Ugo Zamburru è psichiatra di quartiere, Simonetta Canetti, infermiera, Michelangelo un ex paziente, Vanessa e Fenisia sono studentesse del Servizio psichiatrico diurno di via Leoncavallo, a Torino.
Com’è nata l’idea di puntare al recupero della salute mentale attraverso la gestione di locali pubblici?
Ugo. Siamo arrivati a questa scelta perché bisognava fare di necessità virtù. La psichiatria è stata nell’occhio del ciclone per un lungo periodo, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto quando si è mosso il movimento per la chiusura dei manicomi, sull’onda lunga del Sessantotto che aveva ampliato il suo fronte. Poi, una volta uscita la legge 180, dal 1978 fino agli anni Novanta, la psichiatria andava di moda, se ne parlava molto e le erano destinate molte risorse. Ricordo che nel 1984, quando ho cominciato a lavorare in questo ambulatorio, eravamo tre medici a tempo pieno, una psicologa a metà orario, due assistenti sociali e sei infermieri. Adesso, con i pazienti di allora più tutti quelli nuovi, quindi con un carico sicuramente molto più elevato mentre l’organico del personale è composto da uno psichiatra e mezzo, tre quarti di psicologa, quattro infermieri e un’assistente sociale. Le risorse sono diminuite in maniera spaventosa. La crisi dello stato di benessere ha influito anche su di noi.
Il fatto che i soldi scarseggiassero e che, sia in termini di opportunità che di risorse umane, ci fossero sempre meno possibilità (per esempio una volta era più facile tentare degli inserimenti con borse-lavoro) ha cominciato a farci riflettere sul fatto che occorresse battere strade nuove. Da un lato siamo anche stati contenti: “Non tutto il male viene per nuocere”, ci siamo detti. Perché, come ho già avuto modo di sostenere, lo stato di benessere ottenuto utilizzando i soldi e le leggi per garantire a tutti lo stesso servizio sanitario aveva creato, nei confronti dell’assistenza psichiatrica, un atteggiamento di delega. Soprattutto nel caso delle malattie mentali: quando qualcuno sta male l’atteggiamento comune è di affidarlo a chi è pagato per curare e ha le conoscenze per farlo. Magari isolando il malato. Ma così si eliminano quelli che io definisco i fattori spontanei della terapia psichiatrica, che sono il senso di appartenenza alla collettività e l’auto-aiuto, cioè la capacità della comunità di mettere in atto le proprie risorse per fronteggiare i problemi che si creano al suo interno. In questo caso le parole corrette da utilizzare per la gestione del problema sono due: “delega” ed “espulsione”. A questo comportamento si accompagnano poi le trasformazioni sociali, che creano sempre più difficoltà a occuparsi delle persone che non stanno bene.
Noi, però, non potevamo stare a guardare lamentandoci, né semplicemente potevamo sostenere di aver fatto “la nostra parte”, che è quella di garantire clinicamente una certa stabilità psicofisica dell’individuo, e quindi aspettare che al resto ci pensasse qualcun altro. Sarebbe stato anche un po’ sadico, come mettere uno nelle condizioni di camminare e poi tenerlo chiuso dentro una cabina telefonica. Tanto vale stare male, almeno non ti confronti col fatto che non hai lavoro, che sei isolato. Ci siamo allora chiesti cosa si potesse fare e, di fronte a questa situazione, l’idea di provare con la gestione di locali pubblici ci ha subito interessato.
Quali sono le vostre idee riguardo ai problemi psichiatrici e come pensate di metterle in pratica nel vostro progetto?
Ugo. Per poter comprendere il nostro progetto, non si può prescindere dal fatto che il problema psichiatrico è un nodo bio-psico-sociale. Sicuramente conta l’aspetto biologico, ma esistono anche l’aspetto psico ...[continua]
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