Tra i miei ricordi di adolescenza alcuni si riferiscono a una società di mutuo soccorso costituita nel mio Comune nativo. Era un’associazione modesta e tuttavia florida, non solo perché contava molti iscritti, per lo più piccoli proprietari di terra e artigiani, e svolgeva una vivace attività ricreativa a carattere familiare, ma perché, anche in casi di evidente bisogno, incontrava seri ostacoli a distribuire dei sussidi. La maggiore difficoltà da vincere era la nativa fierezza, il nativo pudore che impediva a molti soci, colpiti da lunghe malattie o altre disgrazie, di chiedere l’aiuto al quale pure avevano diritto. Ricordo ancora una discussione tra alcuni dirigenti della mutua, ospiti della mia famiglia, sul modo più discreto di vincere la ritrosia dei bisognosi. Era lo stesso sentimento che si manifestò quando, alcuni giorni dopo il terremoto che nel 1915 devastò la Marsica, vedemmo arrivare soccorritori da molte parti d’Italia. Eravamo, sì, commossi, ma anche sorpresi per quel fatto nuovo, imprevisto e imprevedibile, dato che la tradizione tramandataci dai padri era che, in casi come quelli, i superstiti seppelliscono i loro morti e cercano di arrangiarsi. Era una dura tradizione che non merita affatto di essere rimpianta. Ma, in seguito al terremoto, al Genio Civile e ad altre disgrazie, quella contrada è poi diventata una delle terre d’elezione dello Stato assistenziale. E adesso, se dopo un acquazzone si forma una pozzanghera davanti all’abitazione di qualcuno, a lui non gli viene in mente di fare come suo padre, che prendeva una pala e in due o tre minuti eliminava la pozzanghera, ma scrive al suo deputato.
Ignazio Silone
("Tempo Presente”, n. 12, dicembre 1960)
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in memoria
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