Bolzano, 2 luglio
Bekir Halilovic: "A Srebrenica il tempo si è fermato: dopo il massacro dell’11 luglio 1995, si stenta ad accettare che siano trascorsi vent’anni. Noi di Adopt ci siamo dati il compito di ristabilire legami di fiducia, ma è un processo molto lento. Fra le altre nostre iniziative stiamo costruendo un Centro di documentazione per far rivivere i ricordi di quando anche la nostra era una bella città. Non mi illudo che il futuro sarà come prima della guerra, ma meglio di oggi senz’altro”. Nevena Medic: "Vogliamo dimostrare che anche da noi tutto è possibile. Cerchiamo nuovi modi di vivere insieme, ma non è facile. La società non è aperta al dialogo”. Queste parole risuonano al Centro Trevi, di fronte a una platea attenta. La Fondazione Langer ha appena presentato il gruppo di giovani cui ha assegnato il premio di quest’anno. Il suo nome è Adopt appunto e ha sede a Srebrenica, in Bosnia: dal 2005 opera faticosamente per restituire un’anima al luogo dove l’Europa ha visto risorgere dopo cinquant’anni i suoi demoni più oscuri. L’incontro è il primo momento di un lungo percorso di memoria rivolto al presente, organizzato per ricordare i vent’anni dalla scomparsa di Alexander Langer e dal genocidio che ha marchiato gli ultimi giorni della guerra in ex-Jugoslavia: due storie di dolore compiutesi a pochi giorni di distanza, ma senza relazioni dirette fra loro. Un rapporto può invece essere cercato oggi, in positivo: fra gli infaticabili sforzi di Langer per la pace e la convivenza anche nei momenti peggiori della guerra nei Balcani, e l’esperienza di Adopt, gruppo misto di serbi e bosgnacchi attivo oggi per contrastare il clima di divisione e di odio venutosi a creare a Srebrenica dopo il trauma di vent’anni fa. È sera, fa caldo. Il pullman si riempie. Altri saliranno a Venezia. Altri ancora ci raggiungeranno lungo il percorso. Il gruppo è composito. Ci sono i più anziani che di Langer hanno un ricordo diretto, c’è chi ha seguito le attività della Fondazione negli ultimi vent’anni, chi -alcuni sono molto giovani- ha deciso di aggiungersi nelle ultime settimane. Questa volta la consegna del premio e gli incontri di studio che l’accompagnano non si svolgeranno a Bolzano, ma come nel 2014 a Tuzla, Sarajevo e Srebrenica. Si vuole in tal modo ripercorrere le tracce del legame creatosi nei primi anni 90 fra la parte più attiva e solidale dell’Italia di allora e le sofferenze imposte dalla guerra oltre l’Adriatico, ma in una chiave tutta diversa. Oggi, fra le ragioni del viaggio, non sono le emozioni e la condivisione concreta del dolore a prevalere. C’è anche questo, ma contano soprattutto le domande sul futuro nostro e dell’Europa, così pressanti nell’attuale momento di incertezza e di disordine crescenti: domande cui anche la Bosnia, pur nella sua forzata marginalità, con i suoi traumi, le sue speranze e le sue frustrazioni, può offrire un contributo di chiarezza.

Tuzla, 3 luglio
Oggi il protagonista è Langer, nel giorno dell’anniversario. Sulla piazza principale di Tuzla il sindaco Jasmin Imamovic gli dedica una targa -amico di Tuzla viene definito- e un tiglio appena messo a dimora. È su una bordura rialzata e si vedrà da lontano. A un centinaio di metri c’è il monumento che ricorda i 71 ragazzi uccisi da una granata delle milizie serbe il 26 maggio 1995. Dopo quel massacro il sindaco di allora, Selim Beslagic, aveva implorato per l’ennesima volta l’intervento dell’Europa perché imponesse la fine del conflitto, e Langer -che amava quella città e la pace- si era fatto suo portavoce col presidente francese Chirac alla riunione del Consiglio europeo di Cannes, inutilmente.
Intanto, all’Hotel Tuzla cominciano gli incontri previsti, promossi in collaborazione dalla Fondazione Langer, dal Forum dei cittadini di Tuzla, da Tuzlanska Amica, l’associazione guidata da Irfanka Pasagic,  che dai primi anni 90 non ha mai cessato di sostenere donne e orfani colpiti dalla guerra. Gli interventi di avvio della conferenza, pronunciati dagli ospiti bosniaci, si richiamano ai valori che il conflitto ha calpestato e il dopoguerra non ha saputo ristabilire (il sindaco di Tuzla) e alla tradizione antifascista proposta come baluardo contro possibili ricadute nella violenza nazionalista (Vehid Sehic). Della figura di Langer vengono invece ricordati i tratti che ne fanno tuttora una presenza di rilievo: il contributo del suo pensiero alla enciclica ambientalista di papa Francesco, la sua vocazione nonviolenta sensibile però al dovere di prestare soccorso -anche attraverso un uso mirato e limitato della forza- alle vittime di un pericolo estremo, le idee sulla convivenza lungamente maturate dal suo Sudtirolo alla ex-Jugoslavia e divenute riferimento ineludibile per i giovani di Adopt a Srebrenica. Siamo solo alle prime battute di una discussione che vedrà confrontarsi fra loro punti di vista ed esperienze maturati in contesti anche molto lontani fra loro; tutto questo sotto il segno inevitabile della precarietà, vero tratto distintivo di un paese povero e trascurato quale è la Bosnia.
Al riguardo basta un piccolo episodio ad aprire gli occhi di tutti i presenti: improvvisamente alcuni in sala si alzano e si avviano preoccupati verso l’uscita; il lampadario sembra infatti muoversi pericolosamente. In realtà si tratta solo di un’impressione provocata dall’aria che agita le decorazioni malandate del soffitto, ma ci vuole poco a creare apprensione. D’altra parte siamo all’Hotel Tuzla, gloria alberghiera dell’era di Tito ora in piena decadenza, metafora di una Bosnia ricca di storia ma oggi quanto mai fragile e isolata nello stesso contesto balcanico.

Tuzla, 4 luglio
Il convegno entra nel vivo. Intervengono alcuni di coloro che insieme a Langer sono stati protagonisti del Verona Forum, durante la guerra luogo di incontro fra personalità della società civile radicate nei diversi territori della ex-Jugoslavia oramai divisa, e impegnate, malgrado tutto, a mantenere un tessuto di relazioni capaci di valicare i nuovi confini. Raccontano del passato e del presente misurandosi con altri, giovani e meno giovani, che lavorano per rimarginare le ferite rimaste nel dopoguerra. La discussione è ampia e difficile da riassumere. Per dare al lettore un’impressione d’insieme basterà proporne alcuni passaggi salienti.
Marijana Grandits, allora deputata della minoranza croata al Parlamento austriaco, ricorda quando nel ’92 era andata con Alex Langer in un campo vicino a Lubjana, a parlare con i primi profughi fuggiti dalla Bosnia: raccontavano storie che in quel momento sembravano incredibili, come le prime uccisioni, improvvise, senza ragione. E l’Europa rifiutava qualsiasi azione preventiva contro un conflitto che stava oramai precipitando sotto gli occhi di tutti. "Il male non è mai lontano da noi -commenterà poi in proposito Selim Beslagic-, ma se bussa alla tua porta è oramai troppo tardi”. Rada Gavrilovic, per molto tempo referente del Verona Forum a Bruxelles, parla invece delle conferenze telefoniche che contribuiva a organizzare fra le diverse città della ex-Jugoslavia in guerra, grazie alla rete del Parlamento europeo: "Allora era l’unico modo per comunicare. Alex parlava con tutti e smussava con cura tutte le asperità per garantire che il dialogo potesse proseguire. Era sempre angosciato dall’idea di non fare abbastanza”. Di lui Edi Rabini cita la proposta di trasformare almeno una parte del volontariato attivo nel sostegno ai popoli colpiti dalla guerra in un Corpo europeo civile di pace, riconosciuto e organizzato dall’Unione europea, per svolgere compiti civili di prevenzione, mitigazione e mediazione dei conflitti, attraverso un’opera di monitoraggio, dialogo, dispiegamento sul territorio; insomma, per stare nella guerra curando le necessità quotidiane delle persone in una prospettiva diversa, di pace e di ricostruzione degli spazi di dialogo nei dopoguerra.
Sempre Beslagic tiene a sottolineare che quando la Nato, dopo mille tentennamenti, decise di porre fine al conflitto con la forza, bastarono poche ore per sedare gli irriducibili: una lezione -sottolinea- da non dimenticare per il futuro. Sul dopo parla di "degradazioni” imposte alla Bosnia quasi peggiori della guerra: un sistema scolastico differenziato su base etnica, partiti politici diversi fra loro in ragione dello stesso criterio e non per le loro idee, una classe politica al potere trasformatasi in "un gruppo di interesse finanziario”.
Il discorso si apre poi in molte direzioni. Abdurahman Malkic, sindaco di Srebrenica subito dopo il genocidio, si interroga su come sia possibile raggiungere e mantenere un livello sostenibile di convivenza multiculturale anche in condizioni estreme come quelle della sua città: "Il rispetto dei diritti umani può voler dire lasciare all’altro la libertà di odiarti, a condizione che accetti di vivere insieme a te. Non devi condannarlo perché ti odia, ma solo se mette in pericolo la tua vita”. Igor Soltes, deputato europeo sloveno, presente al convegno insieme al croato Davor Škrles, spiega per parte sua come a Bruxelles sia difficile far votare a maggioranza risoluzioni impegnative: su Srebrenica non ci si è riusciti, mentre su questioni più generali e astratte il consenso è più facile da raggiungere; viceversa manifesta la speranza che i giovani provenienti dai diversi paesi della ex-Jugoslavia, oramai nelle condizioni di potersi muovere liberamente per l’Europa, possano fare massa critica e favorire un futuro migliore.
Una ragazza di Tuzla si mostra meno ottimista: "Mi sono chiesta a lungo se emigrare o rimanere. Ho deciso di restare per provare a cambiare il mio paese. Ma, mi chiedo, come è possibile realizzare quel cambiamento?”. Al riguardo in molti fra gli intervenuti ritengono che la chiave di volta stia nel superamento delle condizioni imposte a Dayton dagli accordi che hanno definito l’assetto del dopoguerra. Ma, se all’interno della Bosnia Erzegovina -sottolinea Paolo Bergamaschi, consigliere della commissione esteri del PE- pare mancare una spinta sufficiente a voler modificare quegli accordi, allo stesso modo non sembra esserci in Europa una reale volontà a fare pressione dall’esterno in quella medesima direzione. Questo, insieme alla decisione dell’Unione europea di rinviare il possibile ingresso della Bosnia almeno per i prossimi cinque anni. Di qui un senso profondo di frustrazione.
Non meno frustrante e dolorosa risulta essere la condizione della giustizia. Natasa Kandic, avvocata di Belgrado dell’Hlc, impegnata a fondo nella questione, traccia al riguardo un quadro d’insieme dei processi ai criminali di guerra. Dopo un certo numero di sentenze di condanna in primo grado, si va affermando in appello una tendenza alle assoluzioni, senza ulteriore possibilità di ricorso. Va peraltro ricordato che l’incardinamento dei processi si è svolto negli scorsi anni fra mille resistenze e con estrema lentezza; mentre oggi continuano a emergere altri crimini rimasti sinora sconosciuti. Difficili sono anche le condizioni dei mezzi di comunicazione, racconta Zlatko Dizdarevic, già direttore del quotidiano "Oslobodjenje” nella Sarajevo assediata. Essi sono in vario modo facile preda, come peraltro l’insieme della politica bosniaca, di pesanti interferenze internazionali: da parte della Russia, decisa a far valere i propri rapporti privilegiati con la Serbia e con la Repubblica Srpska di Bosnia, della Turchia e dell’Arabia Saudita determinate ognuna per la sua parte a fare da contrappeso a un’Europa poco presente e per nulla propositiva. Tutto ciò in presenza di reiterati tentativi di arruolamento nelle milizie dell’Isis e di un clima nel quale l’immobilismo e l’incertezza sono all’origine di un diffuso senso di impotenza.
Verso sera, una volta terminata la discussione, la platea del convegno si suddivide in gruppi, condotti ognuno da attori su vari percorsi nel centro cittadino. Alla guida un cavaliere e il suo scudiero che riescono ad animare piccoli cortei via via più numerosi. Fino alla grande piazza centrale di Tuzla, dove si forma un grande cerchio di pubblico e la rappresentazione ha inizio.
È da un mese che giovani di Srebrenica, diplomati e allievi dell’Accademia di teatro di Tuzla lavorano con Teatro Zappa di Bolzano alla realizzazione di un’opera teatrale ispirata al Don Chisciotte. Il tema è quello dei conflitti; come traccia per la discussione è stato scelto il testo "Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica” di Langer. Le discussioni sono state accese e produttive. La trama che ne è venuta racconta di un mondo diviso in due: gloriosi cavalieri, dediti ognuno alla propria alta missione, da una parte, e servi capaci e fedeli dell’altra.
Con il tempo matura però la rivolta dei più deboli che arrivano a fronteggiare con impensato coraggio i loro padroni. Al culmine del confronto accade l’imprevedibile. Uno dei cavalieri si pente e rinuncia al suo potere. Poi, via via, anche gli altri mettono in questione la propria missione e cercano nuove relazioni con i propri servi di prima.
Non è la storia di una rivoluzione, di un ribaltamento. L’iniziativa del cambiamento dipende tanto dai deboli quanto dai forti. L’effetto è spiazzante. Lo è stato sugli attori nel corso del loro lavoro di preparazione. Lo è per il pubblico, numerosissimo e plaudente: colpito oltre tutto da uno spettacolo recitato in due lingue, quella del luogo e l’italiano. Un segno di apertura, un buon segno.

Tuzla, 5 luglio
Il convegno prosegue; la mattinata è dedicata ai giovani. Del resto il gruppo di Adopt è formato proprio da giovani che, come i loro coetanei bosniaci, non hanno certo vita facile. La percentuale dei disoccupati è altissima e finisce per produrre, fra le numerose conseguenze, forme di dipendenza dall’estero a dir poco clamorose: ad esempio, in Germania c’è forte domanda di infermieri, ed ecco che il governo bosniaco si premura di creare nuove scuole per infermieri. Ma se il lavoro manca, c’è viceversa un sovrappiù di odio, quello prodotto dalla guerra e destinato a incancrenirsi in un dopoguerra che non è mai realmente cominciato. La società nel suo insieme -dicono alcuni- è tuttora fortemente traumatizzata; lo sono i genitori, gli insegnanti, i politici, tanto che il clima in cui i ragazzi fanno le loro prime prove è per forza di cose molto difficile.
Qui, per semplicità, può essere utile richiamare solo tre dei molti interventi succedutisi nella discussione. Il primo è di Branko Todorovic, del Comitato Helsinki per i diritti umani di Bijelina. Racconta che nei manuali di storia c’è il vuoto sulla guerra: a mala pena si dice quando è iniziata e quando è finita. Questo produce un vuoto ancora più grave nella testa dei ragazzi, che viene riempito in modo improvvisato e fazioso dai singoli insegnanti o dai genitori. Quel vuoto lascia spazio a pericolose manipolazioni che bisogna saper contrastare nel merito. Non si può lasciare i giovani senza passato, né tanto meno il passato può essere nascosto. Devono sapere che ognuno ha avuto esperienze diverse, perché solo così potranno imparare a rispettare le posizioni degli altri. E devono dunque conoscere direttamente quelle esperienze, incontrando i protagonisti della storia recente.
Il Comitato si rivolge a giovani di età diverse. Organizza campi di una trentina di ragazzi. Dopo una preparazione di due o tre giorni li pone in contatto con esperienze vissute. Todorovic cita fra le altre quella del bimbo che è rientrato in casa a prendere le ciabatte e fuori tutti gli altri membri della famiglia sono stati uccisi. I genitori sono in genere disponibili o non si oppongono, anche perché i ragazzi mostrano quasi sempre un forte interesse.
A volte si parte in pullman verso località non vicinissime per ascoltare racconti di prima mano dalla voce dei protagonisti. Spesso è presente uno psicologo. Viceversa il Ministero dell’istruzione non manifesta alcuna apertura. Solo il Cantone di Tuzla ha accettato la pubblicazione di un piccolo libro di storie. In Repubblica Srpska molte scuole rifiutano le proposte del Comitato, anche se oggi la situazione è in parte migliorata, perché da parte sua il Comitato ha imparato a evitare gli atteggiamenti troppo radicali di qualche tempo fa. Ora i suoi membri non esitano a parlare con tutti, a riconoscere chiunque sia disposto ad aiutare, a prendere atto che gli atteggiamenti possono mutare, che anche fra i criminali c’è chi è disposto a pentirsi.
È poi la volta del generale Divjak, in guerra a capo della difesa di Sarajevo assediata, dedicatosi poi all’associazione L’educazione costruisce la Bosnia, che ha attribuito sinora 5.000 borse di studio. Propone i risultati di un’indagine sui giovani dalla quale risaltano alcuni dati interessanti: prevarrebbero un forte attaccamento ai valori tradizionali fondati sul patriarcato, grazie anche alla diffusa tendenza dei figli -in gran parte obbligata- a rimanere a lungo in famiglia; la difficoltà ad accettare le differenze anche solo con i vicini di casa; un forte senso della dignità a scapito del valore attribuito alla libertà dell’individuo; una generale passività soprattutto nel rapporto con la politica. Non mancano peraltro i dati positivi: sulla capacità mostrata da molti ragazzi di affermare il proprio talento, sulla crescente disponibilità a far parte di organizzazioni sportive senza una specifica qualificazione etnica e altro ancora.
Emerge in ogni caso un quadro difficile e pieno di contraddizioni, di fronte al quale -dice Irfanka Pasagic- non va mai dimenticato che l’educazione è sempre luogo di sperimentazione, come lo è di necessità la Bosnia Erzegovina per le particolarità spesso inedite che la caratterizzano. Una cosa però non può essere trascurata. Il percorso che porta fuori dalla guerra è e resta un percorso doloroso. Solo parlando della guerra è possibile, dopo, sentirsi più leggeri. Non è dato vivere con un segreto in casa.
La parola passa infine ai membri di Adopt. Tocca per primo a Nemanja Zekic, presidente dell’associazione, cui è stato assegnato il premio Langer. I giovani -dice- si sentono spesso intrappolati fra futuro e passato, vogliono vivere ma si sentono impediti. Su di loro viene spesso esercitata da parti opposte una forte pressione, che li riporta a un passato di cui sanno poco e che proprio per questo è come se li trascinasse all’indietro. Tutti arrivano, lanciano i loro messaggi e se ne vanno. Ora però il gruppo di Adopt ha imparato a reagire attraverso la discussione al suo interno. La sua forza è di essere un gruppo misto costituito da serbi e bosgnacchi. Sempre più spesso alla fine le decisioni vengono prese all’unanimità. Come di recente, per quanto è accaduto alla moglie di un membro dell’associazione. Assunta all’asilo di Srebrenica, ha deciso di andare al lavoro con il capo coperto. Un gruppo di genitori ha firmato una lettera in cui si minacciava di ritirare i figli da scuola, giudicando quella maestra incapace di svolgere il proprio compito educativo. Adopt ha discusso della cosa e ha espresso un giudizio unanime contrario alla dichiarazione dei genitori.
A Tuzla hanno portato il loro spettacolo "Dimmi se mi ami” i Modus Danza di Siena. Sempre a Tuzla il convegno si è chiuso con un concerto dei Donatori di musica (Guido Arborelli, Giorgio Dellarolle, Natalia Benedetti, Chiara Parolo, Francesco Seri), che hanno coinvolto un folto gruppo di giovani musicisti dell’orchestra Balsika di Tuzla. Il pittore bosniaco Safet Zac ha messo a disposizione alcuni suoi quadri nella sala del convegno.

Sarajevo, 6 e 7 luglio
Quando si arriva a Sarajevo è la città a imporsi, ad aprire i suoi spazi nei quali è difficile non inoltrarsi. Ed è un bene. Si può capire meglio come sia possibile continuare a vivere, malgrado tutto e per il gusto di vivere. A Sarajevo è tempo di anniversari: cent’anni e qualcosa dall’inizio della Prima guerra mondiale, settant’anni dalla Liberazione, vent’anni da Srebrenica. Di tutto questo c’è ampia traccia in città, grazie a varie mostre più o meno impegnative. Sono tutti anniversari di guerre dure e sanguinose, ma per fortuna non sono il passato e la guerra a prevalere nella Sarajevo di oggi.
Se poi di quello si vuole parlare a ogni costo, per interesse specifico o per deformazione professionale, valgano a mo’ di viatico due immagini fra le tante. La prima è riportata sul manifesto di una mostra dedicata alla Prima guerra mondiale esposta nella madrasa sita di fronte alla grande moschea del centro. A prima vista sembra di avere sotto gli occhi il ritratto di una fanciulla. In realtà è la fotografia di un piccolo profugo dalla Turchia, un maschio, che, per ricordarle, ha voluto annodare alla propria capigliatura la treccia di una delle due sorelline morte di stenti.
La seconda si riferisce a un oggetto conservato presso il Museo di storia dove è offerta al pubblico una ricca collezione che illustra la realtà dell’assedio durante l’ultima guerra. Si tratta di un aggregato di parti metalliche trovate qua e là, chiamate a costituire un generatore di elettricità. L’assemblaggio durò parecchi mesi e fu seguito da tutto il quartiere nella speranza che un giorno il complesso marchingegno avrebbe dato la luce. Alla fine l’opera fu compiuta. Il motore cominciò a scoppiettare, ma dopo poco si fermò. Definitivamente.

Skocic, 8 luglio
Diretti a Srebrenica abbiamo lasciato da poco la riva della Drina, che segna il confine con la Serbia. Siamo nei luoghi delle incursioni dei paramilitari di Belgrado all’inizio della guerra. Ci fermiamo in un villaggio lungo la strada, un villaggio di Rom musulmani. Per una via sterrata arriviamo a una casa di tre piani, abbandonata. È stata costruita nel 1989 dal padre di Zijo Ribic che è con noi e ci fa da guida. Saliamo qualche gradino fra le ortiche ed entriamo. Ogni cosa è stata strappata via, compresi i fili elettrici. Vediamo la stanza in cui Zijo dormiva a 8 anni con le sue sei sorelle, il bagno non ancora finito e tutto il resto. Poi ci avviciniamo a un’altra abitazione con le finestre murate. È lì che la famiglia si ritrovò quel giorno del ’92: tutti insieme, con nonni, zii e nipoti.
I paramilitari serbi fecero uscire a forza tutti quanti, li allinearono nel cortile e si concessero stupri e violenze. Poi portarono tutti su un autocarro fino al luogo dove già avevano scavato una fossa. Lì fu compiuta la carneficina. Anche Zijo sentì una coltellata sul collo e svenne sugli altri cadaveri. Quando si svegliò riuscì a nascondersi nel bosco vicino. Da quel momento iniziò il suo difficile itinerario di salvezza. Dopo un lungo percorso di riabilitazione in Montenegro, grazie anche a una famiglia adottiva, è diventato cuoco diplomato e lavora come può nella Bosnia di oggi. È la prima volta che Zijo conduce persone amiche a visitare la casa dove la sua infanzia è stata cancellata.

Srebrenica, 9 luglio
La guerra a Srebrenica sembra non essere mai finita. Le case abbandonate, con le finestre vuote come profonde occhiaie, sono ancora numerose. Poche le novità rispetto all’anno scorso: in centro hanno costruito un nuovo albergo, che però non è mai stato aperto. Le terme, che erano state la fortuna della città, non possono riprendere l’attività. La Repubblica Srpska rivendica i propri diritti sulle acque contro il Comune, che invece sarebbe disposto a concederne l’utilizzo. La paralisi economica è il migliore incubatore di risentimento e di odio. Se non c’è rinascita la convivenza è più difficile.
Al memoriale di Potocari il sole fa risaltare il bianco delle migliaia di stele poste con perfetta regolarità sul prato, fino a risalire le prime pendici della collina. Nel silenzio si odono le poche voci degli addetti agli ultimi ritocchi di pennello sulle macchie di pioggia, in preparazione della cerimonia. Le fosse sono già state scavate qua e là, vicino alle tombe dei familiari; poche assi inchiodate trattengono la terra sui bordi.
Sull’altro lato della strada, nel grande spazio della fabbrica vuota di macchinari e in evidente abbandono, le pareti di cemento ospitano ritratti e nomi degli aguzzini, fotografie degli oggetti ritrovati addosso ai morti e alcune gigantografie di scatti oramai famosi. Gli operai stanno incollando le ultime immagini ai supporti di legno. Tutto in stretta economia. Più in là, in uno spazio rinnovato, viene proposto al pubblico un filmato da poco realizzato sull’assalto di Mladic alle migliaia di rifugiati rinchiusi vent’anni fa in quello stesso luogo, sulla resa ignominiosa dei soldati olandesi e sulla strage. Rispetto alle immagini offerte fino allo scorso anno il documentario attuale è più essenziale e obiettivo. Alle 15 avrebbero dovuto arrivare le 136 bare dei morti riconosciuti quest’anno al Centro di identificazione di Tuzla. Una piccola folla di parenti e amici resta in attesa, ma c’è un ritardo. Poi si sa che il convoglio è stato preso a sassate vicino a Zvornik; una corona di fiori è caduta a terra ed è stata calpestata da qualche fanatico. Dopo non molto appare un grande autocarro con il cassone ricoperto da un drappo azzurro. Entra lentamente e si ferma davanti al grande hangar di cemento. Le porte vengono aperte e una a una le bare sono fatte uscire; una lunga fila di uomini se le passa di mano in mano fino a deporle in file di dieci sul pavimento. Alla sera raggiungiamo la marcia che da Nezuk è diretta al memoriale di Potocari, ripercorrendo al contrario l’itinerario delle migliaia di fuggiaschi che dopo l’11 luglio ’95 cercarono rifugio verso le zone libere intorno a Tuzla. Sono già trascorsi due dei tre giorni di cammino, in tutto 90 chilometri a piedi. Arriviamo in una grande radura circolare; tutt’intorno il verde delle colline con il calare del giorno si fa sempre più cupo. Prima di entrare in quello spazio affollato un cartello fra gli alberi indicava a qualche centinaio di metri l’ubicazione di una fossa comune. Nel grande spiazzo spiccano sul fondo i camion militari della logistica che hanno trasportato le tende grige allineate ora in lunghe file e destinate al ricovero dei marciatori. Molte altre tende colorate danno all’accampamento un’apparenza più vivace e spontanea. I partecipanti sono migliaia, non tutti giovani. Molti sono emigrati che tornano dai molti paesi in cui 800.000 bosniaci hanno trovato una nuova casa. Altri arrivano anche da molto lontano per solidarietà. Molte le bandiere bosniache, solo alcune quelle turche. Pochi -dice chi ha camminato tutto il giorno- i segni di una presenza islamica radicale. Un drone sorvola l’accampamento per fotografare.
È Ramadan e molti non hanno mangiato sin dall’alba. Una minoranza ha anche evitato di bere. Allo scadere del digiuno un camion turco apre il portellone e comincia a distribuire centinaia di scatole con la cena. Dal palco gli altoparlanti trasmettono musiche a sfondo religioso o dedicate alle vittime di allora. Poi si alternano testimonianze sul massacro volte a suscitare emozioni forti negli ascoltatori. La marcia nel suo insieme ha uno spiccato carattere identitario tanto che per un serbo sarebbe difficile parteciparvi. Il clima, più che essere di conciliazione, suona chiaramente accusatorio. Per la grande maggioranza è un’occasione di memoria, di incontro, di solidarietà e di autoaffermazione; per molti è anche una sfida utile a misurare le proprie forze.

Potocari, 10 luglio
Le iniziative di riflessione pubblica sul ventennale di Srebrenica sono poche e non molto rilevanti. Poco spazio viene riservato alla parola. Al memoriale già di prima mattina vengono reinscatolate le migliaia di ossa di gesso messe in bell’ordine il giorno prima su un prato da un gruppo americano con qualche addentellato bosniaco. L’installazione era già stata proposta sul prato della Casa Bianca, ma Potocari è un’altra cosa e non sopporta interferenze di quella natura. Nella mattinata quello stesso gruppo organizza un incontro al Centro giovanile di Srebrenica. Si succedono interventi di persone molto sicure di sé, nei quali i termini genocidio, pace e riconciliazione ricorrono con grande frequenza. Anche Adopt è stata invitata e partecipa con due dei suoi membri. Il tono e il linguaggio sono però molto diversi. Per chi ascolta non è difficile misurare la grande distanza che separa la leggerezza delle parole lanciate al vento e la loro pesantezza quando anche solo pensarle evoca emozioni che tolgono il respiro.
Nel pomeriggio a Potocari c’è più gente del giorno prima. La marcia sta per arrivare e ampi capannelli si formano vicino alla moschea dove sono in corso le prime preghiere, oltre il grande cancello di entrata. Da lontano si vedono le bandiere che scendono dalla collina; ancora qualche decina di minuti e le avanguardie dei camminatori si affacciano dentro il memoriale. I gruppi sono compatti, così come vogliono gli organizzatori, per dare il senso di una partecipazione massiccia. Nei tanti che assistono all’arrivo cala il silenzio, che si accorda all’istante con la forte emozione ugualmente silenziosa di chi ha oramai raggiunto la propria meta: scoprire l’immensa distesa di cippi bianchi a Potocari, arrivando a migliaia dopo 90 chilometri di cammino attraverso le colline è un’esperienza difficile da dimenticare.
Più tardi c’è infine il trasferimento delle bare dall’hangar al prato vicino alla moschea. Insieme ai parenti spiccano le mimetiche di un folto gruppo di militari, disarmati come è stato sempre in questi giorni. Se ne stanno seduti per terra, defilati. Quando è il momento, si alzano e danno una mano. Il corteo dei feretri comincia a uscire dal grande portone. Molti sono portati a spalle da uomini e ragazzi in maglietta, per il gran caldo; dove mancano i portatori ci sono i soldati.

Potocari, 11 luglio
La giornata di sole ha senz’altro favorito il pellegrinaggio di migliaia e migliaia di persone. Auto e pullman arrivano da ogni parte. Al memoriale si popolano prima gli spazi in piano oltre i cancelli e i viottoli fra i cippi. Poi, pian piano la gente si sparge fra le tombe e risale la collina: i fazzoletti di tutti i colori che le donne portano in capo contribuiscono a mitigare la tristezza e la solennità del momento. La folla è seduta per terra o si sposta lentamente nelle direzioni più varie. È in ogni caso quella folla il soggetto portante della cerimonia. Sul prato sono allineate le 136 bare in attesa della sepoltura. La loro presenza fisica rende ogni cosa più vera e concreta. C’è un rapporto profondo e indissolubile fra i feretri e la folla, ma esso si estende anche alle autorità che dovranno prendere la parola e che si sentiranno guardate a vista da quei morti.
Ed ecco che, poco dopo le 11, la cerimonia ha inizio e quelle stesse autorità fanno la propria comparsa una dopo l’altra. Tutto si svolge all’interno dell’hangar e l’immagine degli intervenuti viene proiettata su uno schermo. I discorsi sono brevi e costruiti con cura. Le lingue solo due. Chi viene dalla Bosnia o dai paesi della ex-Jugoslavia non ha difficoltà a farsi capire. Gli internazionali come Bill Clinton, la Boldrini o il presidente turco Erdogan, parlano invece in inglese. La folla ascolta distrattamente e non sembra fare grandi preferenze.
Il clima si accende improvvisamente solo quando il presidente della Serbia Vucic, alla fine degli interventi, viene aggredito con sassi e scarpe mentre attraversa uno stretto corridoio di folla per avviarsi all’uscita. Al suo arrivo a Potocari le donne di Srebrenica hanno mostrato di apprezzare il gesto di omaggio che la sua venuta indubbiamente rappresenta, e questo malgrado le ben note affermazioni di fuoco da lui fatte in passato contro i musulmani. Ma quell’accoglienza, positiva e autorevole, alla gente non basta. Forse i primi a inscenare l’aggressione erano già lì preparati ad agire. È difficile dirlo. A contare di più è, in ogni caso, che l’atteggiamento della gran parte dei presenti non esprima alcuna forma evidente di dissociazione. La ferita è ancora aperta e può produrre reazioni imprevedibili. Se il presidente serbo ha deciso, per accreditarsi agli occhi dell’Europa, di presenziare alla commemorazione di un genocidio che il suo paese si rifiuta di riconoscere, questo purtroppo non significa che siano date le condizioni sufficienti per un riavvicinamento più esteso e duraturo fra le parti. E, in ogni caso, il ventesimo anniversario di Srebrenica, nella sua forza simbolica, sarà anche ricordato per quel gesto di evidente ostilità.