Franca Benini, pediatra intensivista, anestesista, è responsabile del Centro regionale di riferimento per la regione Veneto per la terapia del dolore, le cure palliative pediatriche e l’hospice pediatrico"Casa del Bambino” di Padova.

Lei da anni denuncia una banalizzazione del dolore in ambito pediatrico.
Il dolore è un problema vecchio come il mondo. Oggi il dolore è associato alla fragilità, alla paura, all’ansia, e quando si tratta di bambini non osiamo nemmeno nominarlo. Questo modo di approcciare il dolore, che è culturale, si associa a un’idea della medicina come scienza salvifica. Nonostante si parli tanto di qualità della vita e dell’assistenza, resiste l’idea che una medicina che non salva la vita ha poco valore.
Ecco allora che noi qui ci troviamo di fronte a due grossi problemi. Il primo è che parliamo di un argomento scomodo come il dolore, e il secondo è che parliamo del bambino. Messi assieme, questi due ingredienti fanno una bomba.
Il bambino che ha dolore, il bambino che soffre, innesca a livello sociale, ma anche professionale, una forte reazione emozionale, che però fa fatica a tradursi in un’azione adeguata. Eppure i numeri ci sono. La letteratura internazionale ci dice che l’80% dei bambini che si trovano in ambito ospedaliero hanno dolore; in alcuni setting (oncologia, reumatologia) si arriva al 100%. Sappiamo inoltre che è un sintomo pericoloso: cambia la prognosi, cambia la durata del ricovero, cambia tutto. Sappiamo infine che un dolore non curato nei primi tre anni di vita provoca un meccanismo di darwinismo, una modificazione strutturale e permanente del sistema nervoso centrale e periferico, provocando alterazioni di soglia di valutazione del dolore nei periodi successivi. Nonostante tutto questo, il dolore nel bambino resta un sintomo scontato.
Da una ricerca su più di trenta pronto soccorso pediatrici, è emerso come una valutazione adeguata del dolore venga fatta solo nell’8% dei bambini; la valutazione è poi seguita da un adeguato controllo nel 32% dei bambini. In generale, si stima che solo il 25% dei bambini italiani abbia un’opportuna misurazione e valutazione del dolore quando accede in ospedale e meno del 30% riceva una corretta terapia. Tutto questo nonostante il fatto che abbiamo a disposizione metodi e strategie per correggere il dolore nel 98% dei casi.
C’è anche il dolore provocato dalle indagini, dalle diagnosi. Questo è un dolore facilissimo da gestire perché lo determiniamo noi, lo provochiamo noi. Allo stato attuale potrebbe essere controllato nel 100% dei casi. Teniamo presente che il dolore che accompagna le procedure a volte angoscia più della patologia. Allora io dico: magari non si può cambiare il decorso della malattia, ma cambiare l’impatto di tutto quello che determina dolore all’interno della patologia è già un cambiamento enorme sulla qualità della vita di quel bambino e di quella famiglia. Se noi riusciamo a rassicurare i genitori che il loro bimbo non sentirà male, che si sveglierà tranquillo, la loro ansia si ridurrà e questo ritornerà a boomerang sulla qualità della vita del bambino. Questo è fattibilissimo.
Insomma, gli strumenti ci sono, è proprio un problema culturale: nella prima età della vita fino all’età pediatrica, ma forse anche nell’età adulta, il dolore non viene valutato degno di essere trattato. Perché? Perché il dolore è salvifico, il dolore non incide, il dolore è un sintomo sacro, serve a capire come vanno le cose, eccetera eccetera.
Come si misura il dolore dei bambini?
Allora, per capire se un bambino ha dolore, bisogna appunto misurarlo. Esistono dei metodi semplicissimi, che portano via qualche minuto. Il bambino più grande può partecipare direttamente alla definizione della quantità del proprio dolore. Al di sotto dei tre anni ci sono delle scale che permettono all’operatore di dare un punteggio valutando il viso, il movimento, il tono muscolare. Sono dei termometri del dolore. Come noi misuriamo la febbre, possiamo benissimo cercare di misurare il dolore. Se una mamma viene in ospedale dicendo che il figlio ha la febbre alta, accorriamo a controllare. Se arriva una mamma e dice: mio figlio ha dolore, il ricorso al termometro del dolore è molto più limitato.
Ma se non faccio una raccolta dei dati, non lo misuro, la mia terapia sarà banale.
Abbiamo un numero ancora molto alto di pazienti, sia a livello ospedaliero che territoriale, il cui dolore viene ban ...[continua]

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