebrazione di radici, che può portare anche all’uso di un finto veneto, di un finto lombardo e via dicendo, c’è uno spazio molto ampio, tutto da esplorare. Gli esempi di questo tipo di spazio da esplorare sono molti. Basti pensare allo spazio del femminismo, uno spazio che si colloca tra l’accettazione di una società maschilista e la rivendicazione di un suo superamento, quindi di una obbligatoria ricostruzione sociale in chiave femminile; oppure pensiamo allo spazio che c’è fra due concezioni dello stato, quella laica, che lo vuol connotato non da valori, ma solo da regole formali, e quella che pensa a uno stato etico, religioso o areligioso che sia, con coercizione ai valori e organizzazione integralista sui valori.
Premesso ciò credo sia giusto avvertire in questo diffuso senso di perdita di radici e identità un grido di allarme. Non sono disposto a vedere, come accade da noi, tutto questo come una reazione antimodernista; io lo vedo soprattutto come un grido di allarme reale. Pensiamo all’estremo impoverimento della lingua che avviene attualmente. Me ne rendo conto partecipando a tantissime riunioni a livello europeo in cui, di fatto, la lingua dominante è l’inglese. Se io fossi inglese mi dispiacerebbe veder straziare la mia lingua da bocche tanto incompetenti, compresa la mia. In quelle sedi la ricchezza della lingua si perde nella necessaria compatibilità, si disperde.
Lo stesso vale per la bio-diversità. Recentemente una signora di oltre ottanta anni mi diceva della sua delusione per il fatto che noi non conosciamo più che tre o quattro specie di mele, mentre lei ne sapeva ancora elencare oltre trenta, comuni al tempo della sua giovinezza. Oggi si parla delle convenzioni per la salvaguardia della bio-diversità, ma in realtà si assiste ovunque allo stesso fenomeno. Ci si rende conto cioè, e relativamente tardi, che un patrimonio di diversità e di differenziazione sta scomparendo. Che se non si coltiva il terreno e non si piantano le piante adatte, che tengono fermo il terreno, quelle rischiano di andare giù. Poi si possono anche riportare su, ma solo artificialmente. Lo vediamo con le enormi scarpate lungo le autostrade: si può anche rimboschire, riportarvi il verde, ma si tratterà sempre di un verde artificiale. Così è per le identità etniche. Oggi assistiamo ad alcuni tentativi, anche riusciti, di rigenerazione di identità etnica, ma spesso si tratta di una rigenerazione attuata da una specie di banca del seme. Mi riferisco alle tre o quattro esperienze che abbiamo sotto gli occhi in Europa. Penso all’ebraico moderno, al gaelico in Irlanda, al greco moderno e al basco. Queste sono da sempre identità molto forti, in cui non c’è stata una perdita di contatto con le tradizioni, però il greco, per esempio, ha dovuto essere rianimato dopo essere stato quasi perso sotto strati molto forti dovuti alla dominazione turca, ai secoli di decadenza e degrado. L’ebraico moderno è, in un certo senso, addirittura una lingua da provetta, anche se si rifa ad una cultura antichissima. Una cultura in cui, non a caso, il rapporto di Israele con la diaspora diventa sempre più conflittuale, perché finché la cultura ebraica era solo quella della diaspora non importava in quale lingua fosse espressa, mentre oggi il patrimonio ebraico sempre più fa riferimento ad una lingua, ad uno Stato. Altrettanto vale per il gaelico, una lingua che ancora oggi non è usata. Per quanto ne so io, il gaelico nelle campagne esiste, come esiste il gallese delle campagne o lo scozzese delle campagne, però la civiltà urbana gli lascia poco spazio e il gaelico scolastico è un surgelato di quello che doveva essere in passato. Lo stesso succede per il basco. Una volta c’era addirittura la battuta che per imparare il gaelico o il basco bisognava andare in galera, così da avere il tempo e la possibilità di trovarsi nel posto giusto, dove la lingua era viva.
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