Margherita Russo insegna presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Quella che segue è la relazione tenuta lo scorso dicembre al convegno "Bologna Futuro. Socialità, sviluppo, uguaglianza: il ‘modello emiliano’ alla sfida del XXI secolo”.

Discutere di quale sia oggi il "modello Emilia” comporta almeno due difficoltà. La prima sta nel delineare quali siano i caratteri di fondo del modello ancora oggi presenti nelle realtà emiliana, che si trova in una fase economica ancora segnata da forti instabilità.La seconda difficoltà sta nel tracciare un quadro efficace per discutere i caratteri essenziali di un modello: quali entità sono rilevanti in tale modello? Quali relazioni tra le entità che scegliamo di considerare nel modello? (Una ontologia la cui definizione diventa preliminare alla discussione di un modello).
Per far fronte a questa seconda difficoltà ho scelto di discutere una selezione di elementi chiave, che vorrei proporvi per esaminare alcuni caratteri di un modello di questa regione: per come ci appare oggi e per come era emerso all’attenzione del dibattito internazionale trenta anni fa. I temi su cui proporrò alcune riflessioni riguardano il nesso tra sviluppo locale, innovazione e istruzione, da un lato, e scala di azione delle politiche dall’altro.

Il "modello emilia” trent’anni dopo

Il modello Emilia entra nel lessico familiare non solo dei policy maker regionali, ma anche degli studiosi a livello internazionale, con un saggio, originariamente pubblicato da Sebastiano Brusco trenta anni fa.
Il "Modello Emilia: disintegrazione produttiva e integrazione sociale”, fu pubblicato nel 1980 da "Problemi della transizione”, una rivista fatta a Bologna che in quegli anni si occupava di cultura e politica.Il testo era stato concepito come script per una trasmissione della Rai "l’Italia che tiene”. Sebastiano Brusco vi aveva lavorato con l’obiettivo di mostrare in che modo "a fronte della situazione di crisi degli ultimi anni Settanta, alcune economie locali riuscissero a prosperare. E l’Emilia era una di queste aree”. La trasmissione non fu realizzata, ma Brusco procedette con la revisione di quello script che fu poi pubblicata.Quel saggio -poi ripubblicato nella prima raccolta di saggi di Brusco nel 1989- ci offre una lettura delle condizioni economiche e sociali che caratterizzavano la regione Emilia Romagna. Una lettura che viene da lontano, affonda nella tradizione di Karl Polanyi e che in Italia aveva segnato la lettura di sociologi come Arnaldo Bagnasco e Carlo Trigilia, o dell’economista Giacomo Becattini, che alla fine degli anni Settanta richiamò l’attenzione degli economisti italiani sulla nozione di distretto industriale.Il saggio di Brusco ebbe una gran fortuna. E questo avvenne dopo che fu pubblicato dal Cambridge Journal of Economics: è con quella traduzione del 1982, che il termine "emilian model” entra nel dibattito internazione sui modelli alternativi alla produzione di massa.Sebastiano Brusco proponeva una lettura del complesso intreccio tra percorsi professionali, mobilità sociale e struttura produttiva, istituzioni locali e associazioni di rappresentanza, relazioni tra imprese e relazioni nelle imprese. Disegnava il quadro di una regione che appariva caratterizzata da aree distrettuali monocolturali con una forte apertura alle esportazioni, una buona capacità di innovare, nella produzione ma anche nelle azioni di policy a livello locale.


Una lettura che veniva sostenuta da un vasto apparato teorico, da una numerosa serie di ricerche empiriche e dall’analisi comparata della struttura produttiva della regione con le altre regioni italiane.
La teoria della produzione che lì veniva utilizzata in modo originale analizzava economie di scala ed economie di integrazione verticale, non nella singola impresa, ma in una lettura congiunta della singola fase di lavorazione e del sistema di imprese nel suo complesso.
La piccola dimensione delle imprese, che caratterizzava la struttura industriale della regione, veniva interpretata con una chiave di lettura nuova: quella delle relazioni tra imprese. Una chiave che oggi è considerata la normale chiave di lettura di una struttura produttiva, mentre non dimentichiamo che trent’anni fa (ma in molti dibattiti di politica industriale anche oggi) l’efficienza dell’impresa veniva letta sulla base della sola dimensione in termini di addetti, a prescindere dell’intreccio di relazioni che consentono a un’impresa di avere un’e ...[continua]

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