Umberto Mazzone insegna Storia della Chiesa e Storia dei movimenti religiosi presso il Dipartimento di Discipline storiche dell’Università di Bologna.

Lei ha studiato la vicenda di Dossetti in relazione al suo operato all’interno della Costituente, e ha messo in luce che uno dei suoi contributi meno investigati riguarda il diritto/dovere di resistenza, una battaglia importante dentro la Costituente ma forse non così valorizzata come meriterebbe.
Sì, è vero. Premettiamo che la stesura della Costituzione Repubblicana fu certamente uno dei momenti culturalmente e politicamente più ricchi e fecondi della storia italiana del Novecento. La proposta di Giuseppe Dossetti, allora giovane deputato democristiano all’Assemblea Costituente, s’inquadra in pieno in questo clima d’intensa passione civile.
Letteralmente, il testo proposto da Dossetti, all’art. 3, recitava così: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente costituzione, è un diritto e dovere d’ogni cittadino.
E’ questo l’abituale principio della resistenza, logico corollario dei due articoli precedenti. Cfr. Costituzione francese del 19 aprile 1946, articolo 21: “Qualora il governo violi le libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza sotto ogni forma è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri».
L’iter dell’articolo di Dossetti si concluse con un voto finale negativo e così il diritto di resistenza non è entrato a far parte del testo definitivo della Costituzione. Si può inoltre dire, al di là dell’insuccesso politico, che quella sia stata, tra le iniziative dossettiane, una delle meno conosciute e studiate. E pensare che era molto innovativa, soprattutto verso la cultura giuridica allora dominante in Italia. La questione tecnica principale, che talvolta assunse forme un po’ capziose e pretestuose, su cui si concentrò l’opposizione, lo scoglio contro cui s’infranse la proposta, fu il modo di dare concretezza a quel testo, di realizzarne un’effettiva praticabilità. Ovvero di trovare la risposta alla domanda su come garantire, per via costituzionale, l’esercizio di quel diritto/dovere. Come trasferirlo in una norma di diritto positivo? Come individuare chi è legittimato a decidere se e quando la resistenza diviene un diritto da esercitarsi nella realtà di un preciso momento della vita nazionale? A dire al cittadino che i poteri dello Stato, con un loro comportamento, hanno violato e, eventualmente, continuano a violare il dettato costituzionale? E, infine, come graduare la resistenza?
Vi era sicuramente nei Costituenti e nei giuristi che parteciparono al dibattito, la consapevolezza che intorno al diritto/dovere di resistenza ruotavano alcuni problemi cruciali per l’intero edificio dello Stato moderno.
Il diritto/dovere di resistenza, infatti, ha una lunga tradizione nella storia moderna europea. Non a caso la questione, già presente in Ugo Grozio, si pone nel pensiero costituzionale inglese già a partire almeno da John Locke. Appare poi nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese.
Il trauma causato alla coscienza europea dalle dittature del ‘900 e dagli esiti tragici della Seconda guerra mondiale ripropone con forza la questione della legittimazione della resistenza a un potere che si perverte in tirannia. Viene così ripreso nella legge fondamentale della Repubblica Federale tedesca (e ancor prima in quella di molti Länder tedeschi tra 1946 e 1947, come l’Assia, Brema, Berlino) dove è trattato come “diritto d’eccezione”, e reso positivo come diritto sussidiario a difendere la Costituzione, e nella prima Costituzione francese (respinta però dal referendum popolare nel 1946).
Purtroppo, ai Costituenti italiani, l’eco del dibattito europeo arrivava flebile. Nonostante l’impegno del Ministero della Costituente, che curò la diffusione di testi costituzionali anche stranieri, per la maggior parte dei costituenti i punti di riferimento rimanevano i giuristi di casa nostra, in particolare le tesi esposte in un lavoro di Vittorio Emanuele Orlando che risaliva al 1885. D’altra parte, gli esiti tragici di un ventennio di dittatura rendevano urgente e concreta la necessità di edificare un nuovo ordinamento dello Stato italiano, nel quale non potesse più verificarsi quanto era accaduto col fascismo. Potre ...[continua]

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